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La disciplina penale e l’omicidio pietatis causa

10. Paesi Bassi

15.1. La disciplina penale e l’omicidio pietatis causa

Il reato di omicidio è punito all’art. 310 c.p., mentre le condotte di istigazione e di ausilio al suicidio sono disciplinate dall’art. 315 c.p. Il Codice penale uruguaiano, inoltre, contempla la possibilità del perdono giudiziario per chi, mosso dalla pietas, uccide una persona che sta soffrendo; non prevede invece alcuna attenuante per chi collabora o aiuta un’altra persona a suicidarsi, prescindendo dal fatto che, anche in questo caso, il comportamento possa essere motivato da compassione.

L’art. 37 del c.p., infatti, disciplina l’omicidio pietoso, affermando che i giudici hanno la facoltà di esonerare da sanzione il soggetto di Il testo della legge è reperibile alla pagina https:// 303

legislativo.parlamento.gub.uy/temporales/leytemp7585007.htm

Eutanasia: Uruguay reglamenta la Ley de “Buen morir” o “Voluntad 304

anticipada”, in LaRed21, del 18/12/2013, reperibile alla pagina http://

www.lr21.com.uy/comunidad/1149112-eutanasia-uruguay-reglamenta- ley-buen-morir-voluntad-anticipada-uruguay

onorabili precedenti, autore di omicidio effettuato per motivi di pietà, a seguito delle suppliche della vittima. Dall’analisi del testo si evidenzia che:

• il soggetto attivo deve essere una persona di onorabili precedenti e non è necessario che sia un medico;

• il soggetto passivo deve trovarsi in una situazione di sofferenza oggettiva e deve essere capace di esternare ripetutamente la sua richiesta;

• l’elemento obiettivo consiste nell’aiutare il soggetto passivo a morire, quindi deve esserci un nesso causale tra l’omissione o l’azione posta in essere e il risultato letale;

• l’azione o l’omissione, dolosa, deve essere posta in essere per motivi di pietà;

• la conseguenza penale è la facoltà del giudice di applicare il perdono giudiziale . 305

L’opzione per la non punibilità si basa sull’assenza di pericolosità del soggetto attivo, mentre il requisito della probità viene interpretato nel senso che il soggetto attivo non deve avere precedenti penali. Questa causa di non punibilità è ritenuta pioneristica, ma in realtà la sua applicazione nella prassi giudiziaria è circoscritta e, nei repertori uruguaiani, non ci sino casi in cui sia stato applicato l’art. 37 c.p.

H.R. Almada, M.C. Curbelo, M. de Pena, R. Panizza, Eutanasia y Ley 305

Penal en Uruguay, in Derecho Médico y Legislación Sanitaria, reperibile

alla pagina https://www.smu.org.uy/dpmc/hmed/dm/revistaDM/eut- uy.htm

Conclusioni

Abbiamo visto come la storia del diritto a morire sia la storia di un vuoto legislativo, pur con alle spalle una norma costituzionale chiara come l’art. 32 Cost., o per meglio dire del combinato disposto degli art. 2, 13 e 32 Cost., che riconosce la massima ampiezza possibile al principio di autodeterminazione terapeutica e che si estende fino alla libertà del paziente di lasciarsi morire, attuata attraverso il consapevole rifiuto di farsi curare. Nonostante la chiarezza quasi lapalissiana della nostra Carta costituzionale, il legislatore sembra voler continuare a porre un freno all’effettiva capacità dei privati di autodeterminarsi (quantomeno in merito a scelte terapeutiche che non incontrano il favore di tutte le forze politiche all’interno del Parlamento).

L’articolo 580 del Codice penale, infatti, continua a punire, non solo chiunque determini altri al suicidio o ne rafforzi l’intento, ma anche chi semplicemente agevoli il malato terminale, ad esempio aiutandolo a raggiungere una clinica in cui possa decidere di avvalersi dell’aiuto al suicidio, come abbiamo visto nel caso di Dj Fabo e Marco Cappato.

Si potrebbe reinterpretare la fattispecie come non più posta a tutela della vita come bene in ogni caso indisponibile, bensì finalizzata a garantire che la scelta di morire sia sorretta da una volontà vera e seria, in presenza di motivazioni obiettivamente ragionevoli. In tale prospettiva, si tratterebbe di una fattispecie di pericolo astratto, in rapporto al rischio che la scelta di non continuare a vivere sia assunta quale effetto di una volontà viziata o immatura, o manifestata in circostanze che non consentano adeguate opportunità

di ripensamento. Così reinterpretata, la tutela penale andrebbe a collocarsi nella direzione di un paternalismo «debole», non incompatibile con una concezione penale liberale proprio perché essa finisce con l'assumere a ragione ispiratrice la preoccupazione per la reale autonomia dell'individuo che richiede di morire: si teme, infatti, che possa trattarsi di un individuo sostanzialmente incapace di intendere e di volere, e perciò incapace di esprimere un desiderio di morire reale, non frutto di cadute in errore, pressioni, forzature o manipolazioni da parte di altri.

Tale disciplina avrebbe bisogno di contesti strutturali, nell'ambito dei quali sia possibile attivare apposite procedure legali finalizzate a verificare sia l'effettività e la serietà della volontà di morire, sia la presenza di condizioni (come appunto nei casi di pazienti senza speranza che chiedono la sospensione delle terapie) che fanno apparire ragionevoli la rinuncia a una sopravvivenza non più desiderata.

Si potrebbe rivedere solo parzialmente l’art. 580 del Codice penale, principalmente distinguendo radicalmente l'istigazione al suicidio, che deve rimanere punita, dal semplice aiuto, che non dovrebbe essere sottoposto a pena o comunque essere sanzionato con pena fortemente diminuita, lasciando invariata la situazione di chi non è malato, il quale può continuare ad essere tutelato dalle norme incriminatrici tradizionali.

Inciso, quest’ultimo, che fa giustamente riferimento alla diversità della posizione del malato rispetto a quella di qualsiasi altro soggetto che viene protetto dalle norme a tutela della vita con riferimento ad una scelta suicidaria sostenuta da motivi non sanitari.

Si ritiene, pertanto, che una disciplina puntuale sia essenziale al fine di dettare modalità tali da consentire ed agevolare l’esercizio del fondamentale diritto all’autodeterminazione, visti già i passi avanti fatti con la regolamentazione delle D.A.T. Dovrà certamente trattarsi di disposizioni di legge che, quantomeno, agevolino e garantiscano l’esercizio di un diritto che, come abbiamo più volte evidenziato, è formalmente e inderogabilmente riconosciuto dalla nostra stessa Carta costituzionale, e non di disposizioni tese a limitarlo.

La vicenda di Dj Fabo e Marco Cappato ha dimostrato una apertura sostanziale alle istanze dell’autodeterminazione degli individui, segnando in modo indelebile il cammino verso il riconoscimento dei diritti delle persone sul proprio corpo (compito affidato adesso al Parlamento, il quale dovrà legiferare in materia entro settembre di quest’anno). Alla domanda se esista o meno, nel nostro ordinamento, un vero e proprio “diritto di autodeterminazione” in materia di salute non possiamo, perciò, che rispondere affermativamente: il diritto c’è ed è sancito dalla nostra Carta costituzionale.

Per quanto riguarda gli altri ordinamenti, dal punto di vista comparatistico, è possibile inquadrare i differenti sistemi più significativi in materia di disciplina della fine-vita in due modelli: quello a tendenza impositiva e quello a tendenza permissiva.

Da quanto detto sembra corretto sostenere come il modello a tendenza permissiva risulti, ad un’analisi di diritto comparato, segnato da un rapporto di maggior coerenza fra la soluzione concretamente adottata in materia di fine-vita e i principi di natura costituzionale diffusamente proclamati.

Abbiamo visto che, per assicurare l’autonomia del richiedente l’eutanasia o il suicidio assistito, è necessario soprattutto che il suo consenso sia realmente informato e libero. Inoltre, è necessario che lo Stato, affinché possa adempiere al compito di tutelare il soggetto anche contro se stesso, limiti l’accesso a queste pratiche in modo rigido e circoscritto.

Nella maggior parte dei casi il suicidio assistito è a disposizione solo dei malati incurabili e condannati a sofferenze atroci, che rendono la loro vita non degna d’esser vissuta, i quali dimostrino che la loro decisione estrema è stata presa spontaneamente e in assenza di qualsiasi coercizione.

A queste persone, riconosciute come soggetti non vulnerabili (cioè in grado di poter prendere una decisione ‘libera’ da ogni tipo di costrizione e quindi in piena autonomia), deve essere riconosciuto il ‘diritto ad una morte dignitosa’, nella consapevolezza che il suicidio assistito, così come l’eutanasia, non è una scelta fra la vita e la morte, né una scelta della morte contro la vita, bensì una scelta fra due modi di morire. Così intesa, infatti, la domanda per accedere a queste pratiche è ammessa solo quando la malattia è incurabile ed irreversibile. Essa, quindi, è finalizzata solo ed esclusivamente ad anticipare il tempo segnato di una morte certa. Al fine di ricapitolare il punto della giurisprudenza della Corte europea pare sufficiente affermare nuovamente che il suicidio assistito non trova protezione nell’art. 2 della CEDU, il quale tutela il diritto alla vita e non può tutelare il suo opposto, che, per la Corte, è il diritto alla morte. Spazi interpretativi sono offerti, invece, dalla disposizione di cui all’art. 8 (diritto alla vita privata), che ha conosciuto un’interpretazione estensiva, aperta a diverse

rivendicazioni di tutela di situazioni giuridiche per il riconoscimento del diritto a poter decidere come e quando terminare la propria vita.

La Corte, ancora, non ha precisato se sugli Stati insiste un obbligo di rispondere positivamente alle istanze dei cittadini che richiedono di poter porre fine alla propria esistenza, anzi, a ben vedere, il richiamo fatto al diritto di un individuo di decidere in che modo e in che momento mettere fine alla propria vita, purché tale volontà e il conseguente agire siano assolutamente liberi, ha avuto solo una portata ‘retorica’ e ‘non concreta’ (ma non per questo meno significativa), non avendo mai, la Corte, condannato alcuno Stato per non aver riconosciuto il diritto a morire.

Questa giurisprudenza, comunque, dovrebbe quanto meno avviare una discussione laica su un tema che in diversi Paesi continua a non essere affrontato, o perché si ritengono definitive le conclusioni a cui si è giunti, o perché si giudica il problema non sussistente. La mancanza o l’inadeguatezza della legislazione si rileva solo in caso di eclatanti fatti di cronaca che esigono risposte urgenti, il cui interesse poi scema e viene accantonato per essere sostituito da uno più attuale, per altre vicissitudini quotidiane di cui la politica decide di occuparsi.

Possiamo concludere sostenendo che la soluzione certamente più idonea per l’Italia (di cui, come detto, il Parlamento si deve occupare in modo improrogabile entro settembre), nonché conforme al dettato dalla nostra Carta costituzionale, sembra essere infatti quella di dotarsi di una legge che, facendo propri i principi stabiliti dalla CEDU, i principi stabiliti dalla Convenzione di Oviedo e, soprattuto, i principi contenuti all’interno della nostra

Costituzione, riconosca con disposizioni non dissimili da quelle adottate in Belgio (uno tra gli ordinamenti più aperti alle istanze di autodeterminazione del singolo) il diritto di ogni individuo di decidere della propria vita anche nella fase finale della propria esistenza.

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