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Capitolo 3. La destinazione orientale

3.1. La genericità della meta

In questa tesi si è scelto di soffermarsi sulle richieste che esplicitamente citavano la destinazione estremo-orientale. Lo spoglio delle oltre 1500 indipetae del periodo ha permesso di concludere che nella grande maggior parte dei casi non era presente alcuna specificazione relativa alla meta favorita. In generale, i frequentissimi accenni all’emulazione di Francesco Saverio fanno ipotizzare che sottintesa fosse spesso l’Asia orientale, ma non era neppure insolito per gli indipeti citarlo e chiedere esplicitamente le Indie occidentali quindi il legame tra l’Apostolo delle Indie e l’Oriente non era esclusivo.

Ferlan nota come “molti giovani che sognavano di trasferirsi in Asia o in America consideravano l’ingresso nella Compagnia come la strada migliore per raggiungere la meta” , e Maldavsky ipotizza che molti indipeti si candidassero per un desiderio di 1

“conoscer nuevas tierras y nuevos pueblos, enfrentarse con peligros y sufrimientos inéditos, alejarse de su familia, de su casa, ciudad y región” insomma scoprire “nuevos horizontes” . Quello che Fabre definisce “désir anterieur” era vero per molti indipeti, 2 3

tant’è che talora si ha l’impressione che la Compagnia di Gesù venisse scambiata per un’agenzia di viaggio, più che per un ordine religioso.

Fra i candidati qui presi in considerazione, Cesare Filippo D’Oria (quattro indipetae) scriveva da Genova che la sua “vocazione alle Missioni dell’Indie” era nata fin da secolare, e “fu uno de’ principali motivi che mi spinsero a chiedere la Compagnia”. Gesuita da dodici anni, in lui questo desiderio era sempre rimasto “vivissimo” benché,

Lo studioso nota inoltre che questa tendenza era riscontrabile “soprattutto dai primi anni del Seicento

1

[…] quando la coscienza apostolica della Compagnia di Gesù si era ormai saldamente concretizzata nelle missioni extraeuropee” (FERLAN, Claudio, “Candidato alle Indie. Eusebio Francesco Chini e le ‘litterae indipetae’ nella Compagnia di Gesù”, in FERLAN, Claudio (a cura di), Eusebio Francesco Chini e il suo

tempo. Una riflessione storica, Trento 2012, p. 51).

MALDAVSKY, Aliocha, “Pedir las Indias. Las cartas ‘indipetae’ de lo jesuitas europeos, siglos XVI-XVII,

2

ensayo historiogràfico”, in Relaciones Vol. XXXIII, N. 132 (2012), p. 168.

FABRE, Pierre-Antoine, “Un désir antérieur. Les premiers jésuites des Philippines et leur indipetae

3

(1580-1605), in FABRE, Pierre-Antoine e VINCENT, Bernard (a cura di), Missions Religieuses Modernes.

per sua stessa ammissione e “a dir il vero con mia grande confusione, non abbia mai co’ miei portamenti in alcuna maniera corrisposto alla grandezza di tal vocazione” . 4

Il milanese Maurizio Zaffino confessava al Generale che in lui era “sì ardente il desiderio delle missioni dell’Indie” che da “sempre, fino da Fanciullo quando anche non sapevo cosa si fussero Indie” le aveva agognate. Dopo essere entrato nella Compagnia di Gesù, ancora sentiva “sempre più crescere questa brama d’impiegarmi tutto nelle missioni degl’Infedeli” . Anche il ventiduenne Antonio Calcaterra ammetteva 5

apertamente che era proprio per recarsi oltremare che si era rivolto alla Compagnia di Gesù: gesuita da due anni, da tre “il Signore si compiace chiamarmi nell’Indie”. Questa vocazione si era manifestata un anno prima di farsi gesuita, e “questo fu sempre l’unico motivo per cui anteposi la compagnia ad ogn’altra religione, sperando in questa trovarne col tempo quello che sì ardentemente bramavo” . 6

Da questa testimonianza emerge molto chiaramente come la Compagnia si fosse fatta, grazie all’efficace propaganda delle Litterae annuae in un primo momento e delle specifiche e variegate pubblicazioni poi, una nomea di ordine prettamente missionario, operante in territori nuovi e inesplorati. Chi avesse voluto recarsi lì, quindi, non poteva che vedervi una via preferenziale rispetto ad altre ‘religioni’ (come nel linguaggio dell’epoca si definivano gli ordini regolari).

Girolamo Lombardi nella sua terza indipeta ricordava al Generale il desiderio che aveva “con somma avidità fin dalla mia fanciullezza” , ammettendo che era stato proprio “uno 7

de’ primi desiderii che concepissi dopo che hebbi uso di ragione”. L’oggetto delle sue brame era “dare tra barbari la vita per quel Dio che me la diede”. Il gesuita si stava addirittura organizzando autonomamente (“per certo ancor secolare avrei messo in essecutione un tal desiderio”), se non avesse sentito “per fama alcune cose de’ Gesuiti, che mi feccero credere più facile una tale essecutione in questa Religione che altrove”. Da questa riflessione scaturì la decisione “di vestirmi di questo habito, di che mi

ARSI, FG 750, f. 314, Genova 14 gennaio 1716.

4

ARSI, FG 749, f. 480v, Milano 6 agosto 1692.

5

ARSI, FG 751, ff. 211, 211v, 211vv, Nizza di Provenza 11 maggio 1722.

ritruovo sommamente contento” . Era cioè entrato nella Compagnia anzitutto perché 8

aveva sentito dire che i gesuiti erano habitué di viaggi - e martirii, l’altro suo desiderio. Analogamente Domenico Sorrentino scrisse la prima delle sue sei richieste, da Napoli, senza celare le ragioni della sua entrata nell’ordine: “non per altro mi sono affettionato alla Santa Compagnia, che per vederla impegnata di inviare soggetti all’Indie”. Come se il concetto non fosse stato espresso abbastanza chiaramente, ammetteva che,

prima di conoscere questo zelo sì pretioso nella Religione del Santo Padre, il mio genio non era punto

inclinato alla Compagna, ma tutto il mio cuore s’impegnò a volerla con la sola speranza di poter essere uno di quei fortunati . 9

In seguito rinnovò più e più volte la domanda, approfittando anche della circolare del 1722, oppure del fatto che un confratello lo avrebbe potuto portare con sé. Forse fu proprio questo elemento a far decidere per il sì il Generale: è di pochi mesi successiva una sua lettera di ringraziamento per l’ottenimento delle Indie. 10

Che cosa erano, di preciso, “le Indie” per i gesuiti d’età moderna? Roscioni ritiene che, più che un luogo reale, esse fossero un “paesaggio mentale” . Le mete 11

desiderate dagli indipeti nelle loro candidature comprendevano l’Estremo oriente e le Americhe anzitutto, ma anche il Vicino oriente o l’Africa . Ciò che contava, per loro, 12

era che una volta raggiuntele i ponti con l’Europa venissero recisi per sempre e non vi fossero più contatti con la vecchia vita. Ciò che aveva colpito indelebilmente l’immaginario di moltissimi europei in seguito alle scoperte geografiche d’età moderna era il fatto che, per la prima volta, i cristiani non si contendevano più il mondo con i nemici abituali (ebrei e musulmani), ma erano entrate in gioco nuove popolazioni,

ARSI, FG 751, ff. 299, 299v, Piacenza 20 settembre 1725,

8

ARSI, FG 750, f. 357, Napoli 9 luglio 1716.

9

ARSI, FG 750, ff. 258, 258v, Napoli 20 luglio 1723.

10

ROSCIONI, Gian Carlo, Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani, Torino

11

2001, p. 102.

Per alcuni gesuiti anche le zone afflitte da pestilenze potevano costituire una valida alternativa alle

12

“Indie”: i vertici della Compagnia, però, non erano particolarmente intenzionati a mandare a morte certa i giovani educati a loro spese, tanto più che in Europa il fabbisogno di missionari e insegnanti era costante.

inimmaginate, vissute fino al Quattro e Cinquecento senza conoscere il messaggio cristiano e poi cattolico che ambiva, appunto, a essere universale. Il pensiero di queste genti che morivano senza aver conosciuto la vera fede (così destinandosi alla dannazione) non dava pace ai gesuiti d’Europa e li spingeva a presentare le proprie istanze per salvarne le anime. A queste richieste i superiori e il Generale potevano tentare con ben scarso successo di contrapporre le “Indie di qua”, le “nostre Indie”: la svolta esistenziale garantita dall’avventuroso viaggio in un territorio sconosciuto e “deserto” (nel senso: privo di cristiani) non era minimamente paragonabile al rimanere sul Continente.

Avere delle preferenze riguardo alla destinazione era ammissibile ma probabilmente alcuni gesuiti credevano che da Roma fosse vista con più favore la “necesaria indiferencia por el destino geográfico” : questa convinzione era, in parte, la 13

causa del “carácter impreciso de la evocación de los lugares de misión por los redactores” . Non è certo se, fra coloro che specificavano una meta, si possano trarre 14

delle conclusioni univoche su quale fosse il Paese ritenuto più desiderabile .
15

Si può ritenere che una certa ignoranza geografico-culturale, o quantomeno una consistente vaghezza nelle aspettative, contraddistinguesse la maggior parte delle litterae indipetae. In relazione a questo tema Maldavsky nota come esse possano anche aiutare a comprendere di quale entità e qualità fosse la circolazione delle informazioni dalle zone di missione all’Europa in generale, e ai collegi gesuiti in particolare . Gli 16

allievi studiavano la geografia delle nuove terre scoperte: dalle preferenze da loro espresse, emergevano alcune conoscenze di base. Al di là di alcuni elementi, tuttavia,

MALDAVSKY, “Pedir las Indias”, p. 166.

13

Ibid., p. 167.

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Sono state eseguite soltanto delle ricerche topograficamente e cronologicamente parziali al riguardo: ad

15

esempio Giovanni Pizzorusso, analizzando le indipetae francesi fra 1607 e 1615, conclude che ben 46 candidature su 114 non specificavano la destinazione desiderata. Di coloro che esprimevano una preferenza, 46 indicavano un solo Paese (24 Costantinopoli, 12 le Indie, 8 il Canada, 1 la Grecia, 1 il Perù), altri più d’uno allo stesso tempo. Alcuni precisavano che, per questioni di salute, avrebbe ritenuto più adatti determinati climi (caldi o freddi); altri che, per non essere indotti in tentazione, non avrebbero desiderato essere inviati dove gli indigeni non fossero avvezzi a indossare vestiti.

Maldavsky spiega che le indipetae costituiscono “un ìndice de la circulación y de la apropiación de la

predominava in generale “una gran inconsciencia de la realidad de la misión a la que aspiraban” . 17

La studiosa sottolinea però anche come nel Milanese di primo Seicento (ma anche in altri centri editoriali, come Venezia) molte persone erano nelle condizioni di usufruire di testi (in latino o nel proprio volgare) che descrivevano le nuove scoperte geografiche . 18

Ciononostante, sembra verosimile che gli indipeti avessero del loro futuro da missionari un’idea piuttosto vaga. Certamente vi erano allusioni alla matematica nelle richieste di coloro che chiedevano la meta cinese: era diffusa infatti la convinzione che vi venissero inviati solo i missionari più preparati dal punto di vista scientifico e intellettualmente più brillanti. Il nesso Cina/matematica, benché presente in molte indipetae, era però basato su un fraintendimento, o meglio su una conoscenza parziale pilotata dalla propaganda gesuita. La Compagnia di Gesù aveva infatti tutto l’interesse a darsi lustro di fronte a benefattori (e detrattori), lasciando intendere che i loro missionari nell’Impero celeste fossero delle menti eccezionali, che operavano insieme ai più alti gradi della corte locale. Sapere che uno dei propri eredi avrebbe partecipato a un’impresa talmente prestigiosa rendeva le famiglie europee meno inclini alle proteste contro la Compagnia.

Per quanto riguarda le Indie occidentali, pare che i gesuiti non fossero molto informati sulla situazione geo-politica: ritenevano però gli indigeni pericolosi, e questo elemento di rischio costituiva per molti di loro un motivo di interesse e in quanto strada che

Ibid..

17

Maldavsky annovera fra gli autori di questa produzione enciclopedica le lettere dei missionari, i

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resoconti di Colombo Vespucci e Pigafetta, le opere di Ramusio, la Brevìsima relación de la destrucción

de las Indias, di Las Casas (Roma 1550), Gli costumi e la usanze dell’Indie occidentali, overo Mondo Nuovo (Venezia 1560) di Joannes Boemus, la Historia del Mondo Nuovo (Venezia 1572) di Girolamo

Benzoni, la Historia Natural y moral de las Indias (Venezia 1596) di José de Acosta, le Relationi

universali (Milano 1592) di Giovanni Botero (consigliere di Federico Borromeo), la Historiarum Indicarum di Pietro Maffei (1588) e altri (MALDAVSKY, Aliocha, “Société urbaine et désir de mission: les ressorts de la mobilité missionnaire jésuite à Milan au début du XVIIe siècle”, in Revue d'histoire

moderne et contemporaine Vol. 3, N. 56-3 (2009), passim). La città di Milano in particolare, dominata

all’epoca dagli Asburgo di Spagna (che dal 1580 regnavano anche in Portogallo), godeva di una posizione privilegiata in quanto al centro di una rete di circolazione di saperi piuttosto vasta. La Spagna si faceva latrice di una visione apologetica della conquista per evidenti motivi di opportunità; anche nell’Italia spagnola conseguentemente era diffusa l’esaltazione dell’ideologia imperiale. Le indipetae da un lato sembrano riflettere questa idea di missione civilizzatrice globale, dall’altro rivelano anche una certa fascinazione per ciò che era diverso, altro da sé: le mete cinesi e giapponesi anzitutto. L’élite milanese era molto attratta dalle cronache e dai paesi lontani, e alcune famiglie in particolare (i Settala per esempio) costituivano lo humus perfetto per scatenare una vocazione missionaria.

garantiva il martirio. La Compagnia di Gesù non poteva assecondare in toto manie suicide ma neppure spegnere con un eccesso di realismo i molti entusiasmi giovanili: secondo Maldavsky le lettere dei Procuratori dall’America meridionale esaltavano quindi la barbarie dei selvaggi indios - piuttosto che descrivere i ben meno fascinosi impieghi dei gesuiti nei collegi controllati dagli emissari dell’impero spagnolo. Non è da scartare l’idea che la Compagnia

mantuviera deliberadamente una imagen imprecisa y hasta errónea de sus provincias extraeuropeas, con el fin de fomentar la vocación misionera a través de tópicos capaces de estimularla porque correspondían a las aspiraciones espirituales, y también mundanas, de los candidatos . 19

Si mostrerà nel capitolo 4.1 come il passaggio dei Procuratori fosse senza dubbio responsabile di consistenti boom di candidature: per molti aspetti, gli indipeti italiani di Sei e Settecento si mostravano aggiornati sulle spedizioni oltremare. Marc’Antonio Paola mostrava chiaramente, nella sua unica indipeta, di possedere una 20

certa cognizione logistico-amministrativa al riguardo, accennando alla “congiuntura di varie Missioni, per quanto sento, così per l’Italia come per l’Indie”. Ciò gli dava il coraggio (“mi prendo l’ardire”) di rinnovare al Generale le sue “replicate instanze che per le dette Missioni ho fatte a Vostra Paternità quando mi ritrovava in Roma, e fuor di Roma ancora per mezzo dell’Assistente di Portogallo” . Benché si trattasse del suo 21

primo (e ultimo) documento scritto, Paola in precedenza aveva preso contatto personalmente con due figure che avevano il potere di volgere le sorti di una candidatura: per lui il documento indipeta aveva il solo valore di un nuovo richiamo. Allo stesso modo Domenico Nicolaj scriveva nel maggio del 1716 di aver “inteso” che nel mese di settembre sarebbero partiti “alcuni studenti di cotesta Città, e delle altre Provincie per l’Indie” , e per questo motivo rinnovava la propria richiesta. 22

MALDAVSKY, “Pedir las Indias”, pp. 164-165.

19

Registrato nell’elenco alfabetico degli indipeti come Isola, e non presente in quello dei defunti di Fejér.

20

ARSI, FG 750, f. 317, Siena 19 febbraio 1716.

21

ARSI, FG 750, f. 343, Napoli 30 maggio 1716. Nicolai scrisse quattro candidature fra 1716 e 1718, ma

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Per quanto riguarda le condizioni di vita concrete della destinazione, anche i candidati italiani di fine Sei e inizi Settecento non sembravano interessati a condividere col Generale informazioni particolareggiate sul contesto storico o geopolitico della terra richiesta. L’ignoranza della situazione svolgeva sicuramente un ruolo fondamentale in questa tendenza ma è probabile che, più in generale, non ritenessero opportuno né necessario accennare a questo genere di dettagli.

Nelle indipetae italiane del periodo, quindi, vi sono solo allusioni sporadiche alla missione orientale. A inizio 1695, ad esempio, Attilio Antonio Luci scriveva di aver “li giorni passati inteso sì belle nuove venute dalla Cina, che vi sia libertà di predicar l’Evangelio et fabricar Chiese e Collegii” . Il napoletano si riferiva all’editto di Kangxi 23

del 1692: ma è indicativo della difficoltà di circolazione delle informazioni notare che, all’inizio del 1693, il Generale gli avesse risposto che, “per allora, non vi era congiuntura per mandare soggetti alla Cina”. Nonostante le pie speranze cinesi, Luci sarebbe morto dopo tre anni a Napoli . 24

Tranne qualche eccezione, fra gli indipeti oggetto della presente trattazione dominava una consistente vaghezza relativamente a ciò che ci si aspettava e ancor prima anche sulla destinazione richiesta. Per fare solo alcuni esempi, Niccolò Longo chiedeva sì il Maduré (in quanto paese in cui gli sarebbe stata garantita una sofferenza maggiore), ma sarebbe stato pronto a una missione sita ovunque: “sia tra gli Eretici, sia tra gli Scismatici, sia tra i Gentili nell’Oriente o nell’Occidente: ecce ego, mitte me” . Al pari 25

di lui, Emanuel Querini (autore nel 1712 di un’unica indipeta) si dichiarava “prontissimo ad andar nell’una e nell’altra India, o ne’ paesi degl’Eretici o nella Tartaria, e ne’ Turchi […] a spargere i sudori ed anche il sangue” . 26

ARSI, FG 749, f. 633, Napoli 15 febbraio 1695.

23

FEJÉR, Josephus SJ, Defuncti secundi saeculi Societatis Jesu. 1641-1740, Romae 1985, p. 190.

24

ARSI, FG 751, ff. 130, 130v, Genova 16 novembre 1721. Longo partì con la 144esima spedizione

25

portoghese nel 1722 (WICKI, Joseph SJ, Liste der Jesuiten-Indienfahrer 1541-1758, in Aufsätze zur

Portugiesischen Kulturgeschichte Vol. 7, 1967, p. 321). Il suo nome non è presente nell’elenco dei defunti

né in quello dei gesuiti che raggiunsero la Cina quindi non è noto quale fu la sua fine.

ARSI, FG 750, f. 285, s.l. 7 agosto 1712. Anche Querini non è registrato fra i defunti della Compagnia

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Francesco Corsetti fu autore di alcune indipetae fra 1704 e 1705, e di una nuova ondata di candidature fra 1716 e 1718. Il gesuita (il cui destino è ignoto, ma con tutta probabilità non fu quello di missionario oltremare) esprimeva il desiderio che il Generale gli ordinasse di partire,

subito a pie’ scalzi senz’alcun viatico per la Germania, indi in Moscovia, indi in Batavia, indi alla Cina; o per qualsivoglia altra parte dell’Indie, o orientali o occidentali, che desideri, e subito mi udirà porre in esecutione i suoi comandi . 27

Salvatore Saverio Marino inoltrò a Roma ben sedici indipetae tra 1716 e 1717 e riuscì nell’intento di essere inviato verso Oriente, morendo però in mare nella Provincia Goana nel 1734 . In una delle sue petizioni scriveva di provare da anni un solo 28

desiderio, ossia quello di allontanarsi per sempre dalla propria “patria e regno natio, per attendere alla coltura delle anime o in mezzo a’ barbari e gentili, o heretici, o Maomettani” . In una delle lettere successive, il siciliano si focalizzava sulle Filippine, 29

ma si mostrava in verità aperto a qualsiasi necessità: scriveva che se il Generale avesse voluto destinarlo al Giappone “mi notifichi la sua volontà con minimo segno che io, in mancanza di barche, a nuoto mi porterò in quelle isole”. Se da Roma lo volevano mandare ad “addottrinare fanciulli nelle più infime schuole di grammatica, lo farò”; ancora, se era destinato a impegnarsi “ne’ ministeri de fratelli coadiutori, io stimerò somma somma mia fortuna il servire la Compagnia in questo stato, facendo la volontà di Dio” . 30

Da questa breve rassegna di testimonianze, emerge quale era in realtà l’elemento più significativo nelle litterae indipetae ossia non una presenza, ma proprio un’assenza: quella di ogni circostanziato riferimento alla realtà dove il candidato chiedeva con tutte le sue forze di essere inviato.

ARSI, FG 750, f. 308, Firenze 9 maggio 1715.

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Salvatore Saverio Marini (a meno che non si tratti di un omonimo) morì il 19 aprile 1734 “in

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mari” (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 235). ARSI, FG 750, f. 358, Palermo 20 luglio 1716.