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1.3. Istruzioni per gli indipeti: il manuale di Geronimo Pallas

1.4.1. Le costanti delle richieste: caratteristiche fisiche

La salute fu sempre uno dei fattori decisivi per l’accettazione di una candidatura: come nota Guerra, essa “era uno fra i più severi criteri di selezione fra i candidati, anche se non assoluto: la sola salute non bastava di per sé quando era accompagnata da altri gravi difetti” quali scarse capacità mentali, poca prudenza, vocazione flebile, 108

mancanza di equilibrio psicologico. Gli indipeti erano consci che il Generale avrebbe orientato la propria scelta in base anche a questo elemento, e se non godevano di una salute ottimale cercavano comunque di dipingerla in buono stato. Giovanni Andrea Ghersi scriveva ad esempio di non meritare le Indie, oltre che per i suoi “grandissimi demeriti”, per “la pocha sanità, di cui forse potrebbe Vostra Paternità havere non del tutto favorevoli relationi”. Assicurava però che la situazione non era affatto grave: “se per il passato l’abbondanza del sangue mi diede qualche fastidio, hora mi lascia riposare” . 109

I casi di gesuiti inviati nelle Indie nonostante una condizione fisica non ottimale non sono inesistenti, ma senz’altro minoritari. La salute malferma – o come tale presentata dai “rivali” dell’indipeta – poteva fungere da ostacolo “last minute” a una partenza già pianificata: Francesco Cappella si era già “imbarcato per il sospirato viaggio alle indie” ma all’improvviso gli fu imposto un “arresto” proprio adducendo tale motivazione. Il 110

gesuita aveva saputo dal Provinciale che il “motivo di tal cambiamento” era stata “l’esposta fiacchezza di mia salute”, che egli contestava. Cappella scriveva infatti che

GUERRA, “Per un’archeologia della strategia missionaria”, p. 153.

108

ARSI, FG 749, f. 355, Genova 3 marzo 1691.

109

ARSI, FG 751, f. 139, Napoli 30 dicembre 1721. In una indipeta napoletana di dieci giorni successiva,

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Giovanni Battista Carbone confermava che al Padre Cappella era stato impedito di partire: il primo chiedeva infatti le Indie, anche se “da più d’uno mi vien detto, che né pur io avrò questa grazia, conforme non l’ha in effetti avuta il Maestro Cappella, da cui ha voluto il Signore il Sacrifizio d’Isacco” (ARSI, FG 751, f. 144).

da “molti anni né pur son comparso per il minimo che all’Infermeria, ed ho potuto reggere alla fatica di viaggi ancor disastrosi”. Il gesuita insisteva col Generale che queste scuse di supposta malattia altro non erano che “pretesti, affacciati dall’umano affetto di chi altre volte pur s’ingerì, acciò i Superiori mutassero sentimento circa la mia persona”. Dalle sue parole sembra che i suoi familiari si fossero intromessi supplicando i superiori locali affinché dessero delle comunicazioni fuorvianti circa la sua salute. Aggravando ancora la situazione, anzi, “tal uno presso i due Padri Provinciali, passato e presente, giunse fino ad insinuare che io, già pentito, mal volentieri partissi”. Cappella rifiutava questa ingiusta sentenza e con la sua struggente lettera supplicava vivamente il Padre generale “che di nuovo mi v’accordi la Grazia tanto bramata”. Del siciliano non si sa se venne mandato nelle Indie e neppure se morì da gesuita, quindi è probabile che l’aziona familiare di boicottaggio abbia avuto successo.

Per quanto riguarda l’età degli indipeti, la maggior parte di essi non superava i trent’anni. Nel caso di un’età troppo bassa infatti si poteva ragionevolmente sospettare che la vocazione dell’indipeta fosse solo momentanea, giovanile, un furore adolescenziale non messo alla prova della ragione. Quando gesuiti particolarmente giovani scrivevano, sottolineavano quindi come la loro vocazione fosse stata testata da tempo e positivamente valutata da Padri spirituali e superiori vari. È quasi impossibile creare una statistica che generalizzi la situazione di tutti gli indipeti del periodo per quanto riguarda l’età o l’anzianità all’interno della Compagnia al momento della redazione della prima domanda ed eventualmente di quelle successive. La maggior parte, fra le migliaia di autori di indipetae fra 1687 e 1730, non specificava questo tipo di dato. Teoricamente si può risalire alle date di nascita di ogni gesuita sfogliando i Catalogi Triennales della sua Provincia, ma la ricerca sarebbe molto dispendiosa e inoltre spesso le informazioni sono mancanti (nel caso di persone rimaste nell’ordine per breve tempo, anzitutto) o scorrette (le differenze di registrazione di due, tre o anche cinque anni non sono infrequenti).

È però possibile mostrare, tramite alcuni esempi, come il contesto di concepimento di una candidatura fosse generalmente molto variegato . Concentriamoci sui nomi e i 111

dati di alcuni gesuiti che, fra 1687 e 1730, si distinsero per la loro persistenza nel 112

richiedere la missione, soprattutto orientale. A volte questo interesse per l’Asia era dovuto a circostanze contingenti (spedizioni in preparazione per la Cina, ad esempio), a volte da motivi familiari, altre volte era solo momentaneo e, nel tentativo di concretizzare la loro vocazione a operare nella vigna del Signore, questi indipeti erano pronti nel corso del tempo a riconvertirsi a qualsiasi altra destinazione. I redattori di queste candidature furono perlopiù prolissi e molto meticolosi nel descrivere i propri moti interiori, le ragioni che li avevano spinti a farsi gesuiti (spesso legate proprio alla missione), il desiderio di allontanarsi dalla propria Provincia di appartenenza e dai parenti, la conoscenza concreta della logistica delle spedizioni del tempo e simili dettagli.

Giovanni Berlendis, nato nel 1664 a Bari, fece il suo ingresso nella Compagnia a Napoli nel 1684 e da lì scrisse la sua prima indipeta un decennio dopo, a 30 anni d’età, manifestando in essa con minuzia di dettagli e molta veemenza la sua ossessione per il Giappone. Rinnovato altre due volte negli anni successivi il suo interesse per quella destinazione (e proponendo in alternativa l’Inghilterra o la Cina), egli rimase però in Italia e nella Compagnia fino alla morte, avvenuta a 81 anni.

Giovanni Battista Cancellotti, nato nel 1677 nella Provincia Romana, vergò a 27 anni d’età una sola candidatura, nella quale raccontava di essere indegnamente nella Compagnia da 12 anni e implorando di seguire l’esempio di Carlo Spinola e Francesco Saverio - ossia implicitamente chiedendo di recarsi nelle Indie orientali. Rimasta questa

Senza prendere in considerazione le candidature scritte in seguito al passaggio dei Procuratori o a

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epistole parenetiche del Generale, che spesso erano petizioni redatte una tantum da gesuiti che non si sarebbero più proposti come aspiranti missionari nel corso della loro carriera all’interno (o al di fuori) della Compagnia.

Tutte le informazioni biografiche che seguono sono tratte dallo Schedario unificato disponibile in

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ARSI, sub nomine, dai Catalogi Triennales della Provincia di appartenenza dei singoli gesuiti, dai repertori degli invii di missionari nelle Indie orientali e dei defunti della Compagnia. Poiché di molti di essi ci si occuperà più estesamente nel corso della presente dissertazione, in questa sede si sintetizza la loro vicenda soltanto con la finalità di mostrare la differenza di età presente nei vari gesuiti al conseguimento di determinati traguardi: l’ingresso nell’ordine, la prima indipeta, la professione del quarto voto, la dimissione dalla Compagnia, l’invio nelle Indie, la morte etc..

richiesta senza seguito, il gesuita pronunciò il quarto voto a Firenze nel 1712 (a 35 anni) e morì a Roma a 91 anni.

Agostino Cappelli, nato nel 1679 ad Ascoli, entrò nella Compagnia nel 1695 (a 16 anni) e scrisse la prima indipeta da Viterbo quattro anni dopo, chiedendo di essere inviato nelle Indie e ribadendo questo desiderio fino a quando, nel 1704 (a 25 anni), implorò di essere aggregato alla spedizione per l’Asia di Padre Castner. Ebbe successo, perché nel 1706 raggiunse il Malabar e nel 1715 (a 36 anni) vi morì.

Ippolito Desideri, nato a Pistoia nel 1684, scrisse una sola indipeta (dove accennò al Giappone) da Roma nell’agosto del 1712, a 28 anni, e dopo neppure un mese partì per l’Oriente. Missionario in Tibet per qualche anno, tornò poi in Europa e morì a Roma nel 1733.

Giovanni Battista Federici nacque nel 1693 e nel 1716 inoltrò a Roma la sua prima petizione da Palermo, a 22 anni. Rinnovò in seguito più volte le istanze per le Indie orientali fino a quando nel 1721 venne accontentato. Inviato l’anno successivo in India, vi morì nel 1726.

Filippo Maria Furnari, nato a Messina nel 1680, scrisse dalla Sicilia 11 indipetae a partire dai 21 anni d’età. Dopo un quindicennio di insistenze, finalmente le sue speranze si realizzarono e nel 1718 venne inviato nella Provincia delle Filippine; morì probabilmente fra 1746 e 1748 nelle Isole Mariane.

Ludovico Gonzaga, nato a Mantova nel 1673, entrò nella Compagnia a Bologna nel 1690 e redasse ventiseienne la sua prima indipeta da Ferrara, mostrando da subito un interesse, più volte rinnovato, per le Indie orientali e in particolare per la missione cinese (proprio a tal fine si era concentrato sugli studi di matematica). A 33 anni venne destinato alla Cina, pronunciò il quarto voto a Pechino nel 1708 e morì a Macao nel 1718.

Giulio Gori, nato a Siena nel 1686, entrò nella Compagnia nel 1704 a Roma e scrisse due lunghe e dettagliate epistole finalizzate a ottenere la missione cinese nel corso di quello stesso anno e del 1709, ossia attorno ai 22 anni. Non ottenne risposta positiva; nel 1719 professò il quarto voto a Firenze, morendo a Roma dopo una lunga e controversa carriera di studioso nel 1764.

Nicolò Migliaccio, nato a Palermo nel 1670 ed entrato nella Compagnia nel 1686, cominciò a inoltrare a Roma le sue candidature intorno ai 32 anni, ma il fatto che i superiori siciliani descrivevano le sue condizioni di salute come scarse impedirono la sua partenza, anche se non lo fecero desistere dal richiederla fino al 1704. In quell’anno divenne professo col quarto voto a Messina nel 1704 e morì poi a Roma nel 1718. Francesco Antonio Riccardi, nato nel 1670, entrò nella Compagnia nel 1694 e scrisse trentaduenne la sua prima indipeta da Torino, ricordando però in essa che già otto anni prima aveva fatto la stessa richiesta. Un anno dopo ricevette l’avviso di prepararsi a partire e, dopo qualche dilazione, nel 1708 raggiunse il Malabar, pronunciò il quarto voto nella Provincia Goana l’anno dopo e nel 1735 infine vi morì.

Francesco Maria Riccio, nato a Palermo nel 1693, entrò nella Compagnia nel 1709 e redasse la sua prima indipeta a 23 anni. Rinnovate più volte le istanze nei due anni successivi, nel 1724 venne dimesso, da 31enne scolastico approvato, dalla residenza di Regalbuto.

Carlo Sarti, nato a Cremona nel 1706, entrò nella Compagnia a 19 anni e scrisse tre anni dopo la sua fervorosa prima indipeta, cui fece seguito un’altra richiesta nella quale esplicitava che la destinazione da lui desiderata era la Cina (perché un suo zio missionario vi si era recato e la famiglia aveva sempre spinto affinché lui ne seguisse le orme). Replicò la sua richiesta un’ultima volta a 23 anni finché nel 1740, a 34 anni, da scolastico non ancora ordinato sacerdote, lasciò la Compagnia.

Giovanni Battista Vignoli, nato nella Provincia Romana nel 1682, entrò nella Compagnia nel 1707 e scrisse la sua prima indipeta a 32 anni, sottolineando come avesse scelto l’ordine ignaziano proprio perché gli avrebbe dato maggiori possibilità di realizzare la sua vocazione missionaria (ne aveva letto già da secolare e si sentiva chiamato alle Indie orientali). Ripeté le sue istanze dapprima per il Madurè, poi per il Tibet, infine per qualsiasi missione fosse possibile ma morì nel 1758 nella Provincia di nascita.

Questa dozzina di esempi sono più significativi di altri perché riportano i dati di molti dei gesuiti interessati (anche) alla destinazione orientale nel corso del trentennio

qui preso in considerazione. Le loro candidature perlopiù non scaturivano da un impulso del momento ed erano iterate nel corso del tempo.

Da questa casistica emerge che l’età in cui vergare la prima candidatura poteva essere molto diversa: generalizzando, c’era chi iniziava a informare il Generale della propria vocazione non appena fatto il suo ingresso nella Compagnia (a sua volta consequenziale al desiderio di missione), chi aspettava di avere raggiunto la trentina e terminati gli studi, e chi lo faceva nell’uno e nell’altro momento. Diventare membri dell’ordine ignaziano era un processo che aveva luogo, generalmente, intorno ai sedici anni di età ma non erano infrequenti le eccezioni, soprattutto nel caso di chi studiava da secolare e solo in seguito si convertiva a una carriera religiosa.

Relativamente all’età in cui il gesuita si sentiva nelle condizioni di smettere di inoltrare a Roma le proprie istanze, convinto che fosse ormai impossibile nutrire speranze concrete, allo stesso modo i dati mostrano una grande varietà. Alcuni gesuiti insistevano per pochi anni, altri per decenni, anche fino a quando non avevano raggiunto un’età avanzata per l’epoca. D’altronde, come si evince dal destino di alcuni di essi, per il Generale non era implausibile destinare alla missione un uomo che aveva già superato la trentina e si stava magari candidando alle Indie da oltre metà della sua vita.

Riportiamo qui di seguito alcune affermazioni degli indipeti “anziani” del tempo. Giovanni Lainez chiedeva la missione di Tunisi benché avesse già cinquantatré anni, manifestando il desiderio di “spendere il resto della [...] vita in aiuto più immediato di quell’anime più bisognose” . Probabilmente il gesuita non fu accontentato, perché 113

morì nella Sicilia da cui scriveva una dozzina d’anni dopo . 114

Un altro gesuita apparentemente non preoccupato per l’età avanzata era Giuseppe Scapecchi chiedeva le Indie, nella fattispecie “le più laboriose e più orride che si trovino” . Era la prima richiesta che vergava ma – specificava – il Generale non 115

doveva per questo pensare che prima non nutrisse desiderio per le Missioni indiane.

ARSI, FG 750, f. 83, Palermo 23 febbraio 1700.

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Lainez morì a Palermo il 28 dicembre 1712 (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 106).

Scapecchi si era trattenuto solo perché fino a quel momento non aveva ricevuto alcuno “speciale impulso” a richiederle.

Conscio che il Padre generale avrebbe potuto pensare che la sua età fosse eccessiva per una tale missione, il gesuita lo pregava “a non riguardare l’età mia di 56. anni: perché io per la divina Grazia [...] mi sento con buona sanità, senza dolor di testa né di stomaco, accomodato a ogni sorte di cibo, che ha retto anche al Mar burascoso”. Accettare la candidatura di un gesuita di una certa età poteva anzi secondo lui avere dei vantaggi notevoli:

si può metter a risparmio dell’età gli studi già fatti; essendo io, benché indegnamente, un Professo e avendo letto anche Filosofia; oltre a molt’anni di lettere umane e ora mai undici anni di Rettorica in Firenze; avendo fatto anche alle volte delle Missioni senza incomodo.

Destinare alle Indie un gesuita d’età avanzata poteva rivelarsi ancor più conveniente che scegliere un giovane, senza esperienza di lunghe navigazioni e senza che avesse terminato i propri studi. Il Generale non ne era convinto e la sua segreteria vergò sul retro della lettera un neutro “dimanda le Indie benché in età di 56 anni”, e Scapecchi 116

morì a Roma nel 1734, confermando altresì la buona costituzione che lo portò alla veneranda età di settantatré anni.

In generale, comunque, è possibile ipotizzare che talora venisse premiata dal successo e dall’invio in missione la strategia di perorare la propria candidatura per un quindicennio, di resistere alle avversità che spesso presentavano i familiari o i superiori locali, di non abbandonare la speranza nonostante la situazione politica e diplomatica del momento fosse complessa (si fa riferimento soprattutto al caso cinese).

Il Generale, a sua volta, selezionava il personale missionario non solo sulla base dell’indipeta, ma anche secondo quanto gli veniva riferito dai superiori locali e assecondando le preferenze espresse dai Procuratori. Per questa ragione non si può generalizzare affermando che il candidato venisse accontentato dopo una, tre o dieci richieste perché vediamo come per far partire Desideri e Riccardi ne fosse bastata una, per Cappelli tre e per Furnari undici, e nell’arco di un quindicennio. Come si mostrerà

Giuseppe Scapecchi morì a Roma il 22 marzo 1734 (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 43).

nel capitolo finale, affinché una candidatura qualsiasi fra centinaia d’altre diventasse “di successo” era necessario che concorressero diversi elementi.

Il ruolo del mancato soddisfacimento della richiesta indiana verrà discusso nel dettaglio nel capitolo 4.3., ma già da questi pochi casi emerge come si possa ritenere che, in alcuni casi, esso influisse negativamente sulla vocazione religiosa dell’indipeta in generale. I candidati delusi nel loro desiderio di missione da un numero maggiore o minore di dinieghi si ritrovavano frustrati proprio nella principale istanza che aveva fatto loro scegliere l’ordine ignaziano. Non era insolito quindi che decidessero di rassegnare le proprie dimissioni da esso, come testimoniato dai casi di Sarti, Riccio, Romeo e molti altri.

Relativamente alla vita media dei gesuiti, poi, Alden ha dimostrato che i membri dell’Antica Compagnia, che fossero in missione oltremare o che rimanessero sul Vecchio Continente, avevano un’aspettativa di vita media notevolmente più alta (fino al 30% in più) degli aristocratici europei coi quali, per condizioni culturali ed economiche, è possibile compararli . Lo studioso ha preso in considerazione l’età media di morte 117

dei gesuiti fra 1525 e 1700 ed è giunto ad altre interessanti conclusioni: anzitutto che i gesuiti che operavano nella Provincia del Portogallo vivevano, in media, di meno (intorno ai 54 anni) dei loro confratelli nelle Indie orientali e in quelle occidentali (intorno ai 59 anni).

I gesuiti erano più longevi anzitutto grazie al voto di castità, che impediva loro di contrarre le malattie veneree responsabili delle morti di molti nobili, in Europa così come nelle Americhe o nelle Indie. Allo stesso modo non era infrequente che questi ultimi incontrassero la propria fine a causa di duelli e combattimenti violenti che ai gesuiti erano proibiti. Se si immagina un missionario in viaggio per mare per mesi, tra scorribande di pirati e tempeste, che raggiunge una Provincia diversa dalla propria in mezzo a mille difficoltà concrete, si potrebbe credere che la sua vita ne risultasse inevitabilmente ridotta. In realtà, però, molti gesuiti si trovavano solo per poco tempo in queste condizioni di vita, perché la maggior parte delle loro attività si svolgeva poi nelle

ALDEN, Dauril, The Making of an Enterprise: the Society of Jesus in Portugal, its Empire, and Beyond

residenze urbane del nuovo Paese, meno pericolose e create a somiglianza di quelle europee. I gesuiti, inoltre, erano abili maestri della farmaceutica e spesso non solo i confratelli ma anche i nobili o gli indigeni si rivolgevano a loro per guarire o migliorare la propria salute. Infine, la dieta equilibrata e la moderazione, anche in campo alimentare, su cui le Costituzioni insistevano, fece sì che gli eccessi che causavano le morti premature di molti laici del tempo non mietessero quasi mai vittime fra i gesuiti.

Dai casi sopra sintetizzati, e in generale per quanto riguarda i gesuiti italiani tra 1687 e 1730, si può concludere che alcuni di essi, certamente, perirono in mare, mentre altri a causa di malattie contratte durante la navigazione o per spossatezza nel primo periodo di permanenza in terra di missione. In alcuni casi sembra inoltre che il mancato invio deciso dal Generale sulla base di cattive condizioni di salute del richiedente avesse un suo fondamento: i candidati segnalati come malati dai superiori, spesso, morivano pochi anni dopo nella loro Provincia di appartenenza, ed è probabile che oltreoceano non avrebbero avuto una lunga e fruttuosa carriera missionaria. Ciò è vero ad esempio nel caso di Federici, che arrivò sì in India ma, come i suoi stessi familiari avevano predetto, a causa delle sue condizioni fisiche non poté operarvi che pochi mesi . Al 118

contrario di lui, altri indipeti che non vennero accontentati raggiunsero età ragguardevoli nella propria Provincia di origine, allo stesso modo di coloro che partirono missionari. In generale quindi sembra che le diverse condizioni di vita in terra di missione non incidessero significativamente sulla durata media della vita di un gesuita d’età moderna.

Cfr. cap. 4.3..