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2.1. “Anco stando al secolo … mi dilettavo di leggere le lettere annue” 1

La sterminata mole di materiale propagandistico che aveva visto la luce fino al Settecento fa sì che le letture dei candidati per le Indie fra 1687 e 1730 fossero numerose e di varia natura, ma gli accenni o richiami nelle litterae indipetae all’utilizzo di tali materiali sono purtroppo decisamente rari.

La documentazione prodotta dalla Compagnia di Gesù fu molto consistente, e direttamente connessa alla tendenza alla grafomania e alla conservazione delle proprie carte che la contraddistinse fin dalla sua fondazione. Come notava padre Lamalle, l’aver “elevato la corrispondenza al livello d’un organo ordinario di governo” fece sì che, fin 2

dai primi anni dalla fondazione, l’impresa missionaria oltremare divenne nota in Europa proprio grazie alle epistole dei suoi missionari. Queste ultime erano in un primo momento indirizzate dai sottoposti ai superiori per aggiornarli sui risultati conseguiti : il 3

loro contenuto era però così accattivante, innovativo e unico che immediatamente se ne notò il potenziale anche per conquistare i laici.

In un primo periodo, tra 1552 e 1570 circa come ricorda Maldavsky , le lettere dei 4

missionari venivano pubblicate, ma in maniera sporadica e senza una logica sottesa. Russell sottolinea come questa

ARSI, FG 751, ff. 338, 338v, Roma 5 dicembre 1727.

1

LAMALLE, Edmond, “L’archivio di un grande ordine religioso: l’Archivio Generale della Compagnia di

2

Gesù”, in Archiva Ecclesiae Vol. 34-35, N. 1 (1981-1982), p. 93.

Nel paragrafo VIII delle Costituzioni veniva stabilita la frequenza con la quale i gesuiti dovevano

3

scrivere ai propri superiori. Ogni teorica pianificazione, però, dovette scontrarsi ben presto con enormi difficoltà che ne resero impossibile l’applicazione: la mobilità e la dispersione dei missionari, insieme ai problemi logistici del tempo affinché la posta giungesse a destinazione, condussero alla produzione di una ulteriore guida ad hoc. La Formula scribendi venne inserita dal 1580 nelle Regulae dell’ordine e costantemente aggiornata e modificata a seconda delle esigenza del momento. Tutto questo conferma ancora una volta la malleabilità e la capacità di rispondere alle esigenze del momento da parte dell’ordine ignaziano.

MALDAVSKY, Aliocha, “Pedir las Indias. Las cartas ‘indipetae’ de lo jesuitas europeos, siglos XVI-XVII,

4

unsystematic way in which reports were collected, edited, translated, and published on arrival in Europe, produced a river of information flowing from the East that was extremely piecemeal and unreliable . 5

Le Litterae Annuae divennero protagoniste di un’edizione pianificata da Roma a partire dal 1583, e lo rimasero, con qualche lacuna temporale, fino al 1654 . Esse sono state “la 6

serie più consultata dagli autori di monografie” ; quelle inviate dalle Province 7

d’oltremare ricostruivano per il lettore dell’epoca (ma anche odierno)

una atmosfera di […] ampio respiro […] terre nuove e genti nuove, problemi umani e religiosi in grande parte nuovi (valutazione dei pensieri e dei culti indigeni, creazione d’una terminologia religiosa nuova in lingue già molto evolute, poi tutti i problemi dell’adattamento[…]) […] un clima eroico, di rischio . 8

I gesuiti, così come un folto pubblico laico, attendevano in Europa con grande entusiasmo di scoprire tutte le ultime novità dai mondi a loro ignoti.

Nel secolo successivo le eredi settecentesche delle Annuae, sempre più rimaneggiate e di grandissimo successo di pubblico, furono le Lettres édifiantes et curieuses des missions étrangères par quelques missionnaires de la Compagnie de Jésus (pubblicate a Parigi tra 1702 e 1776, i cui protagonisti erano perlopiù gesuiti francesi) e la raccolta tedesca della Neue Welt Botte (a sua volta composta da traduzioni delle lettere francesi, con l’aggiunta di altra documentazione). Da queste due derive Lamalle prendeva nettamente le distanze e anzi le considerava quasi un falso rispetto alla originaria 9

documentazione prodotta dalla Compagnia di Gesù, che ne fuorviò la ricezione da parte dei laici d’Europa e spesso scandalizzò gli stessi gesuiti.

RUSSELL, Camilla, “Imagining the ≪Indies≫: Italian Jesuit Petitions for the Overseas Missions at the

5

Turn of the Seventeenth Century”, in L’Europa divisa e i nuovi mondi. Per Adriano Prosperi, Vol. 2, Pisa 2011, p. 181.

Il titolo completo era: Litterae annuae Societatis Iesu anni … ad Patres ac Fratres Societatis Iesu. Per

6

una lista delle numerose edizioni e raccolte in tal senso si veda POLGAR, Laszlo, Bibliographie zur

Geschichte der Gesellschaft Jesu, Roma 1967, pp. 130-131.

LAMALLE, “L’archivio di un grande ordine religioso”, p. 104.

7

Ibid., p. 109.

8

“Tornando, così manipolati, nel luoghi di origine, certi racconti mettevano a disagio ... la fiducia che

9

Nelle indipetae esaminate per questa tesi non è possibile ravvisare molti accenni diretti a queste letture – che però quasi certamente erano familiari a molti candidati. Alcuni di essi si sbilanciavano e riconducevano la causa del proprio “désir anterieur” ad esse: ad 10

esempio, Francesco Saverio Farugi raccontava, nella sua unica candidatura, come la sua vocazione alla missione fosse sorta prima ancora di quella più generale alla Compagnia di Gesù. Il diciannovenne scriveva:

il principio […] di questo mio desiderio fu anco stando al secolo, perché mi dilettavo di leggere le lettere

annue della Compagnia e sentire i martirii d’essa; la qual lettura non solo mi accrebbe il desiderio d’entrare nella Compagnia ma ancora, se a Dio piacesse, impiegare la mia vita e anco il mio sangue in pro di que’ regni . 11

Al di là delle fonti scritte, poi, potevano entrare in gioco anche altri media. Come nota Russell, gli indipeti erano “far from operating in an informational vacuum […] and in making their case for selection, they draw on a wide variety of non-textual sources to frame their vocation” . Anzitutto, sicuramente il passaparola aveva una certa 12

rilevanza all’interno dei collegi gesuiti: molti studenti in un certo senso scoprivano una vocazione alla missione solo dopo aver sentito che i loro confratelli erano stati destinati alle Indie. Allo stesso modo, il passaggio dei Procuratori era in grado di accendere il 13

desiderio anche in gesuiti che fino a prima non si erano mai immaginati come missionari.

La pittura, soprattutto, era un mezzo di propaganda molto efficace di cui la Compagnia di Gesù si serviva abitualmente: i martirii dei suoi missionari, combinati all’ambientazione esotica delle più lontane terre, avevano un fascino senza pari per molti ragazzi. La Compagnia era conscia del potere di persuasione offerto dalle immagini e non lesinava di approfittarne, arredando i collegi con quadri che agli occhi odierni sembrano crudi e morbosi, ma rientravano perfettamente nei canoni del gusto

Termine mutuato da FABRE, Pierre-Antoine, “Un désir antérieur. Les premiers jésuites des Philippines

10

et leur indipetae (1580-1605), in FABRE, Pierre-Antoine e VINCENT, Bernard (a cura di), Missions

Religieuses Modernes. “Notre lieu est le monde”, Roma 2007, pp. 71-88.

ARSI, FG 751, ff. 338, 338v, Roma 5 dicembre 1727.

11

RUSSELL, “Imagining the ≪Indies≫”, p. 182.

12

Cfr. capitolo 4.1.

dell’epoca. Inoltre, nel dipingere le scene di sacrifici della fede si puntava a stabilire una stretta analogia tra i moderni missionari gesuiti e i loro predecessori, ossia i primi apostoli cristiani.

Secondo Maldavsky, non è da sottovalutare il ruolo che rivestivano le rappresentazioni pittoriche di gesuiti che operavano in missione: chi frequentava i collegi, ad esempio, era solito vedere appesi quadri che illustravano i cruenti martirii nelle pericolose Indie, orientali o occidentali. Russell cita invece un indipeta che raccontava espressamente di aver deciso di inoltrare la propria candidatura dopo aver visto “due ritratti, l’uno del Beato Nostro Padre Ignazio et l’altro del Beato Francesco Xaverio, della qual vista mi penetrò dentro al cuore et mi accese un desiderio di patire e morire per Christo” . 14

Non solo le rappresentazioni truculente potevano conquistare i giovani gesuiti d’Europa e spingerli a presentare la propria candidatura delle missioni. Molti indipeti erano a conoscenza dei martirii dei loro confratelli, ma anche più genericamente delle loro avventure nei Paesi lontani: vedere coi propri occhi con quali fogge essi si trovavano a mascherarsi e mimetizzarsi doveva incuriosirli e rinvigorirli nella vocazione alla missione. I gesuiti erano soliti “travestirsi” sostanzialmente per due motivi: per nascondersi in caso di persecuzioni anti-cattoliche (come nell’Inghilterra elisabettiana) o di ostilità degli abitanti dei Paesi in cui operavano, o per praticare l’accomodatio quando si trovavano a contatto con una cultura completamente diversa dalla propria. L’abito era uno degli aspetti più evidenti e curiosi dell’adattamento all’Altro e gli indipeti potevano venirne a sapere, oltre che dalle descrizioni scritte, entrandovi in contatto attraverso i quadri presenti nelle strutture della Compagnia. Non è improbabile

ARSI FG 733, f.. 301, s.l.. 29 maggio 1605, lettera di Giuseppe di Maio cit. in RUSSELL, “Imagining

14

the ≪Indies≫”, p. 188. Non è noto il luogo di redazione della lettera né purtroppo a quali quadri in particolare si riferisse l’indipeta, ma il fatto che abbia citato due gesuiti che non morirono da martiri dava alla richiesta “more gravitas than any reference to the many textual accounts of contemporary martyrs might have done” (ibid.). Lo scopo delle indipetae era convincere il Generale, non mostrargli quali fossero le fonti letterarie della vocazione: i supporti visivi, per alcuni candidati, erano forse ritenuti più

quindi che alcuni gesuiti divennero indipeti dopo aver visto una rappresentazione pittorica di un confratello in missione, e non necessariamente crude scene di martirio . 15

Francesco Saverio (1506-1552) fu per tutto il periodo dell’Antica Compagnia (e probabilmente anche in seguito alla restaurazione) la figura nominata con più fervore e più frequentemente nelle litterae indipetae: nei missionari “devotion and mimesis went hand in hand” e tutti i gesuiti volevano ricalcare le sue orme. L’invocazione 16

all’Apostolo delle Indie compariva soprattutto (ma non solo) fra coloro che inoltravano un’istanza finalizzata all’invio in Cina, ove egli non era giunto mai. Morto nel 1552 in attesa di una imbarcazione che l’avrebbe probabilmente portato nel tanto agognato Impero Ming, egli divenne nondimeno un patrono, una presenza costante nella maggior parte delle candidature per le Indie.

In particolare Saverio scrisse una decina di epistole che furono le prime a dare in Europa una descrizione di una certa rilevanza del Sol Levante . I giapponesi furono da 17

lui descritti come “la gente […] migliore che in fin’adesso si sia scoperta e fra l’infedeli me pare non se troveria altra migliore” nonché “de molta buona voluntà, amorevole e desiderosa di sapere” : molti dei suoi successori avalleranno l’idea. 18

Ben lontano dall’ottimismo di Francesco Saverio fu Alessandro Valignano (1539-1606), figura eccezionale che plasmò le missioni giapponesi e cinesi per i secoli a

Cfr. PAVONE, Sabina, “Spie, mandarini, bramini: i gesuiti e i loro travestimenti”, in Il Capitale

15

culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage Vol. 7 (2013), pp. 227-247. Alle pp. 244-247 sono

riprodotte alcune suggestive rappresentazioni pittoriche di gesuiti d’età contemporanea (Ottocento) che indossano abiti appartenenti a differenti culture (gentiluomini inglesi in epoca di persecuzioni anti-cattoliche, mercanti musulmani in Asia centrale, letterati confuciani in Cina etc.).

STRASSER, Ulrike, “Copies With Souls: The Late Seventeenth-century Marianas Martyrs, Francis

16

Xavier, and the Question of Clerical Reproduction”, in Journal of Jesuit Studies Vol. 2 (2015), p. 568. Cinque epistole vennero scritte da Saverio a Kagoshima nel 1549, poco dopo il suo arrivo, e altre

17

quattro da Cocin nel 1552, dopo che aveva lasciato per sempre il Paese. Esse sono state tutte edite in SCHURHAMMER, Georg e WICKI, Joseph, Epistolae S. Francisci Xaverii aliaque eius scripta, Roma 1944-1945. Vi è una loro traduzione completa italiana nell’edizione a cura di CABONI, Adriana, Dalle

terre dove sorge il sole. Lettere e documenti dall’Oriente 1535-1552, Roma 1991.

Lettera del 5 novembre 1549 da Kagoshima, edita parzialmente in BOSCARO, Adriana, Ventura e

18

sventura dei gesuiti in Giappone (1549 – 1639), Venezia 2008, pp. 179-185 (da cui qui si attinge per tutte

venire . Il gesuita non riteneva che le esagerazioni e gli abbellimenti presenti in buona 19

parte delle Litterae annuae e in generale nei resoconti dall’Asia orientale fossero utili alla causa della Compagnia: anzi, talora, potevano dare adito a fraintendimenti molto pericolosi. Valignano era conscio di come in Europa si formassero, “per le lettere da chi vanno, concetti molto differenti da quello che si ritrova, onde nasce che si raffreddano quando se veggono in queste parti” . Nominato Visitatore dell’immensa zona asiatica, 20

Valignano si era accorto che molti gesuiti erano stati attratti nelle Indie per via dei messaggi eccessivamente entusiastici pervenuti in Europa: una volta giunti alle missioni oltreoceano, però, la dura realtà locale li deprimeva e spaventava. Oltre a ciò, Valignano aveva fondati sospetti che i superiori europei frequentemente destinassero alle Indie elementi di dubbio valore: “i provinciali d’Italia […] invece che a favorire la Gran Missione” avrebbero soltanto “badato a liberare le case professe e i collegi italiani degli incapaci e degli irrequieti: quale provvidenziale opportunità, ai loro occhi, quelle designazioni!” . 21

Valignano fu autore di due opere sul Giappone : benché questi trattati riportino il suo 22

nome, essi erano più il risultato del “collective work of a team of European and Japanese collaborators” , primo fra i quali il portoghese Luís Fróis (1532-1597) . Gli 23 24

Advertimientos aserca de las costumbres de los Jappones (anche noti come

Su Valignano si vedano le monografie (cui si rimanda per una più ampia bibliografia) di VOLPI,

19

Vittorio, Il visitatore. Alessandro Valignano, un grande maestro italiano in Asia, Spirali, Milano 2011 e TAMBURELLO, Adolfo et al. (a cura di), Alessandro Valignano S.I., uomo del Rinascimento: ponte tra

Oriente ed Occidente, Roma 2008; cfr. anche il saggio di HOEY, Jack B., “Alessandro Valignano and the Restructuring of the Jesuit Mission in Japan, 1579-1582”, in Eleutheria Vol. 1, N. 1 (2010), p. 23-42.

ROSCIONI, Gian Carlo, Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani, Torino

20

2001, p. 98.

Fu questa una delle motivazioni per cui il Visitatore si impegnò affinché fosse il Generale, e non i

21

Provinciali, a decidere chi inviare nelle Indie (ibid., pp. 100-101).

VALIGNANO, Alessandro, Il cerimoniale per i missionari del Giappone, a cura di SCHÜTTE, Josef Franz,

22

con saggio introduttivo di CATTO, Michela, Roma 2011; Sumario de las cosas de Japón (1583): Adiciones

del Sumario de Japón (1592), Sophia 1985.

LOUREIRO, Rui Manuel, “Turning Japanese? The Experiences and Writings of a Portuguese Jesuit in

23

16th Century Japan”, in COUTO, Dejanirah e LACHAUD, François (eds.), Empires éloignés: L’Europe et le

Japon (XVIe-XIXe siècles), Paris 2010, p. 165.

Froís a sua volta fu autore, nel medesimo periodo, di un mai edito Tratado das contradições e

24

Cerimoniale) di Valignano non erano destinati a un vasto pubblico e infatti non videro mai la luce della stampa, limitandosi a definire le norme di comportamento per i gesuiti in Giappone dal 1581 al 1592 circa . In alcuni loci di quest’opera, Valignano 25

involontariamente faceva emergere uno dei probabili motivi dell’interesse di molti gesuiti per la missione estremo-orientale . Il Visitatore infatti insisteva sui lussi e sugli 26

onori che comunemente si credeva contraddistinguessero la vita dei missionari in Giappone, sottolineando come questi fossero una chimera. Proprio il non-detto di Valignano ci fa ipotizzare che non fossero insoliti i gesuiti o futuri tali che si fossero fatti del Sol Levante una rappresentazione ben più ottimistica e desiderabile di quella reale.

Più che l’opera scritta di Valignano, poté nelle fantasie dei candidati per le Indie sicuramente la cosiddetta ambasceria giapponese che il gesuita fortemente volle e organizzò negli anni Ottanta del Cinquecento, pur non prendendovi personalmente parte . Un quartetto di giapponesi cristianizzati di lignaggio medio-alto (per quanto non 27

propriamente “principi” come i gesuiti vollero far credere) si recarono nel Continente in qualità di informali “ambasciatori”. Questa spedizione, pericolosa poiché ogni traversata oceanica rischiava all’epoca di finire in tragedia, fu pianificata da Valignano principalmente per due motivi: mostrare ai giapponesi le grandezze europee che

Nel 1592 vennero sostituiti dal Libro delle regole, una versione sintetizzata e modificata del primo

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trattato.

Nella sua introduzione, Schütte osserva come “le enormi differenze di cultura portavano a farsi in

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Europa un quadro completamente falso della realtà giapponese; ciò valeva particolarmente per gli ‘onori’ […] ciò che alcuni deprecavano come ‘onori e dignità’, era in realtà il risultato di una necessità

urgente […] i Padri [europei] non conoscono la scrittura giapponese […] Ecco la ragione per la quale

alcuni affermavano che i Padri in Giappone avessero dei segretari come i Cardinali a Roma!” (introduzione di SCHÜTTE, Josef Franz, in VALIGNANO, Il cerimoniale per i missionari, pp. 45-46).

Il Visitatore con lungimiranza fece realizzare e diede alle stampe (1590) una relazione basata sul diario

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degli “ambasciatori” giapponesi; recentemente è stata pubblicata la prima traduzione italiana del De

missione legatorum Iaponensium ad Romanam Curiam latino: VALIGNANO, Alessandro, SANDE, Duarte de (traduzione in latino), “Dialogo sulla missione degli ambasciatori giapponesi alla curia romana e sulle cose osservate in Europa e durante tutto il viaggio”, DI RUSSO, Marisa (a cura di), AIROLDI, Pia Assunta (traduzione in italiano), Firenze 2016 (ringrazio Sabina Pavone per avermi segnalato il volume). In generale sul “Grand Tour” dei nobili giapponesi si vedano anche MARANGONI, Rossella, “≪L’istesso giorno memorabile≫: sguardi incrociati fra Milano e il Giappone a partire dal 1585”, in CATTO, Michela e SIGNOROTTO, Gianvittorio (a cura di), Milano, l’Ambrosiana e la conoscenza dei nuovi mondi (secoli

XVII-XVIII), Milano 2015, pp. 281-305; BROWN, Judith C., “Courtiers and Christians: The First Japanese Emissaries to Europe”, in Renaissance Quarterly Vol. XLVII N. 4 (1994), pp. 872 – 906; BOSCARO, Adriana, “La visita a Venezia della Prima Ambasceria Giapponese in Europa”, in Il Giappone Vol. 5 (1965), pp. 19-32.

venivano loro descritte dai missionari , e porre gli europei in contatto con questa nuova 28

straordinaria civiltà che i gesuiti si stavano rendendo amica. Avvedutisi della grandezza dell’impresa della Compagnia di Gesù, i finanziatori laici e religiosi (il papa, soprattutto, era il soggetto che Valignano contava di votare interamente alla causa orientale) avrebbero fatto a gara per effettuare la propria donazione e concedere, finalmente, alla missione giapponese la stabilità economica che le era sempre mancata. Benché per una serie di sfortune l’attenzione papale nei confronti della missione giapponese non fu costante (il susseguirsi frenetico di pontefici in quegli anni), l’ambasceria ottenne senz’altro un successo di pubblico memorabile e suscitò un entusiasmo decennale per il Sol Levante. Ovunque i principini si recarono, la popolazione li accolse trionfalmente, con mille onori, e ogni cronaca cittadina registrava le fasi del passaggio di uomini così educati ma finora sconosciuti in Europa. Tutto era diverso in loro: il modo di muoversi, il colore della pelle, l’usanza di bere tè (ancora ignoto nel Continente), la scrittura, la lingua, la gestualità. È probabile che il ricordo di questa geniale operazione di propaganda pianificata da Valignano fosse, anche nonostante lo scorrere del tempo, nella mente e nelle letture di molti degli indipeti in questa sede esaminati.

Il primo gesuita ad applicare il metodo della accomodatio teorizzato da Valignano fu Matteo Ricci (1552-1610) in Cina. In alcuni passi del trattato storico di quest’ultimo, Della entrata di Giesù e Christianità nella Cina, è verosimile che si rivolgesse direttamente agli indipeti tentando di stimolarne gli entusiasmi. Nessuno degli indipeti del periodo qui preso in esame lo lesse mai nella sua versione originale - stampata soltanto in età contemporanea . A essi era invece piuttosto conosciuto 29

Una delle accuse che si facevano ai missionari giunti dall’Europa da parte dei giapponesi era proprio

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che questi si allontanavano dal Paese d’origine in quanto povero e invivibile: mostrare loro la magnificenza europea avrebbe convinto i “principi” - e tutti coloro a cui lo avessero raccontato - che questa era una illazione.

Nel 1909 il gesuita Tacchi Venturi ritrovò il manoscritto originale e lo pubblicò a Macerata, per

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celebrare il trecentesimo anniversario della morte del missionario, all’interno delle sue Opere storiche del

P. Matteo Ricci S.I., con il titolo Commentari della Cina. Nel 1941 Pasquale D’Elia ne curò la prima

edizione critica intitolandola Storia dell’introduzione del cristianesimo in Cina (tre volumi, editi tra 1942 e 1949). La terza edizione, sulla quale ci si è qui basati, è stata pubblicata a cura di Maddalena del Gatto

l’adattamento del testo di Ricci, a cura del confratello Nicolas Trigault , autentico best 30

seller in tutta Europa che conquistò un’attenzione straordinaria per realtà così diverse e fino ad allora ignote ed ebbe numerose e immediate edizioni in italiano, francese, tedesco, spagnolo e inglese . 31

Della entrata è un’opera vastissima, enciclopedica, approfondita ma al tempo stesso molto avvincente anche per un lettore dei giorni nostri. In essa Ricci riviveva la propria quotidianità missionaria, in terza persona e senza abbellimenti retorici, per sua stessa