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Il vocabolario delle litterae indipetae è contraddistinto dal fatto che tutti gli indipeti appartenevano a una medesima “emotional community”. La medievista Barbara Rosenwein utilizza questo termine per definire “social communities – families, neighbourhoods, parliaments, guilds, monasteries, parish church memberships” che condividevano medesimi

systems of feeling: what these communities (and the individuals within them) define and assess as valuable or harmful to them; the evaluations that they make about others’ emotions; the nature of the affective bonds between people that they recognize; and the modes of emotional expression that they expect, encourage, tolerate, and deplore . 171

Di lui non sono conservate altre indipetae, ma il suo nome ritorna ben vent’anni dopo in due epistole,

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finite apparentemente senza ragione nel Fondo Gesuitico, in cui si tratta del riconoscimento di un “miracolo fatto dal Beato Luigi in Collegio di Palermo al Fratello Giuseppe Spinelli nel 1635”. Alberti dichiarava di essersi procurato la sottoscrizione autografa dei tre “medici fisici” presenti al miracolo (ARSI, FG 751, ff. 125, 125v, Palermo 4 settembre 1721). Pochi mesi dopo il gesuita scriveva ancora al Generale allegando il documento notarile che autenticava le firme dei tre medici (ARSI, FG 751, ff. 135, 135v, Palermo 25 dicembre 1721). Alberti morì a Palermo il 9 marzo 1731 (FEJÉR, Defuncti secundi

saeculi, p. 15).

ARSI, FG 750, f. 197, Napoli 20 gennaio 1705.

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ARSI, FG 750, f. 220, Palermo 10 agosto 1705.

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ROSENWEIN, Barbara H., “Worrying about Emotions in History”, in The American Historical Review

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Uno stesso lessico era condiviso da uomini di diversa estrazione sociale e provenienza geografica, nel corso dei primi tre secoli dell’Antica Compagnia, e in seguito alla Soppressione anche della Nuova. Tutti gli indipeti esprimevano sentimenti infocati (fervore, desiderio, infiammare, bruciare, consumarsi…) e molti ammettevano di vivere una vera e propria ossessione per l’oggetto dei loro desideri, ossia le missioni oltreoceano.

Relativamente alla terminologia degli indipeti e alla loro psicologia, Massimi e il gruppo di ricerca brasiliano hanno compiuto studi molto importanti: in questa sede ci limitiamo a illustrare brevemente alcune delle parole più ricorrenti all’interno delle litterae indipetae.

Il termine “desiderio”, anzitutto, era fondamentale e onnipresente, un vero e proprio tòpos . Affinché esso diventasse accettabile per un gesuita, andava razionalmente e 172

meglio disciplinato: solo così poteva essere messo al servizio del bene divino, al quale si sarebbe conformato. Il fatto che il desiderio delle Indie si presentasse da tanti anni e persistesse nel pensiero dell’indipeta era giudicato segno della chiamata divina, che lo instillava nell’animo e non lo lasciava affievolire nel corso del tempo.

Anche la “vocazione” veniva spesso citata dagli indipeti, che descrivevano questo impulso interiore che li spingeva a chiedere al Generale di essere inviati dall’altra parte del mondo, per poter salvare le anime degli infedeli ma anche la propria, compiendo la volontà di Dio. La ragione faceva sì che il desiderio non si sviluppasse in direzioni illecite (vanità, superbia, ricerca di gloria personale) ma rimanesse nel tracciato voluto da Dio.

L’indifferenza , oltre che un espediente retorico, era una qualità che ogni buon gesuita 173

doveva assimilare e interiorizzare per progredire nella propria vita spirituale. L’indifferenza aveva un potenziale nemico nello struggente desiderio che sconvolgeva gli animi degli indipeti: ma se tale desiderio veniva razionalmente ordinato non era visto

Cfr. MASSIMI, Marina e PACHECO, Paulo Roberto de Andrada, “O conhecimento de si nas Litterae

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Indipetae”, in Estudos de Psicologia Vol. 10, N. 3 (2005), pp. 345-354.

Su questa tematica si veda MASSIMI, Marina e BARROS, Marina Leal de, “Releituras da Indiferença:

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come elemento negativo o da rigettare. L’indifferenza richiesta al gesuita non era un’apatia o un’insensibilità passiva ma piuttosto una “distância afetiva dos bens menores para eleger o bem maior” . Il gesuita indifferente annullava la propria volontà 174

e la consegnava interamente nelle mani di Dio, dal quale faceva dipendere ogni decisione relativa al suo presente e futuro.

L’indifferenza era legata all’obbedienza, che fin dalla sua fondazione aveva contraddistinto la Compagnia : essa doveva in particolar modo far sì che l’indipeta 175

accettasse qualsiasi destinazione gli venisse affidata dal Generale, indipendentemente dalla personale inclinazione. Si mostrava sicuramente indifferente alla destinazione, fra i tantissimi esempi del ‘600 e ‘700 italiano, il trentaduenne Ignazio Greco, che affermava gli sarebbe andata bene “qualunque Missione dell’Indie, o Orientali o Occidentali, o di qualsisia altra Provincia del Nuovo Mondo” . Non è noto che fine 176

abbia fatto, così come il suo compagno di vocazione Stanislao Gath, che nella sua unica indipeta si dichiarava “prontissimo a andar ovunque egli [il Signore] mi chiami” . Il 177

siciliano Domenico Caracciolo assicurava: “Io non propongo determinato luogo per la missione” , ma poche righe dopo esplicitamente consigliava al Generale di inviarlo 178

nelle Indie orientali in quanto studioso di matematica e fisica; anche in questo caso non si sa quando e dove il gesuita sia morto.

Non era facile in effetti coniugare l’ardente desiderio delle Indie con la manifestazione della più completa indifferenza che doveva manifestarsi nelle richieste a Roma. Massimi e Leal de Barros ipotizzano che coloro che scrivevano una indipeta per la prima volta fossero meno abili a valorizzare l’indifferenza, spesso esprimendo preferenze relative alla destinazione desiderata; soltanto dopo qualche richiesta iniziavano a mostrarsi davvero indifferenti e a legare questo aspetto a una forma di coraggio personale. Nel caso italiano di Sei e Settecento non sembra sia possibile

MASSIMI, “Narrativas autobiográficas”, p. 32.

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Cfr. MOSTACCIO, Silvia, Early Modern Jesuits between Obedience and Conscience during the

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Generalate of Claudio Acquaviva (1581-1615), Farnham-Burlington 2014.

ARSI, FG 750, f. 209, Palermo 2 giugno 1705.

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ARSI, FG 750, f. 210, Palermo 4 giugno 1705.

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ARSI, FG 750, f. 211, Palermo 12 giugno 1705.

ravvisare una simile tendenza perché per gli indipeti tutte le strategie erano praticabili per giungere al proprio obiettivo. Essi indicavano prima una destinazione e poi si dichiaravano pronti a qualsiasi meta, e allo stesso modo mostravano prima la massima urgenza di partire e poi pazienza e rassegnazione alla volontà divina, mediata dalle decisioni del Generale. Ciò peraltro si verificava non solo durante tutta l’evoluzione delle proprie richieste, ma anche nel corso di una stessa epistola.

La “consolazione” era un’altra delle parole più ricorrenti all’interno delle litterae indipetae. Massimi e Pacheco evidenziano come l’esperienza della consolazione fosse “the effect of an obedience, which is nothing more than the adhesion to the last end, identified in the work of self-knowledge” . Essa veniva sperimentata dagli 179

indipeti dopo aver preso la decisione di richiedere le Indie, dopo aver ottenuto il permesso di fare voto di domandarle, dopo aver scritto la propria lettera al Generale. La vera e ultima consolazione cui ambivano era però quella della licenza per le Indie, che a sua volta prefigurava la beatitudine della vita ultraterrena nel regno di Dio.

Martin Carsoli fu autore di un’unica lettera conservata fra le indipetae, che in realtà era di ringraziamento per avere ricevuto la “gratia” dell’invio nelle Indie (non è noto quali ). Scriveva nel 1716 che era “tanta la consolatione che pruovo, che non posso 180

spiegare a bastanza quanto contento e consolato mi trovi” . Giovanni Battista Bassone, 181

anch’egli indipeta dall’ignoto destino, scriveva nello stesso anno che l’invio nelle terre di missione gli avrebbe dato “quella consolazione che, tra quante possa aspettarmene in Terra, è la maggiore” . 182

Mentre chi otteneva la risposta positiva del Generale quasi non era in grado di esprimersi per la felicità, coloro che restavano non erano sempre altrettanto felici. Pietro Giuseppe Zisa, accontentato dopo dieci anni di richieste e sei candidature, ringraziava per la missione concessagli pregustando già la partenza per le Filippine. Si

MASSIMI, Marina e PACHECO, Paulo Roberto de Andrada, “The Experience of Consolation in the

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litterae indipetae”, in Psicologia em Estudo Vol. 15, N. 2 (2010), p. 351.

Il gesuita non figura nei repertori principali né il suo nome è presente nel catalogo dei defunti della

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Compagnia di Gesù.

ARSI, FG 750, f. 341, Genova 28 maggio 1716.

raccomandava però col Generale: “se per sorte i miei Parenti facessero qualche istanza a Vostra Paternità, non mancherà modo a Vostra Paternità di consolarli senza che patisca la gloria del Signore” - in sostanza invitandolo a ignorare eventuali proteste. 183

Il contraltare della consolazione era il grandissimo sconforto nello scoprire che il proprio nome non era fra i prescelti: il siciliano Martino d’Andrea scriveva che la risposta del Generale così “come m’ha molto consolato nello spirito, [...] m’ha dall’altra parte ammaregiato alquanto […] per il differimento della partenza tanto desiderata per le Indie” . Il suo conterraneo Giovanni Battista Federici tornava a chiedere le Indie 184 185

orientali con un desiderio “vie più acceso nel cuore” , causatogli dal fatto che “corre 186

voce d’essere stati già consolati alcuni de’ miei compagni”. Pur dichiarandosi indifferente alla destinazione (anche se aveva esplicitamente chiesto l’Oriente) e immeritevole di tale grazia, implorava il Generale: “ora mi ha da consolare, ponendo fine una volta all’amarezza della sì lunga dilatione”.

In questo capitolo si è mostrato come i motivi per richiedere la missione nelle Indie fossero molteplici: uno dei più ovvi e frequenti era la brama di recarsi nei luoghi conosciuti attraverso letture di infanzia e gioventù, che spesso avevano portato lo scrivente non solo a presentare istanza per le Indie, ma ancor prima a entrare a far parte della Compagnia di Gesù. Alcuni (non moltissimi per la verità) indipeti tentavano di avvalorare la veridicità della propria vocazione missionaria raccontando al Generale di come fossero giunti a essa passando attraverso alcuni episodi che avevano dello straordinario: le guarigioni da malattie mortali (o quantomeno descritte come tali) erano sicuramente più frequenti delle apparizioni di gesuiti celebri (non se ne sono trovati che rari casi) e dei messaggi profetici recapitati al protagonista da superiori, confratelli o familiari. Quasi ogni redattore invece mirava a un’esistenza piena di stenti, miserie, sofferenze, lacrime e possibilmente sangue: il martirio rimase sempre un elemento

ARSI, FG 750, f. 446, Palermo 26 febbraio 1717.

183

ARSI, FG 750, f. 398, Modica 13 ottobre 1716. Non è noto se morì all’interno della Compagnia.

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Cfr. cap. 4.3..

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ARSI, FG 750, f. 535, Palermo 3 dicembre 1717.

fortemente attrattivo per gli aspiranti missionari. È significativo anche il ruolo, più o meno retorico, svolto dalle famiglie nello stimolare una candidatura: ciò non avveniva generalmente in modo intenzionale, ma al contrario per tentare di allontanarsi e riscattarsi dal proprio ambiente. I genitori venivano descritti come ostacoli fattivi del desiderio delle Indie per ragioni che sono facilmente comprensibili anche al giorno d’oggi: nel cap. 4.3. si mostrerà come questo timore di molti gesuiti italiani del Sei e Settecento non fosse immotivata.