• Non ci sono risultati.

Preferenza per le Indie orientali? Alcune statistiche

Capitolo 3. La destinazione orientale

3.2. Preferenza per le Indie orientali? Alcune statistiche

Per la presente tesi di dottorato sono state esaminate le indipetae scritte fra 1687 e 1730 dai membri dell’Assistenza italiana e contenute nel Fondo Gesuitico 749, 750 e 751 : esse ammontano a 1565 unità circa . Il 38% di esse fu inviato da membri della 31 32

Provincia Sicula, il 27% dalla Neapolitana, il 25% dalla Mediolanensis e l’11% dalla Romana . 33

Si sono attentamente analizzate tutte le indipetae che richiedevano la destinazione orientale, in generale o specificando con più precisione il Paese prediletto del candidato. Nel Fondo Gesuitico 749, 750 e 751, fra le 1565 circa indipetae, mostrarono interesse per le Indie orientali, in generale o in particolare, 144 lettere ossia il 9,2%.

Nel dettaglio, chiesero espressamente : 34

-

Filippine: 41 indipetae

-

Cina: 38

-

“Indie orientali”, “qualche angolo dell’Oriente”, “Asia” e simili: 36

-

Giappone: 20

-

Malabar: 5

Anna Rita Capoccia ha studiato le indipetae scritte fra 1676 e 1770 giungendo a risultati parzialmente

31

diversi dai nostri. Nel Fondo Gesuitico 750 e 751 vi sono secondo la studiosa 973 indipetae, delle quali 167 specificano una destinazione prediletta del redattore (CAPOCCIA, Anna Rita, “Le destin des Indipetae au-delà du XVI siècle”, in FABRE, Pierre-Antoine e VINCENT, Bernard (a cura di), Missions Religieuses

Modernes. “Notre lieu est le monde”, Roma 2007, pp. 89-110, p. 92). La studiosa stima che le preferenze

espresse in queste 167 indipetae non generiche siano state: 41 Filippine, 31 Cina, 23 Messico, 14 Chile, 10 Paraguay, 7 Giappone, 5 Maragnone, 5 California, 4 Tunisi, 3 Brasile, 3 America, 2 Madurai, 2 Tibet, 1 Etiopia, 1 Africa, 1 “Montalibano”, 1 Argentina, 1 Palestina, 1 Turchia, 1 Dalmazia, 1 Grecia, 1 Madagascar, 1 Zante, 1 Tonchino, 1 “Barbaria”.

C’è da precisare a fini statistici, peraltro, che esistono solo due indipetae in ARSI datate

32

successivamente al 1730: una risalente al 1744 e una al 1770. Ciò è dovuto, probabilmente, a questioni di conservazione archivistica. In realtà quindi fino al 1730 è possibile trarre alcune conclusioni statistiche di un certo valore (per quanto per alcuni anni non vi siano che pochissime unità o nessuna petizione), ma in seguito non più.

Come già notato nel capitolo 4.2.. Alcune epistole sono senza datazione topica ed è quindi impossibile

33

risalire al loro luogo di redazione; altre sono state inserite nel Fondo Gesuitico benché provenienti dalla

Provincia Veneta. Soltanto 35 di queste 1565 indipetae appartengono tuttavia a una di queste due

categorie e non inficiano quindi l’esattezza di queste statistiche. Cfr. grafici in Appendice.

-

Tibet: 4

-

Maduré: 4

-

Goa: 1

-

Tunchino (Vietnam): 1

Per questa statistica, anzitutto, si sono esaminate le candidature e non i candidati, quindi è possibile che a chiedere una determinata destinazione fosse più volte uno stesso indipeta. Si consideri inoltre che alcuni anelavano insieme sia alla Cina sia al Giappone (in caso di molteplici preferenze si è assegnato un punto a tutte le destinazioni nominate), oppure richiedevano le Filippine per passare in seguito al Giappone o alla Cina. Altri candidati pregavano di essere inviati nei medesimi luoghi verso i quali i loro compagni stavano partendo; è possibile talora risalire a quale fosse la destinazione delle spedizioni “del momento”, e le missioni dell’America centrale e delle Filippine erano le più frequenti catalizzatrici di interessi.

Spesso le indipetae mostravano candidati dapprima indifferenti rispetto alle destinazioni, ma che successivamente esprimevano preferenze che qui sono state tenute in considerazione.

Emerge da questa statistica la preponderanza della scelta filippina (41 unità): non è certo che essa fosse legata a una particolare affezione per questo territorio della corona spagnola. Le Filippine attraevano tanti indipeti per due motivi particolari, per loro stessa ammissione: la loro accessibilità immediata (nel caso di spedizioni imminenti) e la vicinanza con la Cina e il Giappone. Casi come questi mostrano che gli indipeti erano spesso ben informati e aggiornati sulla logistica di invio missionario, e nel corso di alcuni anni la meta filippina diventava estremamente popolare perché a essi era noto il passaggio dei Procuratori in cerca di “operarii” per quelle zone. Questo elemento veniva richiamato esplicitamente in molte candidature, e in numero altrettanto significativo era probabilmente taciuto ma noto. In particolare nelle annate del 1704, del 1717 e del

1728-9 l’attenzione degli indipeti era tutta rivolta alle Filippine perché essi sapevano 35

che, se fossero riusciti ad aggregarsi alla spedizione che era in corso di allestimento, sarebbero salpati senza dover subire ulteriori frustranti attese, e in un secondo momento avrebbero eventualmente potuto rivolgersi ai Paesi circostanti.

La Cina e le Indie orientali non si attestano numericamente molto sotto, con 38 e 36 preferenze. È molto probabile peraltro che con formule come “l’Oriente” si intendessero spesso l’Impero cinese oppure le Filippine. La Cina, anche nei complicati anni della questione dei riti, era una destinazione sempre presente nei sogni di gloria evangelica degli indipeti.

La propaganda della Compagnia aveva un’efficacia notevole e duratura, che viene confermata anche dal fatto che, in questa graduatoria, il Giappone continuasse a costituire una terra di missione desiderabile molti decenni dopo la sua chiusura , con 36

20 preferenze espresse.

Le altre destinazioni orientali esplicitamente citate sono il Malabar, il Tibet e Madurè quasi a parimerito, e infine l’attuale Vietnam e Goa.

Per quanto concerne infine le Indie occidentali, non è stata fatta in questa sede di ricerca una approfondita analisi di tutte le indipetae fra 1687 e 1730 che le nominassero. Una stima basata su centinaia di candidature induce a ritenere che le mete più apprezzate fossero, in ordine di importanza: Messico, Cile, Paraguay, America/Indie occidentali/“Nuovo Mondo”, Maragnone, California, Quito, “Nuovo Regno” e Brasile. Infine, altre destinazioni che comparirono sporadicamente nelle indipetae di quel trentennio furono: Tunisi, Italia, “Montalibano”, Palestina, Dalmazia, Corsica, zone di pestilenza in India o in Francia, Inghilterra, Zante, Grecia.

Ciò detto, non vi è dubbio che le generiche “Indie” fossero la destinazione più diffusamente richiesta. L’indifferenza e la sottomissione richiesta a ogni indipeta

La preferenza filippina segue questa linea evolutiva: 6 richieste nel 1704, 2 nel 1705, 4 nel 1706, 1 nel

35

1707. Le richieste riprendevano nel 1717 (6), scomparivano fino al 1725 (1), 1727 (1) e infine risalivano nel 1728 (10) e 1729 (8). Oltre a ciò, molte richieste vertevano genericamente intorno alle “Indie orientali” o talora neppure esprimevano una preferenza, ma molto probabilmente si riferivano proprio alle Filippine perché gli indipeti sapevano che si stava preparando una spedizione in quella direzione.

Come si vedrà nel capitolo 3.2..

prendeva forma anche in questa negazione della propria volontà espressa dagli indipeti italiani di fine Sei e inizio Settecento.

Benché non esistano ancora statistiche che abbiano preso in considerazione il luogo di redazione delle indipetae e la preferenza in esse espressa su scala globale, si può ipotizzare che vi fosse un certo legame tra la nazionalità degli indipeti e la preferenza espressa nelle candidature. I francesi, come è naturale, erano votati spesso (ma non esclusivamente) ai Paesi controllati dalla propria monarchia, come la Nuova Francia o le Antille francesi; gli spagnoli similmente alle Americhe. Sembra che gli italiani e i francesi dalla fine del Seicento amassero la destinazione estremo-orientale, e per raggiungerla come si è notato chiedevano talora di essere inviati nelle Filippine - che però erano un possedimento spagnolo. È tuttavia prematuro e impossibile, allo stato attuale, trarre delle conclusioni valide per tutte le migliaia di indipetae conservate a Roma.

Fra le petizioni italiane di fine Sei e inizi Settecento si è scelto di concentrarsi su coloro che espressero una predilezione per la missione estremo-orientale. Sembra intuibile in molti altri la stessa preferenza, ma essa era tendenzialmente mascherata e le formule erano piuttosto neutre, come ad esempio la confessione del desiderio di “qualche angolo dell’Oriente” espressa da Giuseppe Paternò nel 1692 . Tomaso de Domenicis scriveva 37

nel 1714, nella sua unica candidatura, di desiderare da sempre le “missioni orientali, per andar alle quali io entrai nella Religione, et in essa vivendo sempre più mi sono sentito eccitato ad esse” . In maniera analoga, Antonio Trigonas rinnovava la sua candidatura 38

in occasione dell’invio di alcuni compagni di collegio, proclamando indifferenza relativamente alla meta ma confessando: “devo però, per ubbidire al mio Confessore, sinceramente manifestarle di aver avuto un non so che d’inclinazione a portar la fede nelle Isole del Giappone, se pur ivi è permesso l’entrarvi” . Benché la Cina fosse al 39

ARSI, FG 749, f. 445v, Palermo 6 gennaio 1692. Paternò scrisse nove indipetae tra 1685 e 1693, ma

37

morì nella natia Sicilia nel 1726 (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 85).

ARSI, FG 750, ff. 294, 294v, Collegio Germanico 19 luglio 1714. Non è noto che cosa accadde al

38

centro dei desideri di molti gesuiti, talora veniva richiesta come destinazione provvisoria in attesa di passare al più attraente (nonché impossibile) Giappone: il già citato Francesco Corsetti implorava il Generale di esservi inviato “per poi subito passarmene al Giappone, quando Sua Maestà si degnerà di farvi penetrare la Santa Fede” . 40

Poteva anche accadere che un indipeta chiedesse di essere inviato dappertutto, fuorché in Cina: Giuseppe Maria Langoschi motivava questa insolita richiesta con un consiglio ricevuto dal padre spirituale. Questi, pur appoggiandone la candidatura lo aveva avvertito: “però Vostra Reverenza procuri di non andare alla Cina; perché quanto sarà ottimo per ogn’altra parte, altrettanto non è buono per la Cina” . Langoschi se ne stupì 41

un po’, tanto più che “non eravi affatto umana sperienza dell’esser mio, non essendo mai convissuti assieme”, ma ciononostante ritenne ugualmente opportuno riferirlo al Generale. Quale possa essere stata la ragione di questa raccomandazione è purtroppo ignoto, ma di certo Langoschi non ebbe difficoltà a essere accontentato: morì a Lecce sei anni dopo . 42

L’unico indipeta italiano del periodo che esternò le sue aspettative (e comunque in termini piuttosto generici) sulla missione cinese fu il romano Giulio Gori . 43

Immaginando che il Generale gli avrebbe obiettato che desiderava recarsi missionario in tale Impero perché era “il mondo” a instillargli questa idea, dichiarava che “il mondo suole ingannare et adescare con tre sole cose: Ricchezze, Onori e Piaceri” . In Cina non 44

si sarebbero certo trovati i primi due, mentre per quanto riguardava i piaceri Gori si lanciava nella descrizione di quello che si aspettava sarebbero stati il viaggio e la permanenza dall’altra parte del mondo. Anzitutto, già la traversata sarebbe stata piena di sofferenze perché

ARSI, FG 750, f. 174, Collegio Romano 15 agosto 1704.

40

ARSI, FG 751, ff. 256, 256v, Napoli 20 marzo 1723. La sottolineatura è presente nell’originale a

41

indicare un discorso diretto.

Lecce si trovava all’interno della Provincia Neapolitana (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 115).

42

La sua vicenda di indipeta verrà sintetizzata poco oltre, nel cap. 3.2.1..

43

ARSI, FG 750, ff. 89, 89a, 89b, 89bv, 89c, 89d, 89e, 89ev, Roma 2 dicembre 1704.

certo è che bisogna aspettarsi una navigatione assai humiliante, sempre con ciurmaglia che continuamente caricano di ingiurie, strapazzi e villanie, e bisogna per questo istesso servirli e far lo schiavo a tutti.

Una volta giunti a destinazione, bisognava poi “starsene molto tempo in casa, e per non starvi otioso scopare, fare il quoco et altre cose simili che l’uomo mondano non reputa per onore”. Gori concludeva che anzi, proprio il “misero e miserabilissimo onore” aveva trattenuto molte persone troppo orgogliose e ambiziose dal presentare la propria istanza di missione a Roma.

Una sofferenza aggiuntiva elencata da Gori era il fatto che un uomo, deciso a farsi gesuita, già così rinunciava a “tutti i piaceri secolareschi”. Se, entrato nella Compagnia di Gesù, chiedeva la missione, ancor più era sicuro che avrebbe dovuto abbandonare “tutte le ricreazioni permesse e dovute ai religiosi qui in europa” e perdendo inoltre “qualche agio e commodità” aggiuntivo.

Infine, anche i piaceri del corpo erano qualcosa che un missionario in Cina avrebbe dovuto scordare perché era certo che,

alla carne […] non gusta gran cosa né degli incommodi, patimenti sommi della navigazione, né di quelli molto maggiori che portan seco un clima diverso, diversi cibi et il doversi assuefare a diversi costumi.

Quest’ultima annotazione venne aggiunta su un pezzo di carta e incollata in seguito alla sua missiva: che gli sembrasse una dimenticanza troppo rilevante nella sua precedente versione?

La situazione giapponese era sicuramente impossibile come orizzonte reale di un invio missionario della Compagnia nel Sei e Settecento. Con la cacciata di tutti gli stranieri dal Giappone, che ebbe luogo nel 1639, il Paese divenne una meta non più praticabile per l’evangelizzazione: eppure, ciononostante, quasi cent’anni dopo v’era ancora chi chiedeva proprio quella destinazione. In particolare, sembra emergere l’ipotesi che in alcuni collegi (soprattutto nel Sud) si potessero essere diffuse delle dicerie ottimiste sul fatto che il Sol Levante si stesse per riaprire agli stranieri.

Ciò accadde in corrispondenza dell’avventura suicida di Giovanni Battista Sidotti 45

(Palermo 1668 – Edo 1715), un siciliano che vi si recò espressamente per morirvi martire. Sidotti approfittò dell’occasione offerta da una spedizione (1702) di cui faceva parte il legato papale Charles de Tournon; una volta arrivato in Asia, si imbarcò da Manila in solitaria verso l’estremo sud del Giappone.

Proprio in quegli anni il religioso (era un prete secolare) veniva citato per nome in alcune indipetae, oppure più vagamente si accennava alla sua impresa. In realtà questa non diede alcun apporto concreto alla causa cristiana, come era prevedibile: appena Sidotti sbarcò a Yakushima (1708) venne catturato, portato a Nagasaki e quindi a Edo, dove venne interrogato dallo studioso neoconfuciano Arai Hakuseki (1657-1715), intellettuale aperto e curioso, che cercò di discutere con lui e ricavare quante più informazioni possibili sull’Europa . 46

Sidotti alloggiava nella cosiddetta “Kirishitan yashiki” di Koishikawa, ossia il luogo dove venivano rinchiusi forzatamente i cristiani: i due ebbero modo di parlarsi in tre occasioni, fra il dicembre del 1709 e il gennaio dell’anno successivo. Nel giro di

Su di lui non esiste bibliografia recente scientificamente attendibile. C’è una brevissima voce a lui

45

dedicata nell’Enciclopedia Treccani online [http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-battista-sidotti/]; inoltre si accenna a lui nel DBI alle voci di altri religiosi come Tournon [a cura di DI FIORE, Giacomo, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1960-, Vol. 67 (2006) o online http:// www.treccani.it/enciclopedia/maillard-de-tournon-carlo-tommaso_(Dizionario-Biografico)/), consultati l’8 settembre 2017]. Qui si riporta che Sidotti prese parte alla spedizione partita da Roma il 4 luglio 1702, che aveva l’obiettivo di portare all’imperatore cinese Kangxi dei doni da parte del papa. Di questo gruppo facevano parte varie personalità: oltre a Tournon e a Sidotti, erano presenti religiosi e laici (un medico, un cuoco, un chirurgo). Tratta lo scambio di opinione Sidotti-Hakuseki l’articolo di TOLLINI, Aldo, “L’ultimo missionario in Giappone: Giovanni Battista Sidotti”, in TAMBURELLO, Alfredo (a cura di), Italia -

Giappone. 450 anni Vol. I, Roma-Napoli 2003, pp. 66-73, basato soprattutto sulla testimonianza del

filosofo giapponese. Della vicenda Sidotti accennano molto brevemente anche TUCKER, John A., “Arai Hakuseki (1657-1725)”, in HEISIG, James, KASULIS, Thomas P., MARALDOS, John C., Japanese

Philosophy. A Sourcebook, Hawaii 2011, pp. 387-392; BOSCARO, Adriana, Ventura e sventura dei gesuiti

in Giappone (1549 – 1639), Venezia 2008, p. 17; ROSS, Andrew C., A Vision Betrayed. The Jesuits in

Japan and China, 1542-1742, New York 1994, pp. 109-110.

Sidotti e il suo interlocutore ebbero interessanti discussioni e i resoconti di queste vennero pubblicati da

46

Hakuseki nel 1715 nel Seiyō Kibun (Cose sentite sull’Occidente). Nonostante le difficoltà di comunicazione, questi dialoghi garantirono una certa circolazione di informazioni. A Sidotti va riconosciuto il merito di aver fornito nuova linfa alle ricerche geografiche e scientifiche giapponesi (che in quegli anni si trovavano a un punto morto), ribadendo la sfericità della terra (concetto non ignoto ai giapponesi, ma che la scuola neoconfuciana locale tendeva a contrastare) e dando generiche nozioni sul suo continente d’origine. Le loro conversazioni non ignorarono la tematica religiosa: il cristianesimo, all’inizio del Settecento, non era più considerato in Giappone pubblicamente pericoloso come qualche decennio prima; ciononostante era ancora un argomento scottante. Hakuseki non ne era digiuno e anzi era curioso di carpire ulteriori notizie direttamente da un cristiano. Sidotti gli sintetizzò le vicende di Antico e Nuovo testamento, la nascita di Gesù Cristo, la diffusione della sua religione e la situazione contemporanea in Europa.

qualche tempo (ottobre 1715) Sidotti morì in prigione, non senza aver prima (secondo la vulgata della Compagnia) convertito i suoi due carcerieri. Hakuseki annotò nel dettaglio queste conversazioni, che però erano anzitutto ostacolate dalla mancanza di una lingua in comune. Sidotti probabilmente aveva cercato di studiare un po’ di giapponese prima dello sbarco e aveva con sé un dizionario latino-portoghese, inoltre ad affiancare Arai c’erano due interpreti olandesi: ma ciò non era sufficiente a garantire una reciproca comprensione.

Se Sidotti da un lato non ottenne i risultati sperati per la causa (non recuperando le simpatie giapponesi al cristianesimo), dall’altro ebbe il merito di “chiudere un’epoca di contatti e di scambi, tra due culture profondamente diverse […] egli anche simbolicamente rappresenta la conclusione di oltre un secolo di contatti, ma anche di scontri e incomprensioni” . Ad alcuni degli autori delle candidature italiane di fine Sei 47

e inizio Settecento, però, evidentemente la sua azione sconsiderata non rimase sconosciuta , e riaccese in essi la speranza di potersi recare in Giappone per riprendere 48

nell’opera di evangelizzazione lasciata da lui interrotta qualche decennio prima.

Ancora prima, mentre Sidotti stava progettando la sua impresa suicida, Antoni(n)o Finocchio scriveva dalla Sicilia di sentirsi da molto tempo (benché questa sia la sua prima e unica indipeta) invitato da Dio “a navigar al Giappone” . Poiché era 49

consapevole che “la siepe di quella vigna” era “impenetrabile”, pianificava di sostare a Macao e “quasi pronto al viaggio, per quando si compiacesse il Supremo Monarca rompere col sangue dell’Agnello le chiuse porte diamantine di quel vastissimo Imperio”. Consultatosi con un superiore, a entrambi il desiderio era sembrato giusto e

TOLLINI, “L’ultimo missionario in Giappone”, p. 72.

47

Non è chiaro tramite quale canale gli indipeti ne erano informati, ma alcuni di loro lo menzionavano

48

per nome quindi non c’è possibilità di dubitarne. L’origine siciliana di Sidotti e degli indipeti che vi accennavano ci fa ipotizzare che si trattasse di una conoscenza personale o trasmessa oralmente. La bibliografia su Sidotti è purtroppo molto parziale e lacunosa; si consideri anche che non era un gesuita e la sua impresa non venne avallata, quindi probabilmente neppure propagandata, come un successo missionario dalla Compagnia di Gesù. Si trattò piuttosto di un avventuriero in solitaria: Stefano Carrer in un articolo per il Sole24ore scriveva addirittura che dopo la sua morte (1714 circa) “per un secolo e mezzo non si seppe niente della sorte del missionario”, ricordando come il suo nome sarebbe anzi “stato dimenticato – in quanto sparito nel nulla - se a metà Ottocento non fossero stati ritrovati i manoscritti di Arai [Hakuseki]”, che però ne trattò la vicenda da una prospettiva giapponese [http:// m o b i l e . i l s o l e 2 4 o r e . c o m / s o l e m o b i l e / m a i n / a r t / c u l t u r a / 2 0 1 5 0 7 1 2 / s i d o t t i l u l t i m o -missionario-081443.shtml?uuid=ACnSQGQ, consultato l’8 settembre 2017].

avevano di comune accordo deciso di inoltrare la richiesta al Generale – benché, apparentemente, senza esito . Forse proprio l’ambiente siciliano costituiva un terreno 50

fertile per sognare una riapertura del Sol Levante?

Sette anni dopo, il ventiquattrenne Tomaso Macchia implorava (una tantum) il Generale di inviarlo in Giappone affermando che si era recentemente “aperta la porta, già da tanto tempo chiusa, alla vera Fede, e l’Imperatore di quel regno ha chiesto nostri missionarii per la Conversione di quelle genti” . Gli sarebbe piaciuto avere “l’avventurata sorte 51

d’essere annoverato nel numero felicissimo di quelli che dovranno passare alla Conversione di quei popoli Giapponesi”. Anche di lui non è dato sapere quale sia stata la fine, né se morì da gesuita.

La lettera di Macchia risaliva al 1705: Sidotti era partito dalla Sicilia nel 1702 e l’editto di Kangxi risaliva al 1692; benché nominasse esplicitamente il Giappone, non è improbabile che Macchia si confondesse con l’Impero cinese. Il Giappone era retto formalmente da un imperatore fin dalla sua fondazione, ma la sua figura non aveva all’epoca alcuna importanza politica e i gesuiti non vi erano peraltro mai entrati in contatto.

Nello stesso anno e sempre da Salerno, Casimiro Muscento si candidava, nella sua 52

unica richiesta, per il Giappone “quando sia vera la nuova qui giunta esservi apertura” per esso . È evidente che i due gesuiti si conoscevano e in qualche modo erano entrati 53

in possesso di questa erronea informazione, ma non è purtroppo semplice capire come. Di certo, Muscento non ebbe maggiore fortuna del suo confratello e nel 1725 spirò nella ben poco giapponese Napoli . 54

Finocchio non venne inviato in Oriente con le navi del Padroado e il suo nome non figura neppure nei

50

defunti della Compagnia.

ARSI, FG 750, f. 223, Salerno 9 ottobre 1705.

51

Il suo cognome è riportato nel registro cronologico delle indipetae come Muscattulo e come Muscettulo

52

nell’elenco dei defunti di Fejér.

ARSI, FG 750, ff. 225, 225v, Salerno 14 ottobre 1705.

53

FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 350.