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I coadiutori temporali non erano una minoranza inconsistente fra gli indipeti e, anche per via della loro scarsa istruzione e spontaneità, spesso scrivevano delle richieste ancora più originali e sentite dei propri confratelli istruiti. Grazie alle loro candidature oggi si ha la rara occasione di sentire le voci appartenenti a classi sociali altrimenti perlopiù mute.

I coadiutori temporali erano fratelli laici che svolgevano i mestieri più variegati per la Compagnia: “sarti, cuochi, calzolai, barbieri, muratori, marangoni, speziali, pittori, fornai” . Proprio su queste loro abilità pratiche puntavano generalmente per essere 151

scelti, consci che, nelle Indie, al di là del personale spirituale sarebbe stata indispensabile anche la manovalanza.

In realtà i Generali non erano particolarmente interessati a far partire per le Indie i coadiutori temporali europei, perché in qualsiasi Paese di missione non era difficile trovare schiavi o autoctoni in grado di svolgere i compiti relativi alla cucina, alla pulizia e alla manutenzione della residenza. Inoltre, non sempre il comportamento dei

ARSI, FG 750, ff. 502, 502v, Città di Castello 25 luglio 1717.

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Luciani morì l’11 maggio 1722 (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 189).

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ROSCIONI, Gian Carlo, Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani, Torino

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2001, p. 125. Sui coadiutori temporali si veda anche O’ MALLEY, John W., The First Jesuits, Cambridge 1993, pp. 60-61 e RURALE, Flavio, “La Compagnia di Gesù tra Cinque e Seicento: contestazioni e indisciplina”, in Archivio per l’Antropologia e la Etnologia Vol. CXXXV (2005), pp. 29-38, che ringrazio per avermi messo a disposizione il suo intervento.

coadiutori temporali era esemplare e sono note più occasioni in cui essi misero a repentaglio il buon nome della Compagnia. Già sul Continente si erano levate voci di protesta nei confronti degli abiti e delle berrette dei coadiutori, ambiguamente simili a quelle dei loro fratelli ordinati.

In particolare nel caso delle missioni oltremare, dove la lontananza dall’Europa e la relativa autonomia decisionale (necessaria, ma che si prestava ad abusi) lo consentiva, si era rilevata in essi la tendenza a volersi fare predicatori, sacerdoti o confessori per quanto non ne avessero le competenze, al tempo stesso sottraendosi alle attività concrete della vita quotidiana che sarebbero state la loro vera mansione.

Nel caso dei coadiutori della Provincia milanese, nel Seicento era stato segnalato con disappunto che in America essi “risolvevano i casi di coscienza, insegnavano la dottrina cristiana, disputavano pericolosamente con eretici”; “scambiati per sacerdoti” , inoltre 152

ascoltavano con gran partecipazione le confessioni dei fedeli pur non essendovi autorizzati. Oltre ad arrogarsi attività che esulavano dai loro studi e gradi, alcuni di essi erano manifestavano atteggiamenti sprezzanti e orgogliosi, ostentando “un’uguaglianza affettata con sacerdoti e scolastici nel vitto, nei vestiti e nell’attività di ricreazione”, dedicandosi alla cura del proprio corpo, intrattenendosi con donne, parlando in modo non consono alla propria affiliazione religiosa. La congregazione provinciale milanese del 1600 era soprattutto preoccupata del fatto che alcuni coadiutori “negavano apertamente l’obbedienza ai superiori, fomentavano polemiche nei collegi, si radunavano da soli quasi congiurando” . 153

Anche in Asia la situazione non era molto diversa, perché man mano che il diretto controllo di Roma veniva meno, la libertà d’azione del singolo e l’ambizione personale prendevano il sopravvento. Nel caso dei coadiutori che venivano inviati nelle Indie orientali (così come in quelle occidentali, del resto), essi avrebbero dovuto continuare a svolgervi le stesse “umili” mansioni che erano loro assegnate in Europa. L’Oriente a cui avevano tanto a lungo aspirato, però, vissuto da questa prospettiva non li esaltava ed essi continuavano a ripensare alle ben più eroiche vicende narrate dai confratelli

RURALE, “La Compagnia di Gesù tra Cinque e Seicento”, pp. 36-37.

missionari di cui avevano letto. Roscioni a tal proposito nota che il “divario tra l’India sognata e l’India reale” era, nel caso dei coadiutori temporali “quasi incolmabile” . 154

Uno dei coadiutori temporali più interessanti, fra gli indipeti italiani di inizio Settecento oggetto della presente tesi, fu il napoletano Giovanni Battista Verzi: purtroppo su di lui non è possibile reperire alcuna informazione se non la data e il luogo di morte nella Provincia di provenienza , una quindicina di anni dopo la redazione 155

della sua unica littera indipeta . 156

Verzi scriveva, con uno stile ingenuo e personale anche dal punto di vista dell’ortografia, “per far Consapevole la Paternità Vostra della mia volontà e disiderio, tenuto da me dal prencipio della mia Vocatione in cotesta Santa Compagnia in sino ora presente”. Verzi proseguiva sottolineando: “mai semata mi è cotesta mia buona intentione, anzi magiormente aumentata”; per questo ci teneva a far sapere al Generale “che con grande mia sutisfatione andarei alle indie”. Come gli altri indipeti, Verzi assicurava che “non si puol imaginar quanto desiderio tengo di Murire per la Fede di Cristo, benché ne sia indegno”.

Il gesuita avvertiva dentro di sé la vocazione alle Indie già da tempo, ma non aveva ancora scritto perché temeva “che per risposta avarei a[v]uto che restasse a quelle Indie, dove mi ritrovo”. Anche questo coadiutore temporale sapeva che il più temibile (e nel suo caso anche scoraggiante) spauracchio erano proprio le Indie interne, che naturalmente non lo avrebbero soddisfatto. Di punto in bianco (non dava al proposito alcuna spiegazione) però Verzi aveva deciso di rivolgersi al Generale in totale autonomia, senza essersi preventivamente consultato con alcun superiore, come lui stesso ammetteva: “con nisuno [h]o parlato di questa mi vocatione, con Nisuno parlarò se prima non sono asegnato da Vostra Paternità”. Il motivo di questa segretezza non veniva spiegato, ma da queste parole si capisce che il gesuita temeve che i superiori avrebbero cercato di dissuaderlo dal candidarsi.

ROSCIONI, Il desiderio delle Indie, p. 129.

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Verzi morì il 5 luglio 1716 nella Provincia Neapolitana (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 262).

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ARSI, FG 750, ff. 63, 63v, Castellamare 20 febbraio 1699.

La parte più interessante della lettera è sul retro, dove Verzi evidentemente riteneva fosse buona prassi esporre una piccola autobiografia, nel caso il Generale avesse voluto “saper le circostantie do[v]ute per aver qualche Conditione de Me”. Nella maggior parte delle indipetae non si trovano accenni dettagliati alla vita da secolare dello scrivente, soprattutto nel caso di un coadiutore temporale, poco istruito e meno abile a spiegarsi di altri confratelli. Verzi invece, molto dettagliatamente, raccontava di essere “di nascita Venetiano, nato propio in Venetia”: a 20 anni era partito da lì alla volta di Napoli, “ma non per farme Gesuita, ma per tender alli Negoti del Mondo; il Mio Mistiero erra di scritoriaro overo ebenista”. Immerso quindi in questioni lavorative personali, alla ricerca di un posto dove impiegarsi per caso era venuto a sapere che i gesuiti cercavano qualcuno “che lavorase alla Capella di Santo Francesco Saverio in Coleggio alla infermaria, dove sucesse il Miracolo di detto Santo col Padrre Marcello Mastrilli” . La 157

vocazione nacque in lui proprio perché ebbe la “buona fortuna di Poterli Servire”. Di lì a breve, il ventunenne Verzi entrò nella Compagnia (1695) e iniziò a lavorare “alla Spitiaria , poi per Suplimento in vari altri Ofizi”. Ci teneva a specificare che, benché 158

stesse svolgendo le sue attività “con grande mia Sutisfatione”, la salute lo aveva costretto a spostarsi: per via di “quella aria che erra tropo sutille, il Padre Provintiale per buona Gratia Sua mi mandò in castellamare cit[t]a distante di Napoli”, dove si era ristabilito. Già in altre occasioni si è notato come, ogni volta che gli indipeti citavano la “soddisfazione” della propria vita quotidiana e come “volentieri” svolgessero i proprio incarichi... era proprio perché desideravano intensamente cambiare entrambi.

In conclusione, Verzi invitava il Generale a raccogliere informazioni su di lui da due religiosi che lo conoscevano già prima che entrasse nella Compagnia. Benché nella sua vita non abbia compiuto imprese eccezionali e sia morto come tanti altri a Napoli, in seno alla Compagnia, una quindicina di anni dopo la sua unica richiesta, Verzi lasciò con essa una testimonianza unica e intima di sé e del suo desiderio delle missioni nelle Indie.

Cfr. cap. 2.2. per la vicenda di Mastrilli, indipeta di successo in seguito a un episodio miracoloso che

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Un altro coadiutore temporale del periodo fu Domenico Maria Riccardi, autore di tre petizioni fra 1703 e 1704 (due di esse lo stesso giorno), nelle quali si offriva per “la sartoria e poi la cucina, infermeria e sagrestia” . Nonostante gli sforzi, spirò una 159

quindicina di anni dopo, all’interno della Provincia Romana . 160

Ignazio Maria Vincenzi inviava una delle sue quattro richieste dopo aver saputo “che viene scritto a persona autorevole esservi bisogno per le Indie d’un soggetto che sappia di speziaria” . Dal momento che il Padre generale gli aveva in passato dato “buone 161

speranze” in seguito alle sue richieste precedenti (due, a quel che emerge dal Fondo Gesuitico), la “notitia” gli sembrava l’occasione adatta per perorare nuovamente la sua istanza. Per rendersi più appetibile, Vincenzi scriveva che per cinque anni era stato “impiegato a servire l’amalati con sommo mio gusto nel Infermaria di questo Collegio”. In seguito, per un anno fu “posto dall’Obedienza alla pratica di Speziaria”, periodo durante il quale si dedicò al “servigio e cura dell’amalati” ma al tempo stesso fece il possibile “con hogni attentione” per “apprendere al meglio che potei il modo di manipolare li medicamenti”. Vincenzi concludeva la sua lettera con una iniziativa più o meno personale, per quanto autorizzata: aveva infatti intrapreso in materia “qualche studio, per quanto mi è stato permesso”. Egli si presentava come un coadiutore temporale sì, ma competente, che poteva portare nelle Indie conoscenze utili, spendibili e difficilmente rintracciabili in loco. Non è noto quale sia stato il destino di Vincenzi, che non compare oltre nella documentazione della Compagnia.

Il trentaseienne Attilio Antonio Luci confessava al Generale di volersi recare in Giappone “dalli primi anni ch’hebbi grazia d’essere ammesso nella Santa Compagnia” . Il suo fratello carnale, Isidoro, era in partenza per l’Oriente (Cina), ma a 162

lui era stato sconsigliato di tentare la stessa strada da un superiore che non lo aveva ritenuto “atto, per non havere nessuna arte”. In seguito a una comunicazione del Generale stesso, una “lettera circolare, dove offeriscie l’andare all’Indie anco [...] quelli

ARSI, FG 750, f. 139, Orvieto 3 luglio 1703.

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Riccardi morì il 3 gennaio 1718 (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 234).

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ARSI, FG 750, f. 413, Palermo 18 dicembre 1716.

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ARSI, FG 749, f. 526v, Napoli 16 gennaio 1693.

che sanno di Massarie” vergava la prima delle sue indipetae. Ricordava di essersi 163

“esercitato undici anni nelle Massarie di Puglia e Giuliano del Colleggio Romano” nel Regno di Napoli. Due anni dopo, Luci inviò un’altra richiesta a Roma, chiedendo esplicitamente la meta cinese perché aveva nei giorni precedenti “inteso sì belle nuove venute dalla Cina, che vi sia libertà di predicar l’Evangelio” ; l’accenno era all’editto 164

di tolleranza emanato da Kangxi nel 1692. Sfortunatamente le sue istanze rimasero inascoltate e il gesuita morì a Napoli soltanto tre anni dopo . 165

Francesco Maria Scalise proponeva come propria destinazione il Cile e specificava di essere “di professione chirurgo” , aggiungendo di avere “pratttica d’Infirmeria ed 166

aromatario” e dichiarandosi “prontissimo ad impiegarmi in qualunche minimo officio”. Di lui non è stato possibile neppure trovare la data o il luogo di morte.

Oltre ai veri e propri coadiutori temporali, ve ne erano altri che probabilmente non lo erano ma si offrivano ciononostante come tali pur di essere scelti: per una questione di umiltà retorica, o perché davvero sarebbero stati pronti a fare gli “sguatteri” della Compagnia pur di andare in missione?

Domenico Stanislao Alberti era un gesuita in possesso di una certa cultura e capacità intellettuale, dal momento che in una sua indipeta si scusava col Generale per non avere ancora terminato la seconda parte della sua Istoria della Sicilia, della quale era in corso di pubblicazione il primo volume. Ciononostante si offriva per “qualunque impiego […] per tutto il rimanente della mia vita in qualunque Collegio, purché non sia della Sicilia” . In entrambi i casi il luogo di invio era la Sicilia: il suo desiderio di andarsene 167

Non è stato possibile rintracciare la circolare cui qui si accenna.

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ARSI, FG 749, f. 633, Napoli 15 febbraio 1695.

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Luci morì il 4 marzo 1698 a Napoli (FEJÉR, Defuncti secundi saeculi, p. 190).

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ARSI, FG 750, f. 224, Palermo 13 ottobre 1705.

ovunque purché lontano dall’isola natale non venne soddisfatto, e il gesuita vi morì nel 1730 . 168

Anche Francesco Pepes, pur essendo “sul fine della Filosofia”, si offriva “per andare a quelle missioni per Fratello Coadiutore, per servire i Poveri in ogni più vile e negletto ufficio” . La stessa disponibilità dava Niccolò Maria Bell’Assai al Generale, 169

implorando di essere inviato “se non operario, perché di tanto non son degno, almeno garzone de’ nostri nelle da me bramatissime Indie” . Di entrambi i gesuiti non si 170

conoscono i destini.