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Capitolo 3. La destinazione orientale

3.3. Candidati alle Indie orientali: Sarti, Berlendis e Gori

3.4.2. La questione dei riti cinesi vista da Cappelli

È possibile riprendere le tracce di Cappelli con le epistole di aggiornamento che inviò al Generale dall’Oriente: altre testimonianze di lui si trovano quindi nel Fondo Japonica-Sinica. La prima, fittissima, lettera asiatica di Cappelli risale al 1708 : da 119

Macao il gesuita lo ragguagliava sul difficile operato dei gesuiti in epoca di controversia dei riti, con Propaganda Fide che ne aveva minato l’autonomia ma anche altri ordini religiosi che avevano privato la Compagnia del suo monopolio cinese. 


In massima sintesi, la cosiddetta “controversia dei riti” verteva attorno alla liceità di 120

alcune pratiche, frutto di un sincretismo fra la nuova fede cristiana e le millenarie tradizioni cinesi. Tra gli stessi gesuiti non vi era accordo: non per tutti infatti ai neo-convertiti doveva essere concesso di continuare a praticare i riti in onore degli antenati o di Confucio. Così facendo infatti sembrava che i fedeli non si fossero mai del tutto allontanati dai culti precedenti; anche alcuni gesuiti si erano accorti peraltro che una tale permissività incontrava il favore dei letterati cinesi e ne favoriva la conversione, ma al tempo stesso suscitava sospetti, recriminazioni e proteste da parte degli altri ordini religiosi. Ciononostante, il metodo che Ricci aveva inaugurato venne seguito anche dai suoi successori: esso consentiva ai cinesi che abbracciavano il messaggio evangelico di continuare con tutte le attività della precedente vita che non fossero esplicitamente contrarie al cristianesimo. Esse erano del resto imprescindibili per mandarini e letterati, che altrimenti avrebbero finito per essere esclusi dalla vita sociale cinese e suscitare il fastidio dell’imperatore.

ARSI, Jap-Sin. 172, ff. 378, 378v, Macao 22 novembre 1708.

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Sulla intricata e affascinante controversia dei Riti cinesi la bibliografia è molto vasta. Per una

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trattazione esaustiva si veda MUNGELLO, David E., The Chinese Rites Controversy. Its History and

Meaning, Sankt Augustin-San Francisco 1994. Si veda anche, in lingua inglese: BROCKEY, Liam Matthew, Journey to the East: the Jesuit Mission to China, 1579-1724, Cambridge 2007, pp. 184 segg.; MUNGELLO, David E., Curious Land. Jesuit Accommodation and the Origins of Sinology, Honolulu 1985, pp. 292 segg.; KONIOR, Jan, “The Jesuits’ Painful Missionary Period: The Chinese Rites Controversy”, in

Studia missionalia Vol. 60 (2011), pp. 181-193. In italiano cfr. PAVONE, Sabina, I gesuiti dalle origini alla

soppressione, Roma-Bari 2009, pp. 101-108 e la voce “Riti cinesi”, in LAVENIA, Vincenzo, and TEDESCHI, John Alfred (a cura di), Prosperi, Adriano (ed.), Dizionario storico dell’Inquisizione, Pisa

Gli altri ordini fin da subito non videro di buon occhio questa concessione dei gesuiti. Soprattutto a partire dagli anni Quaranta del Seicento, francescani e domenicani (anch’essi presenti nell’Impero dagli anni Trenta, e con politiche di conversione ben diverse) iniziarono a mettere in dubbio la liceità di queste pratiche, nonché di alcune traduzioni e adattamenti fatti dai gesuiti ai concetti base del cattolicesimo. Il disaccordo fra gesuiti e altri ordini era legato anche a questioni di carattere politico, dal momento che i primi si appoggiavano al Padroado portoghese e avevano ottenuto il favore imperiale, riuscendo a operare in Cina con una certa libertà, mentre domenicani e francescani godevano della protezione dell’impero spagnolo ed erano del tutto intenzionati a scalzare il monopolio ignaziano in Estremo Oriente.

Nel 1645 l’istanza dei riti cinesi giunse a Roma: il domenicano Juan Bautista Morales inoltrò a Propaganda Fide le sue perplessità su quello che era percepito come un classico esempio di lassismo gesuita - e non di accomodatio come invece lo vedevano positivamente i missionari della Compagnia. La pratica passò al Sant’Uffizio, che nello stesso anno condannò quello che i gesuiti stavano permettendo ai neo-convertiti ossia il culto degli antenati, le cerimonie in onore di Confucio nonché alcune traduzioni. La Compagnia dovette difendersi e mandò a Roma Martino Martini; questi riuscì a convincere la deputazione incaricata dal Sant’Uffizio che non vi era nulla di intollerabile nell’operato dei gesuiti in Cina e nel 1656 il nuovo decreto consentì loro di continuare con le solite concessioni.

Il domenicano Giovanni Polanco pochi anni dopo riuscì a ottenere dal Sant’Uffizio una parziale vittoria per il partito anti-gesuita, anche se da Roma si confermarono sia il decreto del 1645 sia quello del 1656 e quindi in sostanza ogni ordine veniva autorizzato a continuare con le proprie modalità di conversione, purché non si scrivessero trattati riguardanti lo scottante tema dei riti (con il decreto pontificio del 1710 chi avesse tentato di pubblicare opere sulle querelle sarebbe stato condannato con scomunica). Nel frattempo, però, si erano inseriti altri attori nella vicenda. Charles Maigrot, nominato nel 1687 vicario apostolico della Provincia di Fuan, promulgò nel 1693 un Mandato in cui metteva in discussione le conclusioni del Sant’Uffizio sulla querelle (1656) e accusava Martino Martini di aver fornito delle informazioni non rispondenti al

vero. Il Sant’Uffizio decise quindi di riaprire il caso, analizzando la mole di documentazione prodotta dall’una e dall’altra fazione al proposito.

In quegli anni, la missione gesuita in Cina aveva ottenuto un importante riconoscimento: l’imperatore cinese Kangxi nutriva un certo rispetto per i gesuiti e nel 1692 aveva emanato un editto di tolleranza in loro favore. Il risultato era rilevante per tutta la cristianità ma soprattutto per la Compagnia; esso era legato senz’altro ai molteplici incarichi ricoperti dai gesuiti alla corte imperiale, ma anche al fatto che essi avevano sempre riconosciuto i riti in onore di Confucio e degli antenati una manifestazione civile e non religiosa, e come tale perfettamente tollerabile anche per i convertiti.

Nel 1704, però, i riti cinesi furono condannati con sommo disappunto e incredulità da parte dei gesuiti del Padroado . Il legato apostolico cardinale Charles Thomas 121

Maillard de Tournon (il “cardinale Turnone” di alcune indipetae) venne incaricato di pubblicare il decreto del Sant’Uffizio in Cina. Egli doveva informare della condanna romana i gesuiti portoghesi che più o meno ingenuamente non ne sembravano 122

convinti e intanto temporeggiavano.

Nel 1705 e 1706 Kangxi ricevette Tournon (nel secondo incontro fu presente anche Maigrot) a Pechino ma i due avevano punti di vista opposti sulla questione dei riti. Da un lato l’imperatore aveva già in precedenza mostrato di apprezzare soltanto i missionari che seguivano il metodo di Ricci, dall’altro Tournon non era un conoscitore della cultura cinese e le posizioni adottate fino ad allora dai gesuiti erano per lui inaccettabili.

Kangxi lo cacciò quindi dalla Cina, affinché tornasse in Europa via Macao, e decretò nel 1706 che tutti i missionari che volevano restare nell’Impero dovevano essere in possesso di una apposita patente (piao) che si sarebbe ottenuta soltanto mostrando di

Breve papale del 20 novembre 1704, Cum Deus optimum.

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A partire dal 1685, il re di Francia Luigi XIV aveva deciso di inviare dei propri gesuiti “matematici” in

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Cina, in diretta competizione con quelli che già erano alla corte di Pechino (arrivati tramite il Portogallo ma di diverse nazionalità, tra cui molti italiani) e lavoravano per l’imperatore. I due gruppi di missionari si scontravano quotidianamente e vivevano separatamente; i francesi si sentivano non dipendenti dalla

rispettare la “pratica di Ricci” relativamente ai riti; chi non fosse stato d’accordo doveva abbandonare l’impero.

Tournon era convinto che il suo insuccesso diplomatico con l’imperatore fosse dovuto anche alle onnipresenti macchinazioni dei gesuiti , i quali erano stati i suoi interpreti a 123

corte dal momento che Maigrot e Tournon non conoscevano il mandarino. Nel 1707 Tournon emise l’Editto di Nanchino , in cui comunicava la sua versione del breve 124

papale del 1704, ma i gesuiti dichiararono di non “credere” ancora al divieto dei riti cinesi, anche perché Tournon era andato via da Roma prima che questo venisse confermato e non aveva con sé i documenti pontifici originali, quindi quella comunicazione poteva essere considerata un suo personale escamotage. Questa sottigliezza permetteva ai gesuiti di guadagnare ulteriore tempo ma non risolse la questione, che si concluse (per quanto riguarda l’Antica Compagnia) con la condanna definitiva dei riti cinesi da parte di Benedetto XIV nel 1742.

In quell’anno anche l’Estado da Índia dovette arrendersi alla decisione papale ma prima, quando dopo essere stato cacciato dalla Cina Tournon arrivò a Macao, nessuno aveva interesse a riconoscerne l’autorità: né il re del Portogallo, né i suoi vescovi in Asia, né il viceré dell’Estado da Índia, né l’arcivescovo di Goa né il capitano di Macao. Il legato venne quindi tenuto prigioniero dai portoghesi dal 1709, in quanto aveva violato i diritti del Padroado: il tutto con relative scomuniche, proteste, incertezze da parte del potere civile e religioso, a sua volta diviso al suo interno, con i gesuiti che non sapevano di preciso che cosa fare. Tournon morì nel 1710 (a soli 40 anni) durante questa prigionia, e la leggenda nera lo vuole avvelenato dai gesuiti che lo detestavano e accusavano della rovina della missione.

I gesuiti si trovavano di fronte a un dilemma morale molto difficile da risolvere: rimanendo in Cina avrebbero disobbedito al papa, viceversa se avessero voluto sottomettersi a quest’ultimo sarebbero stati costretti a lasciare la Cina, dove non avrebbero più potuto operare perché non avrebbero potuto giurare di praticare il metodo ricciano come preteso da Kangxi. Al di là di questo, i gesuiti faticavano a credere che da

BROCKEY, Journey to the East, p. 187.

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7 febbraio 1707.

Roma giungesse una comunicazione così perentoria e univoca, che cancellava anni di pratiche di adattamento portate a maturazione con successi evidentissimi anche in Europa, quali anzitutto l’editto di Kangxi del 1692.

Proprio in questo clima delicatissimo era redatta la prima lettera asiatica di Cappelli, che lamentava nel novembre del 1708 la situazione in cui si trovavano a operare i gesuiti, che non capivano più a chi si dovesse obbedire e supplicavano il Generale di ricevere ordini precisi cui attenersi, auspicando la risoluzione di una situazione piena di “disordini che sempre vanno in maggiore precipizio, senza alcuna speranza di rimedio” . 125

Cappelli raccontava di aver appreso che Tournon (“il Patriarca”) era stato nominato Cardinale di Santa Sabina , il che, a suo modo di vedere, poteva essere letto come 126

“una tacita approvazione, che il Papa fa dell’operato di sua Eminenza”. In tal caso, il papa aveva sentenziato sulla questione di riti secondo quanto riportava lo stesso Tournon, e ai gesuiti in Cina non restava “altro scampo, che conciliarci la sua benevolenza per tempo, ancora che vengono risposte da Roma”. Potremmo pensare che Cappelli continuasse in cuor suo a sperare che, in qualche modo, l’operato dei gesuiti in Cina avesse ottenuto approvazione e non condanna da Roma, rimanendo però consapevole che in tempi difficili fosse meglio non inimicarsi un personaggio tanto importante, per non avere da pentirsene in seguito. In realtà, da quel che emerge nel corso della corrispondenza successiva, sembra che Cappelli non ci mise poi molto a distanziarsi nettamente dai gesuiti fedeli alla accomodatio e alle prassi della Compagnia, nel nome di un rapporto piuttosto stretto – e come tale criticato da altri suoi compagni, quali Ludovico Gonzaga come si vedrà – con l’ambigua (dal punto di vista dei gesuiti “portoghesi”) figura di Tournon.

Cappelli, che si trovava a Macao, raccontava al Generale come stavano procedendo quelli che oggi si chiamerebbero gli ‘arresti domiciliari’ di Tournon nella città. I gesuiti erano riusciti a ottenere dai portoghesi, con l’aiuto del Provinciale, che le “guardie” non

ARSI, Jap-Sin. 172, ff. 378, 378v, Macao 22 novembre 1708.

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Tournon venne nominato patriarca di Antiochia nel 1701, prima di partire per la Cina; nel 1707

controllassero troppo severamente Tournon (“benché non l’habbiam ottenuto in tutto, adesso però le guardie non sono come prima, né tanto rigorose”). Questo “corpo di guardie […] obediente agl’ordini di sua Eminenza non impediva “a niuno di entrare né l’uscire, né pure al Signore Patriarca o suoi domestici” – situazione che evidentemente fino a prima del loro intervento era la prassi. Esse comunque dovevano restare “per il timor che hanno de’ Cinesi questi della Città”. Cappelli era però convinto che, se non si fosse lasciata a Tournon completa libertà d’azione, sarebbe stato assai improbabile giungere con lui a un “accordo di pace”: secondo lui, al contrario, accettare le sue pretese e togliergli la scorta avrebbe portato a un rappacificamento anche con il Provinciale.

Cappelli ricordava al Generale di avergli inviato una lettera con “l’ultimo decreto di sua Eminenza, per il desiderio che anche Vostra Reverenza non s’imbrogliasse”. La situazione era delicata e Cappelli si scusava per “la libertà con che scrivo”, ma essa era dovuta unicamente al “gran desiderio che ho […] del bene della Compagnia e del bene publico, che sempre si deve preferire al particolare”. Se non avesse fatto del suo meglio “in sì grave pericolo […] in sì estrema miseria”, non sarebbe stato neppure degno del titolo di “figlio della Compagnia”. Cappelli sosteneva con queste parole che la sua apologia di Tournon, che probabilmente a Roma sarebbe stata vista come un tradimento della causa gesuita, era invece una precisa strategia finalizzata a non mettere in una cattiva luce la Compagnia. Forse in cuor suo Cappelli era davvero convinto di non fare il proprio interesse ma quello del suo ordine, in una situazione a rischio di perdere tutto - o forse capiva quali nuovi venti spiravano e che era inutile, come molti suoi compagni facevano, insistere sulle passate glorie.

Le lettere asiatiche di Cappelli, come fossero dei ‘gazzettini’, narrano vicende interessanti e curiose legate ai gesuiti e alle loro fortune e sfortune in Oriente: esse sono quindi una fonte preziosa per comprendere divisioni, strategie, questioni aperte in un periodo così delicato. Nella missiva scritta da Macao circa un mese dopo (1708), 127

Cappelli illustrava ancor più nel dettaglio “l’operato in questo Collegio per tirare le guardie dalla Casa del Signore Patriarca” di Tournon. Aggiungeva, rispetto alla

ARSI, Jap-Sin. 172, ff. 389, 389v, Macao 23 dicembre 1708.

precedente versione, che appena lui e i suoi compagni avevano saputo, da una lettera giunta da Manila, che Tournon era stato nominato cardinale di Santa Sabina, gli avevano scritto per congratularsene, cercando anche di far sì che una volta per tutte “si tirassero via le guardie dal Palazzo di sua Eminenza”, parlando per oltre due ore, con il “Capitano Generale di Macao, pregandolo […] a tirare le dette guardie, fino a prostrarmigli io a i piedi protestando che non mi alzarei senza alcuna speranza di pace”. Riuscirono ad ottenere dal Capitano di Macao la promessa che avrebbe scritto a Tournon, congratulandosi con lui e “discolpando il passato”: se a questa comunicazione Tournon avesse risposto almeno “due righe, nelle quali significasse che mai hebbe intentione di pregiudicare all’Ius patronato del Re di Portogallo”, gli sarebbero state tolte le guardie alla residenza. Cappelli e un confratello si portarono quindi da lui, che però neppure li ammise e fece soltanto riferire loro che “sua Eminenza non metteva in contrasto la sua libertà”.

Piuttosto sconsolati e stanchi, Cappelli e il compagno il giorno seguente elaborarono un altro piano: andarono a “pregare tutti li Superiori delle Religioni di questa Città, perché andassero a rappresentare al Capitano Generale che conveniva e doveva tirare le guardie dalla casa di sua Eminenza”. Con essi si trovarono quindi a parlare di fronte al Capitano per oltre due ore; anche il Provinciale gesuita appoggiò la causa e Cappelli stesso tenne un discorso in cui difendeva la “libertà Ecclesiastica e di sua Eminenza”. Cappelli ammetteva, anche con Roma, di prendere in sostanza sempre le parti di Tournon. Il Capitano promise che, se tutti i superiori avessero concordato sulla questione, avrebbe allontanato le guardie.

Il 16 dicembre il Capitano convocò i superiori per una “Consulta” nella sua residenza: giunsero “tutti li Padri Prelati Religiosi, con li Principali Ecclesiastici e Secolari della Città”. Il Provinciale gesuita ancora una volta si espresse con efficacia e a favore della mozione, appoggiato dai religiosi e dagli ecclesiastici; i secolari invece erano contrari “per li varii danni che, dicevano, verrebbero alla Città dal tirarsi le guardie”. Ciononostante, il Capitano aveva, con somma consolazione di Cappelli, preso la decisione di togliere le guardie a Tournon: ma appena emanò l’ordine “tutta la Città in

corpo protestò contro tale ordine, dicendo che bastava che le guardie fossero ossequiose e a disposizione di sua Eminenza”.

Fu questa quindi la ragione per cui, dal 18 dicembre, dalla residenza di Tournon non scomparvero le guardie, ma vennero invitate a obbedirgli e a non impedire a nessuno di entrare o uscire. Tournon non fu però affatto contento del risultato, perché non gli bastava che le guardie fossero “ossequiose” ma proprio non “voleva vedere alla sua Casa tali soldati”. Con l’insoddisfazione di tutte le parti in causa, Tournon non accettò di ricevere nessuno di coloro che erano andati a congratularsi o salutarlo e il “negozio” rimase sospeso così, con la città da una parte e dall’altra Tournon, latori di interessi inconciliabili. Secondo la visione di Cappelli questa era una “grande disgrazia, specialmente della Compagnia, a cui certamente tornava conto che si riconciliassero”. Passando ad argomenti che non toccavano direttamente la questione dei riti, il gesuita raccontava poi che al gesuita Paramino , che prima di entrare nell’ordine esercitava la 128

professione di medico, era stato chiesto di occuparsi di uno dei figli dell’imperatore . 129

L’italiano aveva però capito che era incurabile e si era quindi rifiutato di farlo, costringendo l’imperatore a rivolgersi a dei “bonzi”: in breve il giovane morì. L’imperatore si adirò moltissimo e cacciò Paramino dalla sua presenza, addirittura “gli mandò dire che andasse a stare con gli altri nella stalla”. Il ruolo di medico alla corte imperiale si dimostrava anche da questo episodio essere piuttosto ingrato . 130

Un altro episodio di attualità citato da Cappelli fu, come lo chiamava lui, “l’Affare Sidotti”. Giovanni Battista Sidotti era, come si è già visto , un prete secolare siciliano 131

che stava cercando di raggiungere il Giappone del sakoku agli inizi del Settecento. Cappelli lo confermava, aggiungendo che i marinai di Manila, avvedutisi di questo desiderio, ne approfittavano – “si crede” – per ingannarlo e non portarlo mai a

Giandomenico Paramino/i: nato il 29 settembre 1661 a Genova, partì missionario nel 1696

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dall’Europa, arrivò nel 1697 a Macao e nel 1704 a Pechino, dove operò come medico (attività che svolgeva da secolare, e che teoricamente era interdetta ai gesuiti) al servizio dell’imperatore Kangxi. Nel novembre 1709, dopo oltre un anno di malattia, ottenne di essere inviato a Macao (DEHERGNE, Répertoire

des Jésuites de Chine, p. 194).

Potrebbe trattarsi di Yinxie, nato nel 1701 e morto nel 1708 di parotite.

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Cappelli concludeva: “Ecco il frutto che possono aspettare i Nostri che vogliono fare il medico in

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Pechino”.

Cfr. capitolo 3.2..

destinazione “per la speranza della paga”. Proprio nell’anno della lettera di Cappelli, il 1708, Sidotti riuscì a sbarcare a Yakushima: venne ovviamente subito riconosciuto e catturato e, dopo qualche anno di incarceramento e interrogatori, morì nell’odierna Tokyo nel 1715.


Nella missiva dell’anno successivo (1709) Cappelli si era spostato a San 132

Tomé di Meliapor, in India. Il gesuita vi si trovava con l’abate Ignazio Giampè , che 133

come lui era stato “esiliato per li riti di Confusio”. Approfittando del tempo passato insieme e del “discorrere familiare con Lui”, Cappelli si era accorto che l’abate aveva “alcune Massime contro la Compagnia, per le cose succedute nella Cina contro il Signore Cardinale di Tournon”. L’abate avrebbe avuto tra le mani delle lettere scritte dai gesuiti e che erano state consegnate a “Visdelù” affinché le inoltrasse a sua volta al Generale quando fosse arrivato a Roma dove era diretto, ma Visdelou aveva passato le lettere a Giampè. Cappelli era molto preoccupato: “temo che ci potrà pregiudicare in Roma al bene della Compagnia”.

Claude Visdelou, gesuita, fu “uno dei più accaniti detrattori dei riti cinesi, schierandosi su posizioni diametralmente opposte a quelle ufficiali del suo ordine” almeno dal 134

1708; quando si spostò in India (a Pondicherry, dove morì ottantenne), allo stesso modo si scagliò contro le pratiche di accomodatio solitamente messe in atto dai gesuiti in Malabar. Ciononostante, rifiutò di lasciare ufficialmente la Compagnia, anche se accettò la nomina a vescovo di Claudiopolis in partibus infidelium – carica teoricamente