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La “m inim al music ” e Steve Reich

Nel documento Reich (pagine 40-47)

Un curioso destino sembra aver fatto sì che M arcel D ucham p, m agari soltanto attraverso sfioramenti incidentali, si sia trovato ad anticipare motivi destinati a sviluppi im portanti nel linguaggio m usicale contem ­ poraneo. Nel 1913, con il suo

Erratum Musicale,

aveva trasferito nella composizione la ricetta di Lewis C arrai per scrivere una poesia, trovan­ dosi così ad anticipare di qualche decennio i procedim enti casuali che sarebbero stati applicati da John Cage. Nel 1911, per dipingere

Giovane

triste in treno,

si era messo a studiare i procedim enti della “C ronofotogra­

fia”, che avevano avuto una certa diffusione alla fine del secolo scorso. Nel 1883 Etienne-Jules M arey aveva pubblicato sulla rivista «La N ature» la sequenza fotografica di un uomo che fa un salto, e alle nuove possibi­ lità di rappresentazione dischiuse dallo studio della fotografia lo stesso M arey aveva dedicato, nel 1884, il suo

D éveloppement de la m éthode

graphique p a r l ’emploi de la photographie.

D uchamp dichiarò di aver

studiato con molto interesse quei testi e quelle im m agini e d i aver studia­ to anche gli album del fotografo inglese Edward M uybridge. È proprio partendo da un lavoro realizzato da quest’ultim o nel 1887,

Animai in

locomotion,

in cui si vede la sequenza delle im m agini di un uomo che

cammina, che Sol LeW itt trae lo spunto per concepire l’idea dei “m u l­ tipli” e della loro applicazione seriale.

A un anno di distanza, rispettivam ente nel 1967 e nel 1968, e indi­ pendentem ente uno d all’altro, Sol L eW itt e Steve Reich scriveranno con

Paragraphs on Conceptual Art

e

M usic as a Graduai Process

i due saggi in

cui vengono definiti i fondam enti del linguaggio m inim alista e ripetiti­ vo. Ridurre l’infinita varietà dell’universo fenomenico a pochi elem enti costanti da collocare in un contesto strutturato sintatticam ente sarà la prim a mossa di Sol L eW itt per riaffermare quel controllo dell’operare artistico violentam ente scosso dalle istanze irrazionalistiche dell’espres­ sionismo astratto e della “Action P ainting” di Pollock. La produzione di u n ’opera in questa prospettiva verrà ad assomigliare all’impostazione di un problema:

L’artista sceglierà la forma basilare e le regole che governeranno la soluzione del problema. Dopodiché, meno saranno le decisioni prese nel corso del completamen­ to dell’opera, meglio sarà. Verranno in questo modo eliminati il più possibile gli arbitri, i gesti capricciosi e soggettivi. Questa è la ragione per servirsi di un tale metodo.

Dopo aver constatato che «il disegno di una persona non è quella persona mentre il disegno di una linea è proprio quella linea», Sol LeW itt procede alla riduzione dell’universo fenomenico a pochi elem enti come la retta, il cerchio, il cubo, il bianco e il nero; com plementare al processo di riduzione è quello dell’espansione di quei pochi elem enti m ediante una loro organizzazione seriale. E a questo punto che la serie dei foto­ gram m i di M uybridge suggerisce la strutturazione degli elem enti di base, poiché l’artista della C onceptual Art dichiara che quella che m aggior­ m ente lo interessa è «la m olteplicità delle cose, specialm ente quella m olteplicità che può essere generata da u n ’idea semplice». L’idea, soster­ rà Sol L eW itt nei suoi

Pharagraphs,

«diviene una m acchina che produce l’arte».

Le poetiche di Cage e dei suoi seguaci che im plicavano la valorizzazio­ ne deile proprietà creaturali del suono avevano portato spesso a una drastica riduzione del num ero delle unità sonore: comporre usando un num ero m inim o di suoni significava anche avvicinarsi a quella concezio­ ne cosm ogonica del suono unico e universale; su questa via si erano venuti disponendo m olti lavori di Feldm an e di Christian W olff, che nel 1950, con il suo

Duo p er violino

aveva proposto un’intero com ponim en­ to formato da tre suoni soltanto (re-m i bem olle-m i naturale) che copri­ vano l’am bito quanto m ai angusto di un solo tono.

Il La M onte Young che abbiam o più volte citato come protagonista dei com ponim enti verbali del periodo Fluxus, era un personaggio bi­ fronte. Aveva com inciato la sua attività musicale all inizio degli anni C inquanta come jazzista, suonando il saxofono soprano con Don Cher- ry, Eric D olphy e O rnette Colem an; a un certo punto pero la curiosità intellettuale lo aveva avvicinato al fronte della m usica contemporanea inducendolo ad andare a D arm stadt. Com e M orton Feldman, Cage e

tanti altri musicisti am ericani, ebbe anche lui la rivelazione della musica di Anton W ebern. Ai compositori am ericani invaghiti della creaturahtà del suono non interessava granché la tecnica seriale e nem meno quella formidabile capacità di rievocazione che, per dirla con Schònberg, con­ sentiva a W ebern di esprimere un intero romanzo in un respiro. La magica apparizione dei suoni, il loro stagliarsi su silenzi abitati da tensio­ ni inaudite, erano più che sufficienti a mettere in movimento la fantasia, e bisogna convenire che la musica am ericana fu negli anni C inquanta debitrice a W ebern di un gran numero di fertilissim e illum inazioni, abbastanza diverse da quelle innescate nei coevi com positori europei e proprio per questo fonte di equivoci non piccoli. La fascinazione della musica di W ebern aveva fatto scattare in La M onte Young una speciale congenialità, che gli aveva dettato alcuni lavori seriali contrassegnati da pochi suoni tenuti per lunghissim e durate. Aveva com inciato nel 1956

con

Pive small pieces fo r String Quartet on rem em bering a Niad,

seguito

nel 1957 da

Octet fo r brass,

dove il modello quasi m inim alista della

Sinfonia op. 21

di W ebern veniva applicato a una sorta di stasi sonora,

con suoni che duravano da 3 a 4 m inuti; nel 1958, con

String Trio

La M onte Young ci dava una delle sue opere più im portanti in cui la tecnica seriale veniva trascesa in nome di una diversa concezione del suono. Elim inata qualsiasi linea melodica, i tre archi si lim itavano a tenere lungamente dei suoni in modo da formare consonanze arm oniche inter­ calate da lunghi periodi di silenzio. G ià nello

String Trio,

è possibile scorgere la convinzione che i singoli suoni sono parte di uno spettro sonoro universale lungam ente vibrante che li comprende tutti. In questa prospettiva orientaleggiante il pensiero di Young viene a coincidere con quello di Cage; anche lui si sente in dovere di dichiarare: «W e must let sounds be what they are», poiché i suoni hanno una propria esistenza indipendente da quella um ana e un suono non deve essere collegato a un altro per essere interessante. La vita del suono e l’interesse che reca in se possono manifestarsi soltanto se esso risuona per lungo tempo, e il rap­ porto dell’ascoltatore con il suono deve essere contem plativo e creativo. L’attivissimo organizzatore delle performance m usicali nel loft di Yoko Ono decise allora di dare vita a una particolare liturgia m usicale e con­ cepì il concetto di “dream house”, ovvero di uno spazio perm anente in cui, con un corredo di luci capaci di dipingere e articolare lo spazio, le opere musicali potessero essere eseguite in continuazione. Per realizzare questo scopo raccolse intorno a sé am ici e collaboratori con i quali fondò un gruppo dal nome altisonante: The Theater o f Eternai M usic. Il com ­ positore T erry Riley, i m usicisti Lee Konitz, Angus M acLise, John Cale e T ony Conrad furono i principali com ponenti di quel gruppo in cui lo stesso Young cantava e suonava il saxofono. V enne ad aggiungersi, re­ cando un contributo form idabile nell’allestim ento degli spazi e nella regia delle luci, la pittrice e

tight artist

M arian Zazeela, in seguito m oglie di Young e direttrice artistica del Theater of Eternai M usic. L’opera nella

quale meglio si precisano le idee m usicali di Young nasce nel 1962 con

The Tortoise, His Dreams and Journeys.

M etafora dell’idea di u n ’ esecu­

zione continua, questo com ponim ento si pone come un brano che non ha né inizio né fine, un evento in cui il tempo si rende eterno, e infatti, le varie esecuzioni che Young ne propose erano un continuo riannodare il filo. Su una base rappresentata da ronzìi tenuti per un tempp indeter­ m inato si ponevano alcuni passi fondam entali configurati m odalm ente, sui quali poteva innestarsi l’improvvisazione.

I ronzìi, diceva Young, «sono i prim i suoni nella vita della tartaruga, suoni prim itivi dei quali non si può pensare l’inizio», e da quella base si doveva sviluppare la peripezia sonora dei sogni e dei viaggi. I tem pi dilatatissim i, i suoni di base interm inabili, le basi m odali come tracce per u n ’improvvisazione che si deve m ettere in relazione a un suono fonda- m entale, configurano sempre di più una concezione totalmente verticale del suono inteso come un gran fascio vibrante attraversato dai fremiti degli arm onici, un suono unico che vive e respira, e che nella sua totalità esclude qualsiasi idea di m elodia. Il clim a degli anni Sessanta, come pure quello del decennio successivo, sembrava fatto apposta per accogliere con successo l ’idea della “dream house” abitata dai suoni di La M onte Young e dalle pitture lum inose di M arian Zazeela, e difatti i due porta­ rono in giro per il mondo questo luogo ideale adattandolo alle esigenze di spazi chiusi e aperti. Per la D ia A rt Foundation fu creata, tra il 1979 e il 1985, a N ew York una “6-year continuous Dream H ouse” con suoni, luci, mostre, performance, archivi e fonoteche che fu definita da «Art M agazine» «un luogo ideale per la rèverie, in cui si aveva la sensa­ zione di contem plare il cielo in una notte d estate». L’evasione m istica propiziata dalle filosofie dell’O riente, la tendenza m ultim ediale ereditata dalle esperienze fluxus e la pratica dell’improvvisazione finirono però con l’allentare e disperdere quasi interam ente quel rigore intellettuale dal quale avevano preso le mosse l’arte concettuale e la M inim al M usic. Sulla scena am ericana degli anni Sessanta, non era facile riuscire a vivere fino in fondo una poetica rigorosa come quella dell arte concettuale, evitando qualsiasi tipo di contam inazione con le sollecitazioni mistiche e irrazionali; questo, come vedremo, sarà il grande merito artistico e intellettuale di Steve Reich. Prim a però di affrontare la sua rigorosa esperienza occorrerà gettare uno sguardo sulle carriere parallele di T erry R iley e di Philip Glass.

Anche nel caso di R iley gli approcci con la m usica erano stati promi- squi. N ella seconda metà degli anni C inquanta si pagava gli studi all uni­ versità di Berkeley suonando il pianoforte al Golden Street Saloon di San Francisco. Di qui i contatti con jazzisti, improvvisatori, coreografi e con tutto il variopinto mondo della bohème californiana di quegli anni. Q uello spirito avventuroso sta alla base della prim a impresa di R iley, che darà vita alle perform ance degli “A ll-N ight-Concerts , esportati con un certo successo anche in Europa all’inizio degli anni Sessanta. Il

nomadi-smo musicale di questo compositore che si esibisce un po ovunque suonando il saxofono e svariate tastiere, non gli impedisce di approfon­ dire le sue ricerche, specialmente nell ambito dell elettronica. Nei suoi continui spostamenti questo simpatico m usicista californiano, che ac­ quista ben presto l’aspetto di un santone indiano, entra in contatto con La M onte Young, con la coreografa Ann H alprin, subisce l’influenza di Stockhausen e inoltre si mette a studiare con l’indiano Pandit Pran N ath, che in quegli anni attirava tutti i musicisti am ericani non accade­ mici. Durante i suoi vagabondaggi notturni nei piano-bar, R iley usava una tecnica ripetitiva che consisteva nell’accentuare una figurazione rit­ mica allora in voga nella musica di consumo; si trattava di un procedi­ mento quasi istintivo, sul quale il musicista com inciò a riflettere con l’ausilio del nastro magnetico, che gli consentiva di organizzare le ripe­ tizioni in m aniera più regolare.

A ll’inizio degli anni Sessanta R iley mise bene a fuoco due procedi­ m enti, quello del

tape-loop,

che gli consentiva di ripetere continuam ente la stessa figura e quello del

tape-delay,

con il quale riusciva a creare quasi un effetto di feedback elettronico. Nel 1963 la composizione della co­ lonna sonora del film

The Gift

di Ken Devey gli offrì 1 occasione di impiegare la tecnica del

tape-delay

con il quintetto di C het Baker. II. nastro preregistrato fu ri-suonato con effetti di lenta eco e ripetuto attra­ verso il sistema di feedback con il risultato di comporre il suono in cicli. Era il primo barlume di u n ’intuizione che sarebbe stata am piam ente sviluppata nei lavori successivi: un elemento di base poteva essere variato senza fare ricorso ad altri m ateriali, semplicemente sovrapponendosi a se stesso con differenti sfasature. La prim a applicazione si ebbe subito dopo,

con

Dorian Reeds,

dove un motivo di base veniva ripetuto costantemente

mentre motivi addizionali sovrapposti venivano a m utarne la sagoma ritm ica e melodica. Nel 1964 nel

Keyboard Study n. 2

per pianoforte Riley si preoccupa di espandere le possibilità im plicite nel concetto della ripetizione che varia se stessa. Sulla partitura vengono annotate 15 cellu­ le melodiche m odali ciascuna delle quali gira intorno a 2 o 4 note del modo; sopra a ogni cellula è posto il simbolo grafico con cui si indica l’infinito, invitando così l’interprete (o gli interpreti, poiché il pezzo è eseguibile con qualsiasi organico) a un numero di ripetizioni che sarà lui a scegliere. La prima figura (di 4 note) viene ripetuta continuam ente ed è utilizzata come pulsazione di fondo sulla quale verranno a stagliarsi le altre. E quindi attraverso il meccanismo della ripetizione che ciascuna figura acquista il suo profilo melodico e ritmico. La sovrapposizione di più linee orizzontali analoghe funziona come principio generatore delle figure, ma gli interpreti possono anche inventare nuove figure nel corso dell’esecuzione deducendole dal m ateriale di base, e possono decidere liberamente la durata complessiva del brano.

Nello stesso anno (1964) T erry R iley realizzerà con

in C

una delle opere capitali della M inim al M usic. Il principio costruttivo è lo stesso

del

Keyboard Study n. 2

, m a l’opera risulta alquanto più complessa; si fonda infatti su un m ateriale di base di ben 53 figure che offrono molte più possibilità com binatorie. L’idea di partenza è quella di comporre fram m enti di diversa lunghezza in una rete di sovrapposizioni che ha il suo punto di riferim ento nella pulsazione continua di un do (di qui il titolo dell’opera) nel registro acuto. L’organico degli esecutori è assolu­ tam ente libero e ogni esecutore può iniziare in punti diversi scegliendo liberam ente il num ero delle ripetizioni. Essendo l’allestim ento di

In C

di notevole complessità, T erry R iley fece ricorso in quell’occasione alla collaborazione di alcuni am ici m usicisti fra i quali figurava anche il giovane Steve Reich, al quale risale l’individuazione del do acuto costan­ tem ente pulsante come fondam entale im palcatura ritm ica dell’opera.

U na curiosa estrinsecazione visiva del processo generativo innescato dalla sovrapposizione delle linee m elodiche R iley ce la offre nel 1967,

con

Keyboard Study n. 7.

La partitura ha una graziosa forma grafica

consistente in 7 pentagram m i circolari concentrici e sul cerchio più esterno è annotata una figura m elodica form ata dai quattro suoni sol-si bem olle-fa-la bem olle. La figura si ripete intatta per tutta la lunghezza del cerchio m a procedendo verso i cerchi più interni diviene più com ­ plessa poiché viene a inglobare anche i suoni che derivano dalle sovrap­ posizioni della stessa figura. È un esempio grafico di quello che può accadere durante l’esecuzione perché non va dim enticato che l’interprete viene invitato da R iley a dar prova della sua

ars combinatoria-,

la pratica dell’improvvisazione è profondam ente connaturata alla m entalità di R i­ ley, che ha una concezione del far m usica piuttosto diversa da quella degli altri com positori di indirizzo m inim alista. L ’interesse per il singolo suono nell’autore di

In C

si è abbastanza attenuato, lasciando spesso il campo a una concezione i cui elem enti di base sono dati da gruppi di suoni composti in cellule duplicate e variate all infinito, roteanti entro i vortici suscitati dalle pulsazioni ritm iche di base.

U n esempio significativo e attraente di questa tendenza lo si può riscontrare in un altro brano del 1967 intitolato

A Rainbow in Curved

Air,

dove un disegno m elodico di base eseguito da un organo elettronico si scinde attraverso il gioco di altre tastiere e delle percussioni in m olte­ plici riflessi che si susseguono incalzandosi in una ordinatissim a ridda. N ella sciolta piacevolezza di queste pagine, delle quali T erry R iley è quasi sempre interprete oltre che autore, si scorge la vocazione all im ­ provvisazione. R iley è infatti un esecutore straordinario, capace di ani­ m are stupendam ente le sue interpretazioni e di confezionare da sé i propri dischi m ediante una sovrapposizione di registrazioni. Per farsene un 'id ea basta ascoltare la sua esecuzione di

Poppy Nogood,

un brano del 1967 per saxofono soprano e organo, con effetti elettronici di eco, dove la m usica m odula abilm ente dalla stasi m istico-contem plativa ai piu accesi e sim m etrici virtuosism i. La musica, afferma R iley, «deve essere espressione di categorie spirituali come la filosofia, la conoscenza e la

verità e per realizzare tutto questo la m ia musica irradia necessariamente equilibrio e calma».

Nello stesso anno in cui Térry Riley scriveva

Poppy N ogood

e

A Rainbow

in thè CurvedAir

rientrava a N ew York da Parigi un musicista trentenne

destinato a conquistare in pochi anni una notorietà internazionale. Phi­ lip Glass - è di lui che intendiam o parlare - è fra i compositori di indirizzo m inim alista quello che ha seguito gli studi m usicali accademici più accurati. Aveva com inciato a sei anni con lo studio del violino e del pianoforte per continuare con il flauto nell’eccellente Peabody Conser- vatory di Baltimora; dopo gli studi universitari a Chicago si reca nel 1958 alla Ju illiard School di N ew York dove avrà per maestri di compo­ sizione W illiam Bergsma e V incent Persichetti. G ià negli anni di studio Glass si rivela un musicista inquieto e intraprendente, capace di cogliere al volo le occasioni; così, nell’estate del 1960, non esita a recarsi ad Aspen in Colorado per seguire un corso con Darius M ilhaud. Negli anni tra­ scorsi alla Ju illiard School, Glass è uno studente eccellente, scrive molta musica e miete in abbondanza menzioni di lode, prem i, borse di studio: gli riesce perfino di far pubblicare le sue prime partiture. Poteva avere davanti a sé una facile carriera, m a un sentim ento profondo di insoddi­ sfazione lo spinge, nel 1964, a partire per Parigi con una borsa di studio della fondazione Fulbright. Andrà a studiare contrappunto e arm onia con N adia Boulanger, l’illustre e severa docente alla cui scuola già si erano recati Aaron Copland, V irgil Thompson ed Elliott Carter. Il gio­ vane Glass è versatile e inquieto, capace di mettere a frutto esperienze diversissime; così, pur seguendo gli studi della Boulanger, riesce a com­ piere un viaggio in O riente visitando l’India e il T ibet, dove riceve le prime forti impressioni di una civiltà destinata ad avere tanto peso nella definizione del suo linguaggio futuro.

Nel 1965, a Parigi, Glass incontra Ravi Shankar, il famoso virtuoso di sitar, che si era recato in Francia con il suo percussionista Alla Rakha per incidere le musiche destinate alla colonna sonora di un film. C ’era biso­ gno di qualcuno che trascrivesse le musiche di Shankar per gli strum en­ tisti e facesse da interprete, e il giovane Glass non si lasciò sfuggire l’occasione. Iniziò così un contatto fertilissimo che sarebbe stato più tardi rievocato da Glass in questi term ini:

Quello che per me fu una rivelazione era l’uso del ritmo nello sviluppo della struttura generale della musica. Spiegherei così la differenza tra il ritmo della musica

Nel documento Reich (pagine 40-47)