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New York University, Loeb Student Center (novem bre 1971)

Nel documento Reich (pagine 159-174)

U n concerto rappresenta per noi una situazione in cui tutti i m usici­ sti, me compreso, cercano di m ettere da parte i propri pensieri e senti­ m enti in tim i e di concentrare tutte le energie, fìsiche e spirituali, sull’at­ tuazione di un processo musicale continuo.

La m usica non è l’espressione dello stato d ’anim o degli interpreti al momento. È piuttosto lo stato d’anim o degli interpreti a essere determ i­ nato dallo svolgimento progressivo di una m usica composta sulla base di lenti cam biam enti nel tempo.

JohnF. Kennedy Centerfar thè PerjbrmingArts, Washington D.C. (maggio 1974)

Com e interprete e com ponente di un ensemble m usicale, vorrei che mi si dicesse che cosa fare nell’am bito del gruppo, e scoprire che facen­ dolo bene contribuisco a creare della bella musica. Questo è ciò che chiedo alle m ie opere e a quelle degli altri com positori, e che ho cercato

e trovato quando studiavo musica balinese e africana. Il piacere che provo nel suonare non è il piacere di esprim erm i, m a di sentirm i soggio­ gato dalla m usica e di vivere l’estasi che deriva dalfesserne parte.

Sin d alla fine del 1966 partecipo alle prove e suono la m ia m usica in concerto con il mio ensemble.

Nel 1963 decisi per la prima volta che, nonostante i miei limiti d’interpre­ te, dovevo suonare in tutte le mie composizioni. M i era chiaro che per creare una situazione sana sul piano musicale bisognava riunire le funzioni di com­ positore e di interprete. In quell’anno a San Francisco formai il mio primo ensemble, un quintetto dedito all’improvvisazione libera o, qualche volta, controllata. Ci incontrammo almeno una volta alla settimana per circa sei mesi, ma ci mancava il materiale su cui basare le nostre improvvisazioni, che seguivano le reazioni del momento, e sentivo che musicalmente non faceva­ mo progressi. U n giorno portai alle prove delle “tabelle di altezze” (

Pitch

Charts

), che davano a tutti le stesse note da suonare nello stesso momento,

m a con ritmo libero; anche con queste tabelle la nostra evoluzione musicale era troppo limitata, e il gruppo si sciolse.

Nell’autunno del 1965 tornai a New York ed entro la fine del ’66 avevo costituito un nuovo gruppo di tre musicisti: Art M urphy e io come pianisti, e Jon Gibson che suonava stmmenti a fiato. Questo ensemble ha dato esecu­ zioni di

Piano Phase

per due pianoforti,

Improvisations on a Watermelon

per due pianoforti (scartato in seguito),

ReedPhase

per saxofono soprano e nastro magnetico (scattato in seguito) e vari pezzi per nastro magnetico. Con delle aggiunte occasionali, in particolare quella del compositore e pianista James Tenney nel 1967 in una versione per 4 pianoforti di

Piano Phase

e in altri pezzi, la formazione restò la stessa sino al 1970, quando la composizione di

Phase Pattems,

per quattro organi elettrici, e di

Four Organs,

per organi

elettrici e maracas, richiese la creazione di un quintetto comprendente anche il pianista Steve Chambers e, occasionalmente, il compositore-interprete Philip Class. Nel 1971, con la composizione di

Drumming,

l’insieme si ingrandì considerevolmente, sino a comprendere dodici persone tra musicisti e can­ tanti. In questo periodo cominciai a cercare dei percussionisti e ne trovai di eccellenti, tra cui i migliori (Russ Hartenberger e James Preiss) continuano a suonare nel mio gruppo attuale. Per la prima volta dovevo anche trovare dei

cantanti dotati di un senso preciso del tempo e di cui timbro e intonazione potessero fondersi con il suono delle marimbe in

Drumming.

Joan LaBarbara e Jay Clayton si rivelarono perfettamente in grado di adottare questo nuovo stile vocale. Nel 1971 il gruppo ebbe il suo nuovo nome: Steve Reich and Musicians [Steve Reich e i suoi musicisti].

Così sono un compositore con un proprio un ensemble di repertorio. Aggiungiam o al repertorio ogni m ia nuova composizione e i nostri con­ certi comprendono una selezione di opere nuove e/o meno recenti.

Spesso mi viene chiesto quale sia il contributo degli interpreti alla m ia musica. La risposta è che scelgono i “m otivi risultanti” in tutte le com­ posizioni dove sono presenti e che certi dettagli della m usica sono defi­ niti dai com ponenti dell’ensemble durante le prove. I motivi risultanti sono dei motivi m elodici derivanti dalla com binazione di alm eno due strum enti che suonano uno stesso motivo ripetitivo in defasaggio reci­ proco di uno o due tem pi. In

Drumming,

Joan LaBarbara, Ja y C layton, Ju d y Sherm an e io abbiamo tutti contribuito a selezionare i motivi risultanti da cantare nella seconda sezione del pezzo, scegliendoli tra quelli che derivavano dalla com binazione delle tre m arim be. U na volta scelti i m otivi, abbiamo stabilito l’ordine in cui eseguirli con l’aiuto di nastri in loop delle varie com binazioni di m arim ba, che abbiam o ascol­ tato e riascoltato più volte durante le prove nel corso dell’intera estate del

1971. Analogam ente, in

Six pianos,

Steve Cham bers, Jam es Preiss e io abbiamo scelto e stabilito l’ordine di esecuzione dei motivi risultanti durante le prove, nel negozio di pianoforti Baldw in di N ew York, nel­ l’autunno e nelfinverno del 1972-73.

N ell’estate del 1973, a Seattle, ho lavorato sulla sezione di m arim ba di

D rumming

con degli altri cantanti, che udivano e cantavano dei motivi

risultanti molto diversi dai cantanti di N ew York. D i ritorno a New York, ho mostrato i nuovi motivi risultanti a Jay C layton e Joan LaBar­ bara, che decisero di incorporarne alcuni nella loro versione: i dettagli della m usica cambiavano con gli interpreti.

La selezione dei motivi risultanti non è improvvisazione; in realtà si tratta di definire i particolari della composizione. L’interprete ha l’op­ portunità di prestare ascolto ai dettagli m inim i e di eseguire quelli che ritiene più interessanti sul piano musicale.

C ’è un’idea nell’aria, sostenuta da coreografi e com positori sin dagli anni Sessanta, secondo cui l’unico piacere che un interprete (m usicista o danzatore) può provare consiste nel Li m p ro v visazio ne, nella libertà di esprimere il proprio stato d ’anim o del momento. U na partitura rigida o l’indicazione di istruzioni precise per l’esecuzione sono equiparate a una forma di controllo politico che gli interpreti non gradiscono. E u n ’idea che non condivido affatto. John Cage ha detto che il compositore è qualcuno che dice agli altri cosa fare, e che questo non rappresenta una buona situazione sociale. M a chi conosce i m usicisti e lavora con loro sa che la loro gioia deriva dal suonare la m usica che am ano, o alm eno che

trovano m usicalm ente interessante. La m usica può essere improvvisata o meno. L ’im portante è quello che succede sul piano

musicale

: è bello, si avvertono delle scariche elettriche per la colonna vertebrale, o no?

Di solito i com ponenti dell’ensemble vi restano per un periodo da tre a cinque anni o anche più, presum ibilm ente per il piacere di suonare la m ia m usica o almeno perché la trovano interessante. Il lavoro n ell’en­ semble provvede solo a una parte del loro reddito; alcuni stanno prepa­ rando un dottorato in m usica africana, indonesiana o indiana, altri inse­ gnano percussione. T u tti sono concertisti di professione in ensemble m usicali che com prendono orchestre, gruppi da camera, gruppi di m u­ sica medioevale, ensemble di m usica classica indonesiana, africana, del­ l’India m eridionale, gruppi jazz e d ’improvvisazione libera. L’ideale per il mio gruppo è precisam ente questo tipo di m usicista, che com incia con una solida formazione nell’am bito della m usica classica occidentale e in seguito si orienta verso altre tradizioni m usicali.

La presenza nell’ensemble di musicisti che suonano un determinato stru­ mento o che hanno determinate caratteristiche vocali è un incentivo a scrive­ re più musica per quei dati strumenti o voci. I percussionisti e i cantanti con i quali ho cominciato a lavorare in

Drumming

mi hanno incoraggiato a scrivere altra musica per voci e per strumenti a percussione:

Music forM allet

Instruments, Voices and Organ

è uno dei risultati. Dal momento che gran

parte della m ia musica per strumenti a tastiera comporta esclusivamente dei movimenti della mano dal basso in alto e dall’alto in basso in luogo della tecnica tradizionale, i percussionisti sono più adatti di molti pianisti a suonare pezzi sul genere di

Six Pianos.

La maggioranza dei componenti del mio ensemble è formata da percussionisti che suonano all’occorrenza anche stru­ menti a tastiera. Questi musicisti sono anche i miei primi e principali critici. Durante le prime prove di un nuovo pezzo, le reazioni degli interpreti spesso mi indicano se la nuova composizione effettivamente funziona. Non solo i commenti verbali durante o dopo le prove, m a anche una risata d’apprezza­ mento o uno sguardo imbarazzato bastano a farmi rendere conto se sono sulla strada giusta. Un caso del genere si è verificato all’inizio dell’autunno del 1972 quando, a seguito delle reazioni di James Preiss, Russel Hartenberger e Steve Chambers decisi di lasciar perdere i vari tentativi di pezzi per più pianoforti precedenti la versione finita di

Six Pianos.

C ’è anche la questione della frequenza delle prove. Per la m aggior parte dei pezzi nuovi della durata di 20 m inuti circa, le prove vengono effettuate una o due volte alla settim ana per due o tre mesi. Per

Drum­

m ing

che dura circa u n ’ora e venti m inuti, c’è voluto quasi un anno di

prove settim anali. T em p i di prova così lunghi consentono di apportare numerose piccole m odifiche di tipo compositivo mentre il lavoro è an­ cora in corso e di dare quella solidità a ll’ensemble che rende il suonare insieme una gioia.

(1 9 6 5 -1 9 7 3 )

A lla fine del 1964, ho registrato su nastro un predicatore nero, Brother W alter, che parlava del D iluvio nel parco di U nion Square a San Fran­ cisco; m i aveva colpito molto la qualità m elodica del suo discorso, ai lim iti del canto. A ll’inizio del 1965 com inciai a comporre dei nastri in loop con la sua voce, che ne misero ancora più in risalto le qualità melodiche. Il significato delle parole sul loop: «It’s gonna rain [verrà a piovere]», non aveva perso d im portanza, ne età stato trascurato, al con­ trario, l’incessante ripetizione delle parole rendeva più intensi sia il loro significato sia la loro m elodia.

Q uando si usa la registrazione di un discorso come m ateriale per una composizione elettronica, la m elodia e il significato vengono presentati in blocco, come nella realtà; è diverso dal comporre musica per un testo, per cui un certo numero di sillabe deve corrispondere a un certo numero di note, e si deve decidere quale sarà la loro relazione m elodica. Con il parlato preregistrato, non c’è bisogno di stabilire quante note porre in corrispondenza di ciascuna sillaba e di sapere che m elodia ne risulterà: si ascoltano le parole, e questo è tutto. Invece di comporre la m usica per un testo, ho scelto i fram m enti di discorso registrato che la m ia intuizione m i suggeriva di utilizzare come m ateriale m usicale. L’origine del mio interesse per la m usica elettronica era in relazione con la possibilità di lavorare sul parlato preregistrato.

A ll’inizio degli anni Sessanta, m i interessai alla poesia di W illiam Carlos W illiam s, di Charles Olsen e di Robert C reeley e provai a com­ porre m usica per i loro testi in varie occasioni, e sempre senza successo. Il fallim ento era dovuto principalm ente al fatto che la loro poesia si era forgiata sul ritm o inerente alla dizione am ericana, e che m ettere in m u­ sica i loro testi significava distruggerne questa qualità. Per continuare a far m usica vocale, decisi allora di comporre dei pezzi per nastro m agne­ tico sulla base di un parlato preregistrato.

Era deludente che la m usica su nastro m agnetico, o

musique concrète,

rico-noscere, proprio m entre il suo principale motivo d ’interesse risiedeva per me nella possibilità di registrare suoni reali come il parlato, nello stesso modo in cui una cinepresa registra delle im m agini. Se si fosse riusciti a riprodurre il parlato senza alterarne l’altezza o il tim bro, se ne sarebbe preservato l’interesse originario, intensificandone nel contempo il signi­ ficato e la m elodia m ediante l’aggiunta di una struttura ritmica.

La ripetizione costante con nastri in loop produce proprio questo tipo di intensificazione ritm ica. L’idea di ricorrere alla ripetizione costante mi venne in parte a seguito del lavoro con i nastri in loop che avevo svolto sin dal 1963, m a soprattutto d all’aver collaborato con T erry R iley alla prim a esecuzione del suo

In C,

in cui vari motivi ripetuti si com binano sim ultaneam ente. A ll’epoca ero alla ricerca di una nuova tecnica m usica­ le basata sulla ripetizione. Inizialm ente provai a svolgere un nastro “con­ tro se stesso” in relazione canonica. Era u n ’idea che avevo già sperim en­ tato in alcune m ie com posizioni precedenti, in cui due o più strum enti identici suonano le stesse note l’uno contro l ’altro. M entre cercavo di allineare due nastri in loop identici, scoprii che il modo più interessante di procedere consisteva nelFallineare i nastri all’unisono, e poi di lasciarli andare gradualm ente in sfasatura. M entre ascoltavo questo processo gra­ duale di defasaggio, com inciai a renderm i conto che si trattava di una forma straordinaria di struttura musicale. Si poteva esplorare un certo numero di relazioni tra due entità senza alcuna transizione. Era un pro­ cesso m usicale continuo, senza interruzioni e rotture.

Retrospettivamente, considero il processo di sfasatura, graduale tra due o più motivi musicali ripetuti, come un’estensione dell’idea di canone circolare o infinito. Come nel canone tradizionale, si suonano due o più melodie identiche, una delle quali attacca dopo l’altra. Nel processo di defasaggio le melodie sono di solito dei motivi ripetitivi molto più brevi, e l’intervallo di tempo tra un motivo melodico e la sua imitazione è variabile, anziché essere fisso. Ciononostante, la forte somiglianza di questo nuovo processo con la tecnica medioevale del canone gli dà una risonanza particolare: le idee nuove, quando sono valide, spesso rivelano origini antiche.

La prima parte del nastro magnetico

It’s gonna rain,

completato nel gen­ naio del 1965, è un’attuazione letterale di questo processo. Due loop sono allineati all’unisono, poi vanno gradualmente fuori fase per ritornare di nuo­ vo all’unisono. Il processo si svolge in maniera impersonale, non fa che seguire la

propria

tendenza implicita. Tutto avviene con grande precisione, nulla è lasciato al caso; una volta stabilito, il processo va avanti da solo.

***

Alla fine del 1965, tornai a N ew York e nel 1966 composi altri due pezzi per nastro magnetico,

Come Out

e

Melodica. Come Out

è essenzialmente un’elaborazione più raffinata di

I t’s gonna rain,

sia riguardo alla scelta della fonte del parlato sia per il modo preciso in cui si svolge il defasaggio.

M elodica

è interessante per due m otivi. Innanzi tutto, ha quasi esat­ tam ente la stessa struttura ritm ica di

Come Out.

Ascoltati in successione, i due pezzi sono un esempio di come una stessa struttura ritm ica possa tradursi in suoni diversi, producendo due diverse composizioni m usicali. Può anche essere interessante sapere che ho composto questo pezzo in un solo giorno il 22 maggio del 1966, con una m elodica (uno strumento giocattolo) e dei nastri m agnetici in loop, dopo averne sognato il motivo melodico la notte precedente.

Poco dopo aver completo

Melodica,

com inciai a pensare di scrivere della musica strum entale.

M elodica,

la m ia ultim a opera per nastro m a­ gnetico, era costituita da altezze m usicali (anziché di parlato) elaborate con dei nastri in loop. M i dava l’impressione di una transizione della musica per nastro magnetico alla m usica strum entale. Purtroppo all epo­ ca m i sembrava impossibile che due due esseri um ani potessero attuare il defasaggio, dato che doveva la sua scoperta e il suo modo di esistenza alle macchine. D ’altra parte, non mi veniva in m ente nulla di adatto a degli interpreti dal vivo che fosse altrettanto interessante del processo di sfasatura. Finalm ente, alla fine del 1966, registrai un breve motivo me- Iodico ripetuto al pianoforte, ne feci un nastro in loop, e cercai di suo- nare contro il nastro, proprio come se fossi un secondo registratore. Benché la m ia esecuzione non fosse perfetta come quella di una m acchi­ na, m i accorsi con sorpresa che vi si avvicinava in modo approssimativo, facendomi scoprire una nuova m aniera di suonare che m i dava grande soddisfazione: le decisioni erano state prese prim a dell’esecuzione (sape­ vo che avrei com inciato a ll’unisono, che con una sfasatura graduale mi sarei spostato in anticipo di un tempo, che avrei fatto una pausa e poi mi sarei spostato ancora avanti di un altro tempo e così via sino a tornare all’unisono); inoltre non c’era bisogno di leggere la partitura, potevo farmi coinvolgere com pletam ente dall ascolto m entre suonavo.

Nel corso dei mesi successivi, io e A rthur M urphy, un m io amico m usicista, ciascuno a casa propria, sperim entam m o il processo di defa­ saggio con un pianoforte e un nastro in loop. All inizio del 1967 final­ mente avemmo l’occasione di suonare insieme su due pianoforti e sco­ prim m o con nostra grande gioia che potevano attuare il processo senza aiuto meccanico di sorta. Ancora una volta, ci colpì la situazione unica di potersi far prendere com pletam ente d all’ascolto m entre si suona, m a con la consapevolezza esatta di cosa si sta facendo

{non stavamo im prov­

visando).

In seguito, trascrissi l’intero pezzo, che si chiama

Piano Phase,m

notazione convenzionale, con delle linee punteggiate tra le battute per indicare lo sfasa­ mento progressivo. La partitura non ci è stata necessaria mentre suonavamo e non lo è per chiunque altro voglia suonare il pezzo; il materiale musicale di

Piano Phase

è costituito da un certo numero di motivi melodici che si ripe­

tono, e che si possono imparare e memorizzare in pochi minuti. La partitura indica che i due musicisti cominciano all’unisono, suonando lo stesso motivo

varie volte, e che a un certo punto, mentre uno dei due continua alla stessa velocità, l’altro accelera gradualmente sino a portarsi una semicroma in anti­ cipo rispetto al primo.

Es. 9. P iano Phase (1967), battute 1-3

Il primo pianista comincia alla battuta 1 e il secondo attacca all’unisono alla battuta 2. Il secondo pianista accelera il tempo poco a poco e si porta gradualmente fuori fase rispetto al primo pianista sino a che (in 20 o 30 secondi) si trova una semicroma in anticipo, nella posizione indicata alla battuta 3. Le linee punteggiate indicano lo spostamento graduale del secondo pianista e la sfasatura che ne consegue rispetto al primo pianista.

Il processo si ripete sino a che i due m usicisti ritornano all’unisono. A questo punto viene introdotto un nuovo motivo e il processo di defasag- gio ricom incia. U n m usicista sa cosa vuol dire tutto questo. Non c’è bisogno di leggere la partitura per eseguirlo: cosa c’è da leggere se non una serie di linee punteggiate? Così si im para il m ateriale musicale del pezzo e poi la partitura si m ette da parte perché non è più necessaria, sarebbe solo una distrazione. Per suonare il pezzo bisogna invece

ascolta­

re con molta attenzione

per poter stabilire se ci si è spostati di una semi­

croma in avanti, o se di due per sbaglio, o se si è cercato di anticiparsi mentre si è tornati per errore alla posizione di partenza. I due musicisti ascoltano con attenzione e provano ad attuare il processo musicale varie volte sino a che lo controllano bene. T utto è prestabilito, non c’è alcun posto per ¡’improvvisazione. La psicologia dell’interpretazione, quello che avviene m entre si suona, è un coinvolgim ento totale con il suono, sia sul piano sensibile sia su quello intellettuale.

I pezzi per nastro m agnetico precedenti

Piano Phase

rappresentano l’attuazione di u n ’idea generata da m acchine m a anche l’apertura su una musica strum entale alla quale non sarei m ai arrivato se avessi ascoltato soltanto m usica occidentale o soltanto m usica non occidentale. C i si potrebbe chiedere cosa si prova nel suonare m usica strum entale im itan­ do una m acchina. Penso che vi siano delle attività um ane di “imitazione

Nel documento Reich (pagine 159-174)