2.2 La figura di un leader: Nasdrallah.
2.3 La percezione europea del conflitto israelo-palestinese.
La risoluzione del conflitto arabo-israeliano è un elemento fondamentale per prevenire le varie criticità che affliggono il Medio Oriente.
Secondo l’UE una soluzione perseguibile è la costituzione di uno Stato palestinese indipendente che coesista accanto ad Israele.
Gli sforzi sono molteplici: la ripresa dei negoziati tra la Siria ed Israele nel maggio del 2008 hanno espresso speranza agli occhi dell’ Europa per dialoghi di pace possibili tra Israele e Libano.
L’UE inoltre ha sempre definito come obiettivo politico prioritario in merito alla questione israelo-palestinese quello di una coesistenza pacifica fianco a fianco di uno Stato palestinese, sovrano ed indipendente, con uno stato sionista quale quello esistente entro confini riconosciuti e sicuri.
Nel dicembre del 2008, l’UE ha avuto grande preoccupazione per l’accelerazione dell’espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati.
In definitiva la costruzione di insediamenti ovunque nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est è stata giudicata illegale alla luce del diritto internazionale.
Tale posizione è stata ribadita con una dichiarazione che la Presidenza di turno svedese ha rilasciato a nome dell’Unione Europea il giorno 8 settembre 200826.
Per Jorgen Jensehaugen, capo redattore del Journal for Peace Research, l’UE potrebbe avere un ruolo determinante all’interno del conflitto israelo-palestinese.
Dal punto di vista economico, includere l’economia palestinese nella cooperazione con l’UE è un’idea nobile, ma, secondo Jensenhaugen , la situazione sul campo ci chiarisce che questa è una politica vana: Israele controlla tutti i confini palestinesi, incassa le tasse di import-export per conto dell’Autorità Palestinese, controlla lo spazio aereo e gli sbocchi sul mare. In altre parole, nella pratica il commercio e la cooperazione congiunti di UE-Israele-Palestina sono rafforzati dal commercio e dalla cooperazione tra UE e Israele27.
La diplomazia europea nei confronti del conflitto israelo-palestinese si basa su due pilastri: da un lato il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, dall’altro il sostegno all’autodeterminazione dei due popoli (e dei due stati dal 1999 in poi).
26 http//leg16.camera.it/. 27
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Nel 1980, con la Dichiarazione di Venezia, l’Europa è stata pioniera nel sostenere contemporaneamente il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza e il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.
Considerando i diritti umani e il diritto internazionale nell’ambito del conflitto israelo- palestinese le responsabilità per le parti in causa sarebbero:
1) Rispetto da parte di Israele come potenza occupante della 4° Convenzione di Ginevra. Questo aiuterebbe a frenare la colonizzazione dei territori occupati e garantirebbe il rispetto dei diritti umani fondamentali dei palestinesi aumentando fiducia e comunicazione tra le parti.
2) Dovere da parte dei militanti palestinesi nel condurre la resistenza nei limiti del diritto internazionale. Responsabilizzerebbe inoltre l’ANP ad assicurarsi che gli attori palestinesi operino nel rispetto del diritto internazionale.
3) Rispetto da parte della comunità internazionale ed in particolare degli stati terzi aderenti alle Convenzioni di Ginevra a non sostenere, ma a disincentivare le violazioni dalle parti in conflitto28.
Gli stati europei risentono di una politica molto debole: da una parte sostengono Israele nel suo diritto all’esistenza, dall’altra tuttavia cercano di avere buoni rapporti con i Palestinesi perché non intendono perdere l’amicizia e soprattutto i buoni rapporti commerciali con gli arabi in generale. A questo si aggiunge che non esiste una politica estera comune degli stati europei in Medio Oriente, come in ogni altro campo d’altronde, e quindi ogni stato ha una sua politica particolare, spesso in concorrenza con quella del vicino. Tuttavia proprio per questo gli europei vengono visti come i meno schierati: da qui la richiesta di truppe d’interposizione come in Libano29.
Secondo l’ex ministro degli Esteri On.Emma Bonino, Israele dovrebbe entrare a far parte dell’UE.
L’ingresso sarebbe giustificabile per tre motivi. Il primo perché contribuirebbe sul fronte internazionale a risolvere l’instabilità ed il logoramento decennale di cui sono vittime israeliani e palestinesi.
Israele in questo caso, sarebbe più incline a fare concessioni e trovare un accordo con i palestinesi perché saprebbe di non dover contare più solo sulle sue forze ma sul sostegno di quasi mezzo miliardo di cittadini europei.
28 http//www.iai.it/pdf/mediterraneo/Pioppi_tocci-181206.pdf 29
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L’appartenere all’UE da parte di Israele non avrebbe come scopo principale quello di trovare la pace, ma raggiungerla grazie ad una prospettiva seria e credibile di adesione.
La seconda ragione riguarda il fronte interno. Una seria prospettiva di allargamento avrebbe tutto il potenziale per innescare anche in Israele nuove dinamiche di riforma, così come è già avvenuto con tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno aderito tra il 2004 e il 2007 e come sta avvenendo con la Turchia.
Anche se nessuno contesta che Israele sia una democrazia consolidata, la prospettiva dell’adesione sarebbe un incentivo forte e univoco verso la costruzione di una società ancora più liberale e aperta, fondata sempre più sui diritti individuali e sul pieno rispetto delle minoranze .
La terza ragione fondamentale riguarda infine gli europei. Attraverso il processo di adesione l’UE avrebbe la possibilità di diventare un vero attore strategico e influente in Medio Oriente . Israele rappresenta in sintesi l’occasione per l’UE di rafforzare la sua credibilità come attore capace di contribuire alla soluzione dei conflitti e di generare nuove dinamiche di sviluppo a livello internazionale. Si tratterebbe di una credibilità enorme, conquistata su quello che forse è il più difficile teatro moderno e che darebbe una proiezione molto più solida.
Una crescita di leadership da usare per avanzare una parte originale ed attraente dell’idea di integrazione europea: non tanto in termini culturali, ma in termini di modello di convivenza, attraverso la diffusione della democrazia, della stabilità, del rispetto dei diritti umani.
E’ soprattutto in Medio Oriente che si gioca la partita per sconfiggere la teoria dello scontro tra civiltà.
Il clima degli ultimi anni è stato determinato da un nuovo attivismo europeo sul terreno medio- orientale.
Due sono stati gli avvenimenti importanti sul fronte interno: la decisione storica presa dal governo israeliano di iniziare lo smantellamento degli insediamenti della Striscia di Gaza, dall’altro, la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del 2006.
L’UE in questo contesto si è dimostrata parte attiva innanzitutto con la missione al valico di Rafah al confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto.
Secondo, la partecipazione alla missione UNIFIL delle Nazioni Unite in Libano, con una presenza e un ruolo di leadership incontestato.
Missioni operate in cooperazione con gli israeliani e che solo gli europei avrebbero potuto condurre nella maniera in cui si stanno svolgendo.
Per gli europei e in particolare per gli italiani che in questo momento hanno la guida di entrambe le missioni si tratta di una responsabilità importante, ma anche di grande orgoglio.
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La capacità dell’UE di essere presente nel teatro medio-orientale è un primo passo verso la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Lo “step successivo” deve essere il rilancio dell’idea di adesione di Israele all’Unione.
L’adesione dello stato sionista deve avvenire parallelamente con un rafforzamento dei legami economici con i paesi vicini e quindi è necessaria un’apertura verso un’integrazione regionale. L’Europa non può rimanere a guardare all’interno dei suoi confini: per il suo stesso futuro, per la sua crescita economica, per la sua sicurezza interna e per la gestione di una società multiculturale deve essere sempre più capace di guardare fuori e dare un contributo decisivo ai problemi che affliggono il mondo.
L’Unione è il più grande donatore di aiuto ai palestinesi e il primo partner commerciale per Israele; il rilancio ad una politica di vicinato può essere efficace solo se Israele vuole aderire o meno all’UE. La Commissione ha confermato comunque nel luglio del 2013, di non garantire finanziamenti comunitari alle entità israeliane presenti nei territori occupati. La decisione, che giungeva mentre gli Stati Uniti tentavano di rilanciare il dialogo con i palestinesi, è stata presa nonostante le vive proteste di Israele.
La posizione assunta dalla comunità europea trova giustificazione secondo la quale “gli accordi” bilaterali con Israele non riguardano i territori caduti sotto amministrazione israeliana nel giugno 1967, ha così comunicato l'Alto rappresentante per la Politica Estera Catherine Ashton.
Con questa precisazione, «il nostro obiettivo è di chiarire la posizione della Ue in vista dei negoziati con Israele per le prossime prospettive finanziarie che inizieranno nel 2014» ha confermato l’alto rappresentante, che tra l’altro ha sottolineato che la presa di posizione da un lato, è la conferma di una posizione assunta da tempo, e dall'altro non pregiudica l'esito delle trattative di pace israelo-palestinesi.
La classe dirigente israeliana deve cominciare a chiarire quale prospettiva vuole garantire al proprio paese30.
La decisione qualora fosse positiva dovrà avvenire senza la richiesta da parte israeliana di nuovi criteri geografici o criteri religiosi in quanto l’adesione all’Europa è uno spazio politico e non uno spazio fisico.
A tutto oggi l’aspetto prevalente dell’UE è stato quello di sostenere la realizzazione di uno stato palestinese, impegnandosi in una serie di politiche che andavano dal supporto del processo diplomatico, alla fornitura di aiuti umanitari, al dispiegamento di missioni Pesd (politica
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europea di sicurezza e difesa) nei territori occupati. Tuttavia non ha preso alcun tipo di iniziativa per ottenere lo smantellamento delle strutture dell’occupazione31.
Per quanto riguarda la posizione di Hezbollah, i 28 paesi membri dell’Unione hanno deciso di inserire l’ala militare degli hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, con il conseguente congelamento delle sue attività economiche.
La decisione, sostenuta in modo energico dalla Gran Bretagna e dall’Olanda, serve per dimostrare un atto di forza dell’UE nei confronti del terrorismo.
A differenza degli Stati Uniti e dello stato sionista, l’UE ha voluto iscrivere solo l’ala militare e non quella politica di hezbollah: la scelta è stata voluta per non avere ripercussioni con il Libano.
La decisione europea comporterà il congelamento delle attività economiche dell’ala militare e la scelta legale è legata ai recenti attentati Hezbollah sul territorio europeo. In particolare l’organizzazione militare del movimento di liberazione libanese sarebbe responsabile dell’attentato avvenuto in Bulgaria il 18 luglio del 2013 che è costata la vita a cinque israeliani e del loro autista.
Immagine 10 attentato aeroporto di Burgas (BULGARIA) (fonte:www.focusonisrael.org/2013/02/06/hezbollah-attentato- bulgaria.)
Il provvedimento dell’ UE, nello specifico, inserisce l’ala militare di Hezbollah nella lista delle organizzazioni riconosciute come attive nel perseguire finalità terroristiche , distinguendola dalla componente politica che invece continua ad essere riconosciuta come legittimo partito libanese 32. Essa non è piaciuta al ministro degli Esteri libanese Adnan Mansour che ha definito la decisione europea “affrettata”. Al contrario è piaciuta ad Israele, nonostante abbia criticato la scelta comunitaria nel bloccare i fondi europei alle organizzazioni israeliane presenti nei territori occupati.
Quali potrebbero essere le conseguenze dell’applicazione di un provvedimento come quello sopra esposto nei confronti di Hezbollah ? Di fatto irrilevanti dal momento che ufficialmente non esistono rapporti con l’ala militare da parte europea.
31 http//www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1155 32
N.Pedde. La crisi politica egiziana e l’inclusione dell’ala militare di Hezbollah nelle liste del terrorismo
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Diventa difficile inoltre poter tracciare i trasferimenti illeciti di denaro, così come l’individuazione nel suolo europeo di esponenti della componente Hezbollah bandita dal voto dei ministri degli esteri dell’Unione.
Non viene pregiudicata la capacità logistica e finanziaria di Hezbollah che sicuramente potrebbe portare ad un ridimensionamento dell’interesse del movimento di liberazione nelle aree in cui opera il contingente ONU ( quindi UNIFIL), con possibili rischi di qualche provocazione pericolosa a giustificazione dell’inapplicabilità concreta della decisione europea.
A tutto questo deve essere aggiunto il parametro relativo al potenziale destabilizzante del provvedimento sugli equilibri politici libanesi e al generale stato delle relazioni del paese con l’Unione Europea.
L’attuale presidente del parlamento libanese Nabih Berri, durante il vertice del movimento sciita Amal, ha criticato il provvedimento europeo evidenziando gli effetti disastrosi dello stesso sulla stabilità e sicurezza del Libano. Dello stesso parere è stato il Primo Ministro uscente Najib Mikati e di quello incaricato Tamam Salam, che hanno parlato di pericolo per l’intero “Paese dei Cedri’’. Il presidente libanese Michel Sleiman, in tono più moderato, ha ritenuto la decisione europea errata e a condividere la stessa opinione sono stati anche i partiti tradizionalmente ostili ad Hezbollah, ricordando il ruolo di quest’ultimo nel conflitto contro Israele e per l’indipendenza nazionale.
Quindi un coro unanime di condanna ha caratterizzato il quadro politico libanese, per il quale è stato un momento per dimostrare una inaspettata solidarietà nazionale nei confronti di Hezbollah e nello stesso tempo favorire il dialogo in una difficile fase di transizione.
Il 24 luglio 2013, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasdrallah ha commentato la decisione europea durante una conferenza a Beirut, dichiarando la stessa un’imposizione degli Stati Uniti ed Israele attraverso il ruolo della Gran Bretagna, di un insulto al Libano e di un’ingerenza chiaramente pilotata nell’interesse di Israele33. Anche se il governo di Gerusalemme non ha ancora espresso alcuna decisione circa l’entrata nell’UE, venti europeisti soffiano dall'interno del Paese. Marco Pannella sul Jerusalem Post del 18 ottobre del 1988 scriveva che “i confini di Israele possono essere i confini degli Stati Uniti d’Europa ed i cittadini d'Israele possono essere i cittadini degli Stati Uniti d'Europa, della Comunità Europea. La difesa, la sicurezza d'Israele possono coincidere con quelle di altri trecento milioni di persone". Si era così lanciata per la prima volta la proposta di adesione di Israele all'Unione europea. Alla base, la convinzione che solo questa potesse essere la via per raggiungere un accordo di pace che il mondo cerca da quasi settant'anni. A distanza di anni
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secondo un sondaggio condotto dalla Ben Gurion University nel giugno 2011, l'81% degli israeliani vorrebbe l'ingresso del Paese nell'Unione. "C'è una forte dissonanza tra la non- posizione del governo e la chiara volontà dei cittadini d'Israele", dice il professor David Newman, presidente del comitato direttivo del Centro per lo studio della politica e della società europea della Ben Gurion University. Anche se, a ben vedere, "in quell'81% ci sono soprattutto studenti che vedono nell'Europa un'interessante meta di viaggio e studio". Ben lontano dunque da motivazioni politiche. Ci sono due ragioni fondamentali per cui l’ingresso di Israele nell’Unione Europea non è nemmeno ipotizzabile", continua Newman. "La prima è che non è parte del continente europeo e per quanto ci sia una vicinanza culturale ci sono anche forti e innegabili differenze. La seconda riguarda i confini dello Stato e i territori occupati dopo il 1967". La West Bank e le alture del Golan non sono riconosciute dall'Europa come facenti parte di Israele e questo porrebbe non pochi problemi su quali dovrebbero essere i confini dell'eventuale Stato membro. Territori che oltre la Green Line sono stati recentemente un’importante questione di discussionetra l'Unione Europea e Israele a proposito della partecipazione di quest'ultimo al programma di ricerca Horizon 202034. Le linee guida europee hanno imposto una condizione imprescindibile: nessun finanziamento comunitario dovrà andare a enti israeliani ubicati nei Territori Occupati. Dopo mesi di tira e molla diplomatico Israele ha accettato le linee guida, riconoscendo per la prima volta la politica europea nei confronti degli insediamenti. Un avvicinamento? "Un atto obbligato", commenta il professor Newman, "rifiutare avrebbe significato un peggioramento dei rapporti con l'Unione" e rinunciare a Horizon 2020 significa non beneficiare di centinaia di milioni di euro nelle casse di istituti di ricerca e imprese high-tech israeliani. La proposta radicale di un’Europa che faccia da paciere dell'area mediorientale è indebolita anche da un'altra ragione: "Il partner occidentale di Israele sono gli americani. E Israele non permetterà mai all'Unione Europea di occupare il loro ruolo", sottolinea David Newman. Gli Stati Uniti d'Europa sono ottimi vicini di casa, ma gli amici sono altri Stati Uniti: quelli d'America.
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