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Significato di peace-keeping nel sistema delle Nazioni Unite.

3.1 Compiti ed organizzazione.

3.2 Significato di peace-keeping nel sistema delle Nazioni Unite.

In base a quanto enunciato nell’ art.1, par.1 della Carta di San Francisco, il presupposto fondamentale delle Nazioni Unite si fonda sul mantenimento della pace e la sicurezza internazionale e quindi impone di adottare tutte quelle misure atte a prevenire e contrastare minacce alla pace.

Il Consiglio di Sicurezza, che è l’organo deputato a verificare i presupposti per l’eventuale intervento armato con l’adozione delle misure di cui agli art 41 e 42 della Carta di cui sopra, ha creato nella maggior parte dei casi la prassi che siano gli Stati ad essere direttamente autorizzati all’uso della forza in determinate circostanze ed all’istituzione delle peace-keeping operations in altre 6.

Il peace-keeping nasce come soluzione delle Nazioni Unite al fine di dirimere conflitti mediante l’intervento di una forza di neutrale rispetto alle parti belligeranti con il compito di contenere e portare a termine le ostilità tra le parti e avviare successivamente il processo di pace.

Il dispiegamento di una forza delle Nazioni Unite, sul territorio teatro della crisi, avviene sempre con il consenso di tutte le parti in causa.

Le forze multinazionali che vengono interessate ad operazioni di questa tipologia, sono chiamate “caschi blu” e vengono messe a disposizione dagli Stati membri dell’ONU con carattere temporaneo.

Durante il periodo della Guerra fredda il processo di veto in materia d’intervento armato in aree afflitte da crisi, era sempre attuato da parte degli Stati permanenti ed in particolare Stati Uniti e URSS i quali osteggiavano le composizioni, il mantenimento e lo stanziamento dei contingenti militari, oppure impedivano di portare al termine accordi tra il Consiglio e gli Stati membri delle Nazioni Unite in merito al reclutamento delle forze armate ex art. 43 della Carta delle Nazioni Unite 7.

Le operazioni di peace-keeping cominciarono ad avere un notevole sviluppo a partire dagli anni ’90. Dal 19918 le forze messe a disposizione dagli Stati membri sono state poste sotto il comando delle Nazioni Unite rappresentato dal Segretario Generale che su delega del Consiglio di Sicurezza provvede alla pianificazione, preparazione e comando dell’operazione di peace-keeping.

6 Marchisio, L’ONU, il Diritto delle Nazioni Unite, Bologna, 2000, p.259

7 Il Segretario delle Nazioni Unite Boutros-Ghali decise nel 1992 di recuperare la piena facoltà d’azione nelle

situazioni di crisi come previsto nell’art 43 visto il venir meno della guerra fredda. Nel supplemento a An Agenda

for Peace del 1995, il Segretario generale riconosceva al Consiglio il poter decidere sulle misure implicanti l’uso

della forza di cui all’ex art. 42.

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Il comandante della Forza (vedesi la figura del Force Commander di UNIFIL), è nominato dal Segretario Generale fatta salva l’approvazione del Consiglio di sicurezza. Al comandante della forza viene conferita la responsabilità delle operazioni militari e da lui si articola tutta la catena di comando alla quale appartengono i comandanti dei contingenti inviati dagli Stati .

La catena di comando e tutto il personale appartenente alla forza sono obbligati all’osservanza delle istruzione del Force Commander.

Immagine 12 Force Commander di UNIFIL(fonte:www.un.multimedia.org/photo/detail.isp?=515/5155548)

Il modello di comando e controllo delle operazioni di peace-keeping, si articola su tre pilastri: il coordinamento politico e strategico affidato al Consiglio di Sicurezza; la direzione esecutiva al Segretario generale; il comando dell’area di operazioni (area interessata dalla crisi) attribuita dal Segretario generale al comandante della forza ( Force Commander).

La volontà a cooperare da parte degli Stati membri, nonché di quelli ospiti interessati all’intervento di peace-keeping, viene sancito attraverso degli Status of forces agreements (SOFAs)9, dei quali il Segretario generale su richiesta dell’Assemblea generale ha redatto il testo. In sintesi, il trattato prevede che le forze delle Nazioni Unite, una volta dispiegate nell’AoR ( area di responsabilità), ne devono rispettare le leggi ed i regolamenti sotto la responsabilità speciale del Segretario generale o del Comandante della forza; il governo del territorio deve riconoscere la natura internazionale dell’intervento di peace-keeping, riconoscendo l’uso della bandiera dell’ONU e dei simboli delle Nazioni Unite al fine del riconoscimento dei mezzi che muovono nell’area di responsabilità.

Per quanto concerne l’aspetto “benefit”(benefici), il personale appartenente alla forza multinazionale gode, come previsto nei SOFAs , dell’illimitata e libera importazione duty-free di equipaggiamenti, forniture ed ogni articolo necessari per l’esercizio esclusivo dell’operazione.

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A.Calvevaris, Recenti sviluppi nella prassi degli Status-of-forces Agreements per le operazioni di peace-keeping

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Nell’ambito delle operazioni di peace-keeping il ricorso alla forza armata si ha solo nelle ipotesi di legittima difesa, le cui condizioni sono state oggetto di particolare attenzione per definire il limite tra le peace-keeping operations e le operazioni militari vere e proprie.

Il diritto alla legittima difesa doveva essere, secondo uno studio elaborato dal Segretario generale dell’Onu nel 1958, proporzionale al mantenimento della capacità operativa della forza impiegata10.

Allo stato attuale, il ricorso alla legittima difesa viene riconosciuto e definito nelle missioni di pace nel momento in cui sono fissate dal Segretario generale le regole d’ingaggio ovvero le linee guida per la condotta delle operazioni.

In occasione della 54° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1999, la Commissione speciale per le operazioni di pace comunicava l’istituzione delle peace-keeping operations sotto le disposizioni del capitolo VI della Carta.

Nel 1992 il Segretario generale Boutros-Ghali definiva le peace-keeping operations una “invenzione delle Nazioni Unite”11. La presenza delle operazioni di pace nei processi di pace inquadrebbe l’istituzione delle stesse nel capitolo VI della Carta, in virtù del fatto che il Consiglio di Sicurezza ha spesso autorizzato le forze a prendere parte a comitati e commissioni aventi compiti di supervisione e monitoraggio dei processi di pacificazione senza poter essere configurato come uno strumento diplomatico per la possibilità dell’uso della legittima difesa. A tal proposito è bene evidenziare quanto sancito dall’art 34 della Carta considerato fondamento giuridico delle missioni di osservazione delle Nazioni Unite (vedesi la missione UNTSO per verificare il rispetto della tregua tra arabi ed israeliani), prevedendo per queste ultime l’impiego di personale militare disarmato e che si limitava ad effettuare attività di osservazione e rapportare le risultanze al Consiglio di Sicurezza, differendo dalle missioni di pace ( UNIFIL) per la mancanza dell’uso della forza.

Una lettura diversa dell’impiego tradizionale delle peace-keeping operations è inquadrabile nell’art 42 della Carta, che, in base ad un’azione di politica internazionale a cui la norma si riferisce, si prevede che l’intervento del Consiglio di Sicurezza non deve essere motivato da un‘azione di guerra contro lo Stato responsabile di una minaccia della pace, ma può agire come un’azione di politica internazionale ovvero violazione o un atto di aggressione.

Tuttavia, analizzando i casi nei quali il Consiglio é intervenuto con l’uso delle missioni di pace, si può affermare che non ha agito contro chi deteneva la sovranità territoriale bensì in suo supporto.

10 Summary Study of the Experience Derived from the Establishment and Operation of the Force, UN doc. A/3943,

1958, par.177 ss ; www.un.org

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In alcuni casi il Consiglio di Sicurezza è andato al di là dei principi legati al peace-keeping : ne sono un esempio le missioni UNPROFOR e UNOSOM, le quali (l’una creata per ristabilire le pace e la sicurezza nell’ ex Jugoslavia e l’altra atta a garantire la pace in Somalia), avevano come funzioni anche quelle di combattere contro le fazioni in lotta, controllare il traffico delle armi pesanti , sequestrare quelle non autorizzate e garantire la sicurezza dei porti ed aeroporti nonché la protezione del personale e delle postazioni ONU. Le problematiche relative alle responsabilità insite nelle attività di peace –keeping, emergono nel momento in cui vengano compiuti atti illeciti da parte dei militari appartenenti al Contingente di pace e di conseguenza diventa fondamentale stabilire se la responsabilità giuridica è da collegare all’ONU o al sistema giuridico dello stato di appartenenza dei militari 12.

A premessa del fatto che l’ONU ha sempre evidenziato la subordinazione dei contingenti di pace alla sua organizzazione, bisogna considerare che in alcuni casi come nell’attività di peace-keeping in Congo, il contingente militare impiegato in quell’occasione compì degli atti illeciti che coinvolsero la popolazione civile del paese. In quel caso l’ONU ritenne che la responsabilità fosse da addebitare interamente alle Nazioni Unite.

Nel variegato quadro del mondo delle peace-keeping operations, dove le varie problematiche fin qui esaminate sono la dimostrazione della mancanza di una normativa che regola e disciplina l’attività di pace , l’adozione di un’azione coercitiva da parte di una forza di pace per l’attuazione del suo mandato, inquadrerebbe quest’ultima negli artt. 42 e 43 della Carta e quindi la differenza tra operazioni di peace-keeping e peace-enforcement (imposizione della pace) verrebbe a decadere.

UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon) è stata oggetto di controversie nell’ambito delle Nazioni Unite, per una potenziale trasformazione del suo mandato in peace-enforcement. Dal 1978 questa missione ha subito dei repentini cambiamenti in funzione del suo mandato : la risoluzione n.1701(2006), adottata dal Consiglio in occasione tra Hezbollah ed Israele nel luglio 2006, ha esteso la zona di responsabilità della missione in un’area più vasta rispetto alla linea di confine israelo-libanese (Blue Line) .

Da questa risoluzione si rileva un rafforzamento della missione che però, nonostante l’assegnazione di nuovi compiti, rimane sempre una peace-keeping operation perché sussiste il consenso delle parti (Israele e Libano).

Tale analisi è ulteriormente avvalorata dal fatto che la trasformazione della missione viene meno per il fatto che il Consiglio sulla base della Risoluzione 1701 attribuisce esclusivamente

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al governo libanese il compito principale di monitorare le frontiere del Paese e di ogni altro accesso al fine limitare l’introduzione di manufatti bellici .

Peace-keeping, dal punto di vista politico, significa, come nel caso di UNIFIL, agire come anello di collegamento tra le forze militari libanesi e quelle israeliane prendendo legittimità da un mandato particolarmente forte per la composizione internazionale della sua forza.

Il suo status di neutralità, evidenziato dalla profonda partecipazione di paesi europei che realizzano buone relazioni sia con Israele che con il mondo arabo, le consente di creare un elemento di stabilità in un’area del mondo in cui la comunicazione tra le parti è molto limitata. UNIFIL, nel tempo, si è proposta inoltre come temporaneo sostituto dello Stato nel fornire sicurezza, legalità ed alcuni servizi ai cittadini. Fino al 2000, anno del ritiro israeliano dal territorio libanese, il Libano non era riuscito ad avere una presenza militare nazionale capace di proteggerla a sud e anche nel 2006 non è riuscita ad esercitare un controllo su quanto accadeva alla frontiera con Israele.

L’impegno profuso nelle missioni di pace, lodevole per i risultati ottenuti, deve essere sempre di più rafforzato sia pure nella difficile situazione economica che sta attraversando il nostro paese.

E’ fondamentale che l’impegno non solo italiano, ma europeo, contribuisca in modo importante alla gestione della crisi dei rifugiati e al mantenimento etnico-religioso della compagine libanese. In questo senso, di fronte ad un quadro demografico e politico in fase di cambiamento, è necessaria la continuità di sforzo per progetti di cooperazione civile, in particolar mettendo in campo il risultato di anni di collaborazione con il settore non governativo, quest’ultimo particolarmente adatto ad operare in un contesto comunitaristico come quello libanese.

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