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La rappresentazione della morte: un approfondimento

2. Cogniet e il ritratto post-mortem

2.1 La rappresentazione della morte: un approfondimento

Il genere del ritratto funebre appartiene all’arte occidentale sin dal Cinquecento e trova le sue origini nelle rappresentazioni mortuarie medievali, concernenti in primis i soggetti dei

Tre vivi e tre morti, di cui la prima notizia risale al 1350, e della Danza macabra, tema

apparso attorno al 14009. Veri e propri moniti circa la precarietà della vita e dei beni terreni,

9A.PIGLER, Portraying the dead, in «Acta Historiae artium», 4-1956, p. 2. Il saggio dimostra di apportare un

assai rilevante contributo alla materia del ritratto funebre, esplorandone le caratteristiche divise per aree di appartenenza. Ne segue dunque gli sviluppi in area italiana, tedesca, francese, fiamminga, inglese,

scandinava, est europea e iberica. Per i dati maggiormente rilevanti e le opere citate, se ne farà largo riferimento nel presente paragrafo.

102 spesso con un’importante componente ironica, tali iconografie intrecciano mortalità e vanità nella rappresentazione del transire10 umano, incarnando tuttavia topoi e situazioni

archetipiche nelle quali non si trova spazio per l’individualità. Questa si fa prepotentemente strada con il Rinascimento, epoca in cui si sposta l’attenzione sul singolo e sulla trasmissione dell’integrità della persona tanto in vita quanto in morte. Già dal Trecento la scultura funebre mostra tracce di maggiore attenzione al dato naturale, mentre dal Quattrocento si diffondono con maggiore portata le maschere mortuarie e i ritratti funebri trovano ulteriore e consolidata richiesta nel corso del Cinquecento. In territorio italiano, questi risultano particolarmente realistici in ambito fiorentino11 , tuttavia, appaiono comunque debitori

dalla Scuola nordica, influenzata dal ritratto mortuario francese e tedesco, enormemente più diffuso. È impossibile affermare con certezza quale paese veda per primo la nascita di un tale genere di ritratto, viste le grandi lacune che concernono il particolare tipo di produzione, tuttavia le più antiche opere conosciute appartengono alla Germania. In area tedesca si usa la convenzionale posa seduta e il Ritratto dell’Imperatore Massimiliano I (figura XXIV)12 porta unanime esempio impietoso nella totale assenza di edulcorazioni,

financo per un personaggio della sua levatura. Non si intende qui tanto sottolineare e ricordare nel tempo il carattere individuale del defunto, quanto ricondurre l’attenzione all’egualità degli uomini nella morte, con chiunque impietosa e tremenda nel sottrarre la dignità al corpo, reso nell’agonizzante trasfigurazione del dolore e nel macabro immobilismo del trapasso. Per quanto non si tratti di un ritratto post-mortem, è impossibile non citare il Cristo morto di Hans Holbein (figura XXV)13, il quale, data la caratterizzazione

fisiognomica e il realismo dei dettagli più macabri, è probabilmente realizzato a partire da uno studio dal vero. Per la prima volta, evidenza ancor più eccezionale se si pensa al soggetto ritratto, un artista raffigura senza alcun genere di attenuazione gli effetti della decomposizione sul corpo, con particolare attenzione verso la resa del lividore delle carni

10Si noti l’etimologia latina del termine: trans «oltre» e ire «andare.

11Si veda ad esempio il disegno di Domenico Ghirlandaio raffigurante un Vecchio sul letto di morte (ca. 1490,

Stockholm, National Museum; figura XXII), probabilmente realizzato quando il soggetto era ancora in vita. Degno di nota è anche il Ritratto di Orsina d’Grassi (ca. 1540, Budapest, Herzog’s Collection; figura XXIII), di scuola romagnola, nel quale la situazione si ribalta: la donna viene ritratta intenta nella lettura, tuttavia appaiono evidenti le tracce della morte nell’attitudine della mandibola e nelle palpebre atipicamente pesanti, per le quali siamo portati a pensare che il dipinto sia stato realizzato sulla base di un disegno del volto compiuto sul modello già defunto. Cfr. ivi, p. 4.

121519, Graz, Kunsthaus.

103 ferite e dell’alterazione dei tessuti, che ricordano ancora gli spasmi di dolore precedenti la morte. La predella ricorda ai fedeli il carattere democratico della morte, destino ineluttabile che l’uomo comune condivide con il figlio di Dio. Tuttavia, nell’orrore si racchiude una speranza: come Cristo potrà risorgere da un corpo sì martoriato, il devoto avrà possibilità di salvezza oltre le sofferenze della vita terrena.

Il ritratto post-mortem di destinazione privata ha un carattere estremamente realistico e tendente al repulsivo, in quanto non pensato per il piacere dell’esposizione pubblica ma per la conservazione nella riservatezza familiare. La rappresentazione funebre si diffonde pertanto in area protestante in particolar modo dal Cinquecento e per quanto concerne grandi casati, con l’uso di commissionare effigi dei giovani principi deceduti, da conservare assieme ai dipinti realizzati in vita14 . Tuttavia, un tale genere di commissione non è ad

esclusivo appannaggio delle classi nobili, in quanto ne troviamo esempio anche per quanto riguarda il basso clero e la borghesia. I ritratti, per quanto presenti anche in ambito cattolico sebbene molto più rari, posseggono, per quanto riguarda i religiosi protestanti, minori riferimenti allegorici, nonché ornamenti e iscrizioni; si pensi all’immediato disegno ritraente Martin Lutero (figura XXVI)15 , conservato a Berlino, o all’incisione di Andreas Khol

raffigurante Johann Heinrich Blendinger (figura XXVII). Per quanto riguarda la bassa borghesia, si tratta il più delle volte di opere di scarsa qualità, dal valore etnografico preminente su quello artistico16.

A prescindere dalla destinazione, ritratti funebri di area tedesca seguono un filo conduttore comune sino agli anni Ottanta del Cinquecento, periodo in cui si inizia a raffigurare i soggetti non più a mezzo busto e sul letto di morte, bensì a figura intera e all’interno della bara. È naturale come dal Seicento si perda dunque in carattere intimistico, sostituendo la dimensione privata alla celebrazione pubblica, con particolare attenzione nei confronti dello sfarzo degli apparati esterni e dell’eleganza degli abiti, tramite i quali si ostenta l’appartenenza alla classe sociale prestigiosa. A questo proposito risulta evidente il contrasto tra il sopracitato Ritratto dell’Imperatore Massimiliano e il Ritratto

dell’Imperatore Rudolf II (figura XVIII), che compare in un’incisione del 1619. Ulteriore

14Ivi, p. 13.

15Lucas Furtenagel, ca 1546, Berlin Kupferstichkabinett.

16Si veda ad esempio il Ritratto di Maria Sophia Tettenbacher, ca. 1682, Hellbrunn, Volkskunde-Museum. Cfr.

104 valore che esula da quello prettamente familiare è dato dall’aspetto politico, in accordo al quale i ritratti funebri vengono spesso riprodotti e diffusi tramite incisioni con valore commemorativo per la corte e propagandistico per la popolazione, all’interno della quale le casate nobili si assicurano costante supporto17 . Il Settecento è invece ampiamente

rappresentato dalla collezione dell’Imperatrice Maria Teresa di Vienna, in quanto alla sua corte vi era l’uso di commissionare ritratti di tutti i defunti appartenuti alla dinastia. In questo contesto si colloca l’immagine dell’Imperatore Francesco I, disteso nel catafalco e circondato da una suggestiva e fitta foresta di candele, accompagnato dalla propria guardia e da frati cappuccini in preghiera. L’Imperatrice possedeva un cosiddetto schwarzes

kabinett, una piccola cappella sita probabilmente nella residenza di Hofburg o di

Schönbrunn, in cui i ritratti funerari erano appesi alle pareti e drappeggiati in nero18.

In ambito francese i casi di ritrattistica funebre sono più rari e per lo più legati alle cerimonie di sepoltura delle più elevate classi sociali. Difatti, sin dal Medioevo l’artista reale ha il compito di realizzare effigi in cera del volto e delle mani del sovrano, da utilizzare nell’assemblamento di una figura provvisoria e agghindata alla maniera del regnante che sarebbe poi stata portata in celebrazione per giorni durante il funerale ed esibita nella

chambre mortuaire19. A testimonianza di una tale ritualità, la xilografia a colori conservata

alla Bibliothèque Nationale e raffigurante le Effigi funerarie dei due duchi di Guise (figura XXIX)20 illustra due ritratti riprodotti sulla base delle maschere mortuarie, come si evince

dal dettaglio degli occhi aperti. Personificanti il defunto, il cui corpo viene intanto dato a sepoltura, danno impressione di vita e come tali vengono venerate.

Fondamentale risulta inoltre essere lo scambio tra pittura e scultura funeraria, da quest’ultima spesso assai dipendente, in particolare per le rappresentazioni dei defunti all’interno della bara, con ovvi rimandi alla sepoltura. Esempio calzante risulta essere un piccolo dipinto con valore di memento mori (figura XXX), rappresentante il corpo nudo di un giovane21, grazie al quale lo stesso Pigler imbastisce nel suo saggio un confronto con le

17Ivi, p. 21.

18Ivi, pp. 22-23. Molti di questi dipinti sono attribuiti alla pittrice viennese Gabriel Byer.

19L’usanza si mantiene sino al XVII secolo; l’ultima testimonianza è costituita dal funerale di Luigi XIII. Cfr. ivi,

p. 27.

20Ca. 1589, Paris, Bibliothèque Nationale. 21Ca.1551, Paris, Musée du Louvre.

105 sculture tombali dei Valois, nelle quali re e regina giacciono nudi nelle loro sepolture22. La

stragrande maggioranza dei casi riguardante questo genere di ritratti in Francia è inerente al ceto clericale, tuttavia spesso non sono realizzati al momento della morte del soggetto, bensì molto tempo dopo. Non è certamente questo il caso del Ritratto di Antoine de Hénin, vescovo di Ypres, attribuito a Jean Bellegambe il Giovane (figura XXXI)23. Il defunto, i cui

tratti fisiognomici risultano essere estremamente realistici, è ritratto sul letto di morte, col capo posato su un cuscino. L’impostazione tradizionale del dipinto funebre prevede, per quest’epoca, l’inquadratura della figura a mezzo busto, la posizione diagonale rispetto alla tela e la presenza della coperta a coprire le spalle e braccia, dettagli presenti difatti anche nel Ritratto del Cardinale Richelieu (figura XXXII)24.

Il Settecento francese instaura dei rimandi con gli equivalenti tedeschi per l’aria fantasmatica attribuita ai soggetti ritratti, fronteggianti lo spettatore e colti a mezzo busto. Un esempio calzante è costituito dalla maschera mortuaria di Marat, nel disegno di Jacques- Louis David (figura XXXIII)25 . Il grande artista neoclassico ignora l’ormai affermata

disposizione diagonale per recuperare la verticalità della posa cinquecentesca, mentre lo sguardo vuoto e la bocca semiaperta nella testa reclinata, rendono con estremo realismo il rigido abbandono della morte26.

Si rende naturalmente necessario riportare brevemente ulteriori notizie in merito al ritratto funebre fiammingo, diffuso sia in ambito protestante che cattolico, qualità che ne denota la larga divulgazione27. Pigler cita un interessante ritratto funebre, risalente alla metà del

Seicento e oggi perduto, realizzato da Abraham Vinck e che sarebbe appartenuto a Rembrandt, segno che tale genere di dipinti viene considerato degno di essere collezionato ben prima dell’Ottocento28 . In tale contesto particolarmente favorevole, si diffondono

ulteriori variazioni iconografiche del tema del ritratto funebre, che ne vedono dunque il declinarsi, soprattutto in ambiente borghese, nell’accostamento del defunto a un parente vivo o nella raffigurazione delle giovani morte in vesti matrimoniali, a testimoniare la loro

22Ivi, p. 28.

23Douai, Musée de la Chartreuse. 241642, ca., Paris, Académie Française.

25Studio dal naturale della testa di Marat assassinato, 1793, Versailles, Musée National du Château. 26Ivi, p. 32.

27Ivi, p. 39. 28Ivi, p. 40.

106 unione con Cristo. Le pose sono per lo più quelle tradizionali, che vedono il cadavere in posa obliqua, con la testa poggiata sul cuscino e le braccia coperte; tuttavia, estremamente rilevanti per la nostra trattazione risultano essere i ritratti di area tedesca e fiamminga raffiguranti artisti defunti, probabilmente diffusi dalla metà del Cinquecento. Si iniziano a testimoniare, pertanto, allievi che ritraggono i maestri e artisti omaggianti colleghi sul letto di morte, si veda ad esempio il Ritratto di Karel van Mander, realizzato da Jacob de Gheyn (figura XXXIV)29.

Nel corso degli ultimi decenni del Settecento e dei primi anni dell’Ottocento la moda diffusa con la rappresentazione celebrativa dei grandi artisti del passato si intreccia al ritratto funebre, conferendogli i connotati tipici della scena di genere. Il saggio di Francis Haskell in merito alla raffigurazione dei grandi maestri dell’arte, in auge nel corso del 1800, ne ritrova l’origine in alcuni ritratti eseguiti già nel Cinque-Seicento, in particolare da parte di familiari o discepoli e relativi al ricordo commemorativo della carriera dell’artista in questione30 .

Tuttavia, la nascita di un vero e proprio nuovo soggetto si ha nell’ultimo quarto del Settecento, con la diffusione di dipinti aneddotici evocativi della vita, il più delle volte quotidiana, degli antichi maestri. Tra XVIII e XIX secolo, si hanno così vere e proprie narrazioni in pittura di episodi della vita di Leonardo da Vinci, Giorgione, Michelangelo, Correggio, Tiziano e, naturalmente, Tintoretto, anche se il personaggio maggiormente celebrato risulta essere Raffaello. Numerosissimi sono, difatti, stampe e dipinti dedicati a vita e morte del grande maestro, tendenza certamente imputabile alla pubblicazione del 1824 della sua biografia, redatta dal suo maggiore studioso e sostenitore del tempo, Quatremère de Quincy31. Si ricorda prima tra tutte la celebre tela di Ingres, Raffello e la

Fornarina (figura XXXV)32, magistrale nel gioco di sguardi dei personaggi, l’una che guarda

fuori campo, quasi a cercare lo spettatore come nel ritratto originale, l’altro perso nel proprio stesso dipinto, verso il quale si volta nonostante tenga tra le braccia l’amata in carne e ossa. Menzione necessaria va anche al Raffaello in Vaticano (figura VIII)33 presentato da

291606, Frankfurt-on-Main, Städelsches Kunstitut. Cfr. Ivi, pp. 37-38.

30L’autore cita i disegni di Federico Zuccaro inerenti alla vita del fratello Taddeo e la serie di opere eseguite

da Michelangelo Buonarroti il Giovane, riguardo la vita del suo illustre avo. CfrF.HASKELL, The old masters in

nineteenth-century french paintings, in «The Art Quarterly», XXXIV, 1, 1971, n.12, pp. 55-56. 31Si tratta di Q. DE QUINCY, Historie de la Vie et des Ouvrages de Raphael, Paris, 1824. 321814, Harvard, Fogg Art Museum.

107 Horace Vernet al Salon del 1833 e dileggiato dalla critica contemporanea34; il dipinto ritrae

un aneddoto tratto dalla biografia di Quincy, il quale narra di un aspro scambio di battute tra Michelangelo e Raffaello durante un rancoroso passaggio di testimone tra le mura pontificie. I grandi artisti del passato vengono dunque riportati all’attenzione del pubblico in scene di genere inerenti alla realizzazione dei loro maggiori capolavori, nonché in episodi di vita quotidiana riguardanti la loro giovinezza e vecchiaia. Questo è possibile grazie alle

histoires, il più delle volte romanzate, che si diffondono nel corso del XIX secolo, in cui

approfondimento storico, dato biografico e aneddoto si intrecciano. Si ricordano pertanto ad esempio, oltre al testo di Quincy, nel 1817 la Historie de la peinture en Italie di Stendhal, l’opera dedicata ai Modern Painters, pubblicata da Ruskin nel 1860, e la serie di articoli redatti su celebri periodici quali L’Artiste e Le Magasin Pittoresque e spesso contenenti brevi e incisive notizie sui maestri antichi, utilizzabili come fonte immediata e accessibile. Il pittore, rievocando episodi sentimentali della giovinezza e la scoperta del genio di un grande artista35 legittima al contempo se stesso e il proprio talento, affiliandosi al quel

pantheon di grandi menti dei cui ritratti si rende degno. Tuttavia, il genere maggiormente celebrativo concerne la vecchiaia dell’artista e in questo senso il personaggio più esemplificativo risulta essere Michelangelo, il quale, nonostante l’animo turbolento, si diffonde nell’Ottocento dei Romantici con l’iconografia del vecchio artista ingentilito dagli anni. Lo stesso Delacroix lo ritrae in un dipinto esposto al Salon del 1831, intento nella riflessione solitaria del suo studio, sottolineandone la forte componente meditativa e la spossatezza di un artista in eterna lotta con la propria energia creativa (figura XXXVI)36 .

Robert-Fleury, invece, ci aiuta a introdurre il tema funebre, immaginando un commosso Michelangelo vegliare sul fedele domestico morente nel 1841 (figura XXXVII)37 mentre,

debitore della stessa iconografia del Tintoretto di Léon Cogniet, Jacovacci lo ritrarrà nel 1881 nel dare l’ultimo bacio a Vittoria Colonna (figura XXXVIII)38.

34«M. Vernet, comme nous l'avons déjà dit, n'a compris ni son sujet, ni ses personnages; faire de Raphaël un homme blond et languissant nous semble manquer de tact au plus haut point» cfr G.LAVIRON, B. Galbacio, Le

Salon de 1833, Ledoux, Paris 1833, p. 222.

35Si veda ad esempio LOUIS RUBIO, Van Dyck condotto via da Rubens, San Pietroburgo, Ermitage.

36Si tratta di Michelangelo nel suo atelier, Montpellier, Musée Fabre. Cfr. HASKELL, The old masters, cit., p. 66. 37J.N.ROBERT-FLEURY, Michelangelo al capezzale del suo domestico, Litografia contenuta nell’Album du Salon,

1841.

108 Sin dalla fine del Settecento, quando sul letto di morte vi è invece l’artista, questo viene ritratto omaggiato con tutti gli onori, sull’esempio della Morte di Germanico di Poussin (figura XXXIX)39. Si avvicendano pertanto scene in realtà ben poco intimiste, nelle quali una

nutrita folla si accalca al capezzale del morente: Leonardo da Vinci che muore tra le braccia

di Francesco I e Gli onori resi a Raffaello sul letto di morte, rispettivamente realizzati da

Ménageot e Bergeret (figure XL, XLI)40, ma anche le litografie, ancora su Raffaello, di Nicolas

André Monsiau (figura XLII)41. Non vi è traccia, tuttavia, di alcuna implicazione tragica o

funebre; le scene sono estremamente teatrali e lo sfarzo celebrativo degli ossequi al grande personaggio, portati da Imperatori, Papi e Regine, consente ai nuovi pittori di omaggiare quello che è lo statuto dell’artista nella società. L’interesse per la letteratura artistica porta invece, dai primi decenni dell’Ottocento, alla rappresentazione della morte degli artisti in chiave aneddotica e non priva di alone leggendario. Taunay nel 1808 immagina così la morte del Francia (figura XLIII)42, il cui cuore non regge alla vista della Santa Cecilia di Raffello,

mentre Couder ritrae nel 1817 Masaccio (figura XLIV)43 , morto per avvelenamento e

incapace di concludere gli affreschi in San Clemente che poi saranno attribuiti a Masolino44,

39 Per mezzo di una più consapevole retrospezione storica, dovuta a un nuovo padroneggiamento degli

strumenti di indagine, si rievocano epoche passate e personaggi illustri, tramite una messa in scena suggestiva ed eloquente, arricchita da una grande profusione di dettagli. Per l’argomento si faccia

riferimento a R.ROSENBLUM, Trasformazioni nell’arte: iconografia e stile tra neoclassicismo e romanticismo, Carocci, Roma 2002.

40F.G.MÉNAGEOT, Leonardo da Vinci che muore tra le braccia di Francesco I, Amboise, Musée de l’Hôtel de

Ville;P.N.BERGERET, Gli onori resi a Raffaello sul letto di morte, Château de Malmaison.

41N.A.MONSIAU, La morte di Raffaello, incisione contenuta in C. P.LANDON, Annales du Musée, a. XIV. 42N.A.TAUNAY, La morte di Francesco Francia alla vista della Santa Cecilia di Raffaello, 1808, San Paolo,

Brasile, coll. Priv. Scrive in merito all’episodio Vasari: «Era la tavola di Raffaello divina, e non dipinta ma viva, e talmente ben fatta e colorita da lui, che fra le belle che egli dipinse mentre visse, ancora che tutte siano miracolose, ben poteva chiamarsi rara. Laonde il Francia mezzo morto per il terrore e per la bellezza della pittura che era presente agl’occhi, et a paragone di quelle che intorno di sua mano si vedevano, tutto smarrito la fece con diligenzia porre in S. Giovanni in Monte, a quella cappella dove doveva stare, et entratosene fra pochi dì nel letto, tutto fuori di se stesso, parendoli esser rimasto quasi nulla nell’arte appetto a quello che egli credeva e che egli era tenuto, di dolore e malinconia, come alcuni credono, si morì essendoli advenuto, nel troppo fisamente contemplare la vivissima pittura di Raffaello». Cfr. G.VASARI, Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Einaudi, Torino

2015, p. 522.

43L.C.A.COUDER, La morte di Masaccio, 1817, San Pietroburgo, Hermitage.

44Scrive Vasari: «Ma, o fusse l’invidia o fusse pure che le cose buone comunemente non durano molto, e’ si

morì nel bel del fiorire, et andossene sì di subito, che e’ non mancò chi dubitasse in lui di veleno, assai più che d’altro accidente». Cfr. Ivi, p. 272.

109 seguito da Tassaert che riproduce il momento del trapasso di Correggio (figura XLV)45 ,

divenuto nel corso del secolo sinonimo dell’artista morto in disgrazia46.

Nel contesto di un Ottocento incentrato sulle umane passioni, le testimonianze dei cronisti contemporanei e un rinnovato interesse per la dimensione privata degli artisti contribuiscono ad alimentare l’aura mitica che illumina personaggi già celebri, rendendoli protagonisti anche di iconografie del tutto nuove. È il caso del Tintoretto che dipinge la figlia

morta (figura 98), con il quale Léon Cogniet inaugurerà una tendenza condivisa tanto in

pittura quanto in letteratura. Attorno alla metà del secolo, tuttavia, si fa strada un interesse scientifico nei confronti del cadavere, che esula, superandola, dall’idealizzazione celebrativa della morte di derivazione classica. Già nel corso del Seicento dalla Scuola