• Non ci sono risultati.

La società multinazionale a vocazione europea

Nel documento Cronache Economiche. N.011-012, Anno 1974 (pagine 63-69)

Paolo Guancialini

1. Verso la codificazione di una disciplina europea.

L'interesse sempre crescente per l'evoluzione delle « Imprese Multinazionali » rappresenta il punto di partenza per l'avvicinamento ad un loro studio sistematico ed in specie di quelle che van-no sotto l'etichetta di « Società multinazionali a vocazione europea ».

Infatti all'intensificarsi delle stipulazioni di contratti, di diritto pubblico o privato, fra imprese di diverse nazionalità dovrebbe corrispondere un maggiore approfondimento fra i cultori e gli stu-diosi di tale realtà politica, economica e giuridica.

Nel corso degli ultimi venti anni la stipula-zione di accordi per « concentrastipula-zione » o « fusio-ne » fra imprese di diversa nazionalità è andata incontro ad una serie di innovazioni, sia sul piano istituzionale che sul piano gestionale, mirante ad una integrazione delle politiche di sviluppo di tali imprese.

L'analisi di questa integrazione può portare alla formulazione di proposizioni teoretiche ri-guardo alla struttura che verrà definita come « im-presa multinazionale a vocazione europea » con-siderata, in prima approssimazione, quale luogo d'incontro di tutte le interazioni tra i fatti politi-camente ed economipoliti-camente rilevanti, compren-dendo cosi non solamente i protagonisti tradi-zionali in prima persona, le imprese, ma anche organizzazioni quali gli stati nazionali e orga-nismi sovranazionali.

Sul piano dei contenuti questa ricerca com-porta la necessità di esaminare determinati rap-porti tra imprese ed imprese e tra imprese ed isti-tuzioni sovranazionali quali le Comunità Econo-miche Europee (CEE).

Queste esigenze sono motivate dal mutamento dinamico imposto alle imprese derivante dalla crescente ricerca remunerativa del capitale

impie-gato nel processo produttivo e di sbocchi sul mer-cato internazionale delle merci prodotte.

Tali necessità hanno impresso, nella pratica, alle relazioni tra imprese di nazionalità diverse caratteristiche non paragonabili a quelle che identificavano il mondo industriale « primo no-vecento ».

Per richiamare solo l'effetto più significativo dell'era delle imprese multinazionali è bene ricor-dare le modificazioni che il concetto di impresa ha subito nel tempo per cui si tende, oggigiorno, a sostituire il concetto di « impresa nazionale con interessi all'estero » a categorie di imprese plu-rinazionali quali le « multinazionali », le « inter-nazionali » o le « transinter-nazionali »; di imprese comunque operanti, simultaneamente, in più or-dinamenti statuali.

Nel nostro caso specifico, la struttura econo-mica ed i compiti delle imprese operanti in più ordinamenti statuali vengono analizzati in una prospettiva di realizzazione della integrazione economica europea.

Le società multinazionali a vocazione europea trovano il loro significato nella vastità che le con-seguenze degli avvenimenti e accordi sovranazio-nali sono in grado di avere, in parte, sulla mag-gioranza delle singole economie nazionali.

Attraverso contatti internazionali una deci-sione economica per fondere, integrare o concen-trare due o più imprese di diversa nazionalità è in grado di influire sia sulla nostra vita quoti-diana che sulla analisi economica ed istituzionale che su tali imprese si compie.

Dove un tempo gli attori della scena interna-zionale erano relativamente pochi, oggigiorno per la sua stessa sopravvivenza l'impresa deve neces-sariamente cercare uno sbocco alternativo dei pro-pri prodotti, al di là di quelli che si sogliono con-siderare correntemente i limiti di confine nazionali di ogni singolo stato.

La estensione di questa ricerca ad uno sbocco alternativo dei propri manufatti, attraverso la sottile e capillare rete di alleanza, accordi o pres-sioni, fa si che si sia reso necessario il supera-mento di schemi ordinari nazionali, non in grado di tenere conto della realtà.

Non è un caso che uno dei fatti internazionali più rilevanti, l'accordo per concentrazione, che è sempre stato al centro della vita di relazioni fra imprese di diversa nazionalità, sia andato incon-tro a modificazioni clamorose.

Se già la prima guerra mondiale può essere considerata la pietra miliare e l'avvio delle grandi concentrazioni internazionali, al passo quindi con il suo secolo, il periodo che va dalla prima alla se-conda guerra mondiale lascia in eredità le con-seguenze delle manipolazioni economiche e finan-ziarie di queste grosse concentrazioni di imprese internazionali.

Il risultato di queste conseguenze, come ri-schio e come minaccia, non poteva non rappre-sentare un'altra causa di alterazione delle condi-zioni istituzionali ed economiche precedenti.

Il consolidamento di tali fatti ha indotto gli Stati Europei a riunirsi per formare una « Comu-nità per l'Europa ».

Le tre Comunità Europee sono sorte con l'in-tento di riunire e saldare in una unica entità economica le economie dei nove paesi più indu-strializzati.

Dopo gli Stati Uniti d'America e l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l'attuale Co-munità Economica Europea è la terza potenza industriale del mondo.

Essa viene al secondo posto dopo gli Stati Uniti d'America per la produzione di automobili, è al terzo posto per la produzione di acciaio ed è uno dei maggiori produttori agricoli mondiali: il secondo per il latte e la carne.

La Comunità Economica Europea segue una politica comune nella maggior parte dei casi ri-guardante le proprie relazioni commerciali con il resto del mondo.

A partire dal 1973 tutti gli accordi commer-ciali con i paesi non membri della Comunità deb-bono essere negoziati dalla Commissione (organo amministrativo) previa autorizzazione del Consi-glio (organo politico).

La Comunità Economica Europea deve prov-vedere ad integrare l'industria e assicurare una migliore distribuzione territoriale degli investi-menti.

Da tutto quanto sino ad ora esposto deriva che uno studio epistemologico sui contenuti intrinse-ci delle « imprese multinazionali a vocazione europea » non soltanto acquista in interesse ed in attualità, ma può svilupparsi anche a livello scientifico ed accademico caratterizzandosi con nuovi metodi e nuovi contenuti.

2. Che cosa sono le imprese multinazionali a vocazione europea.

Nella generalità dei casi il requisito di una definizione è quello di essere tanto ampio da fare posto a tutti quei caratteri pertinenti all'oggetto della definizione stessa e tanto ristretto da non ospitare elementi eterogenei.

Tale compito, nei confronti di una definizione delle imprese multinazionali a vocazione europea appare estremamente problematico.

Mentre una questione di etichetta può lasciarci indifferenti, una definizione intesa come stru-mento base di orientastru-mento può rappresentare uno dei momenti decisivi per una corretta impo-stazione della ricerca: cioè non si tratta di distin-guere o cumulare termini come « Società », « Im-prese », o « Industrie Multinazionali », i quali non sono altro che abbreviazioni di ciò che vo-gliono intendere, ma di indicare piuttosto dei principi di identificazione, di delimitazione e di analisi, capaci di guidarci ad una impostazione scientificamente e criticamente corretta dal punto di vista istituzionale ed economico.

Secondo quanto argomenta John Diebold in uno dei suoi scritti ('), la tendenza alla multina-zionalizzazione delle imprese porterà agli inizi degli anni '80 ad un controllo di un quarto o forse più della produzione lorda dell'occidente ed in specie dell'Europa.

Questa riflessione ci introduce nel nucleo cen-trale del problema che ad un livello di estrema semplificazione viene scisso in due parti distinte:

in primo luogo si stabilisce con quale valu-tazione di merito è possibile esprimere, sulla base della esperienza passata, delle più attendibili evoluzioni future del fenomeno « multinazio-nale » come elemento caratterizzante dell'econo-mia europea;

in secondo luogo risulta da accertare quale può o deve essere la migliore strategia di

adatta-ti) V. « Mondo Economico », 9 Dicembre 1972, n. 49, p. 13 e seg.

mento alle nuove situazioni oggettive createsi in seno ai principali attori della vicenda quali:

a) le società multinazionali,

b) i governi delle regioni più

industria-lizzate,

c) i responsabili delle altre regioni euro-pee dove le società multinazionali dirigono sem-pre più i loro nuovi insediamenti.

A tale proposito due managers di importanti società multinazionali (IBM e General Electric) in una intervista pubblicata di recente nell'Har-vard Business Review affermano che in una re-gione non tutti i poli di crescita sono sottoposti al potere di decisione della comunità o dello stato nazionale: le industrie ubicate dagli Stati Uniti nel Canada, ad esempio, non dipendono né dai canadesi né dallo stato canadese.

Con le loro dimensioni, la natura delle attività ed il potere di negoziazione, queste unità private sono stati negli stati, esercitano influenze più po-tenti di quelle di un gran numero di piccole na-zioni che siedono all'ONU.

Fra le considerazioni a sostegno delle imprese multinazionali è importante l'argomentazione del Johnson (2).

Sostiene questo studioso che gli investimenti stranieri si tramutano in vantaggi per il paese o regione ospitante in quanto risulterebbero supe-rate le contraddizioni fra gli interessi dell'impresa internazionale e gli interessi nazionali o regionali. Per quanto riguarda l'azione di queste imprese in regime comunitario, la stessa deve essere vista come fonte di importanti benefici, per la CEE, nel suo complesso:

sia sul piano del riavvicinamento delle legi-slazioni dei paesi membri,

sia sul piano politico in un futuro più prossimo.

L'affermarsi di società multinazionali a voca-zione europea si oppone agli atteggiamenti na-zionalistici dei singoli stati sovrani, in quanto favorisce l'affermazione di una coscienza euro-pea ed il riconoscimento di interessi comuni attra-verso la strada della interdipendenza politica ed economica degli stati aderenti alle tre comunità. Fra le poche considerazioni a sfavore è dove-roso notare il processo inflazionistico che tali en-tità provocano all'interno ed all'esterno delle na-zioni che recepiscono i loro investimenti.

Questo pericolo, paventato in specie dalle re-gioni industrialmente meno progredite, genera quella suscettibilità che rappresenta uno dei mag-giori ostacoli allo sviluppo delle società multina-zionali.

Di fronte, però, al timore in campo economico di una dominazione straniera, vi è il bisogno (spe-cie per questi paesi) di investimenti provenienti da economie più avanzate (3).

Nonostante le contraddizioni emergenti dal comportamento delle multinazionali, da questa analisi si può trarre una prima conclusione:

le regioni europee avanzate, caratterizzate da una disponibilità di capacità scientifica e di progettazione comparativamente più a buon mer-cato, possono sviluppare una maggior forza com-petitiva per i prodotti nuovi con un'alta propor-zione tecnica e scientifica;

le regioni europee più arretrate possono ap-plicare la loro ampia disponibilità di lavoro non specializzato nella produzione di beni maturi (4). Per la politica industriale nella comunità, la Commissione della CEE ha proposto misure adat-te a modernizzare le industrie ubicaadat-te negli stati membri in modo da porle in condizioni di compe-titività con società americane e giapponesi e sod-disfare i bisogni di un mercato unico di 190 mi-lioni, e potenzialmente dopo l'allargamento di 250 milioni, di consumatori.

La Commissione ha recentemente presentato il suo memorandum sulla politica industriale della Comunità, contenente i cinque orientamenti fon-damentali:

1) perfezionamento del mercato interno: come il naturale mezzo al fine di completare quel processo di concentrazione industriale già attuato da parecchio tempo e non ancora ultimato;

2) l'apertura dei mercati pubblici e l'aboli-zione delle frontiere fiscali all'interno della comu-nità: la diversità delle norme in vigore in ogni stato rende più difficile il movimento dei fattori (2) V. « I.DC Investment: the Road is Paved witli Prefc-rences », Columbia journal of World Business, n. 3, gennaio-febbraio 1968.

(3) V. Le Développement Social, Symposium dirigi par Rai-mond Aron, Paris, Monton & CO, 1965, p. 113 e seg.

C) 11 ciclo tradizionale del prodotto si sviluppa secondo tre stadi: novità, in cui il prodotto ò fabbricato solo nel paese inno-vatore; maturità, in cui prende l'avvio l'esportazione; standardiz-zazione, in cui inizia la produzione all'estero. Questo concetto di Hirsch J: riportato in S. SCIASELI.!, L'Impresa Multinazionale, Na-poli, Giannini, 1973, p. 135 c seg.

di produzione e finisce per ostacolare anche il controllo dei complessi multinazionali;

3) l'unificazione del quadro giuridico, fisca-le e finanziario: può permettere all'industria di ricavare tutti quei vantaggi che essa ha il diritto di attendersi dall'esistenza stessa della comunità, quali l'abolizione della doppia imposizione fiscale in tema di distribuzione dei dividendi;

4) la ristrutturazione delle società mercantili europee: dà alle società concentrate la possibi-lità di affrontare la concorrenza delle imprese multinazionali extra europee ad armi pari.

Il processo di concentrazione di società ubi-cate od aventi la propria sede legale nel territorio di un paese membro delle tre comunità compor-terebbe, come conseguenza dell'adattamento delle strutture industriali, un insieme di misure interes-santi la politica sociale, regionale e la diffusione delle conoscenze tecnologiche;

5) la solidarietà comunitaria nelle relazioni economiche con i paesi terzi: al fine di realizzare un argine di difesa o di offesa, a secondo delle esigenze della produzione, nei confronti delle im-prese giganti americane e giapponesi.

È nota la polemica sull'invasione del Mercato Comune da parte delle società americane.

Pur tuttavia essa trova una facile interpreta-zione in termini di mercato: negli ultimi decenni, mentre la domanda statunitense aveva iniziato a rilevare sintomi di saturazione, si era progettato la convenienza di un allargamento dei mercati europei.

La creazione del Mercato Comune ha portato alla formazione di un mercato assai vicino, per dimensioni e per struttura, a quello americano.

Di conseguenza tale mercato ha aumentato l'in-teresse di una presenza americana tramite inve-stimenti « diretti » o « indiretti ».

3 . I p r o c e d i m e n t i di c o n c e n t r a z i o n e n e l M e r c a t o C o m u n e .

Lo sviluppo delle imprese multinazionali a vocazione europea può presupporre, nella sfera dell'universo economico, una serie di investimenti nelle regioni europee meno progredite con l'inten-to di creare una struttura organica di produzione e una rete di vendita.

Il Kolde, in un suo studio, sottolinea tale con-cetto e fa emergere il carattere della prospettiva globale di una gestione a livello europeo (5).

Solo con la ubicazione di unità produttive e di distribuzione dei prodotti nelle regioni europee più idonee sembra possibile concepire una ge-stione multinazionale europea tesa a massimizzare le opportunità internazionali di profitto.

Per la individuazione di un investimento diret-to, nella generalità dei casi e come fattore base, viene preso come punto di riferimento il risultato tramite il quale si porta una società dominante, o società madre, ad avere il controllo di attività mercantili o finanziarie svolte in altre regioni del-la comunità.

L'ipotesi che più sovente si analizza è quella di uno svolgimento di attività similari nei vari mercati non nazionali.

Non è possibile escludere il caso di uno svilup-po multinazionale per linee verticali, inteso ad assicurare il controllo delle fonti delle materie prime o di stadi di produzione e di distribuzione. Pertanto si può osservare che una distinzione sostanziale tra « investimento diretto » e quello che viene comunemente detto « di portafoglio » risiede nel fatto che nel primo caso una società, generalmente finanziaria, ha intenzione di parte-cipare direttamente in prima persona o tramite le partecipazioni ad incrocio a quelle attività cui ha rivolto la propria attenzione; nel secondo caso una società finanziaria, bancaria o di produzione, ope-ra in veste di finanziatore esterno il cui scopo fi-nale è quello della ricerca più remunerativa nel-l'immobilizzo dei capitali in aziende o imprese non nazionali.

Sotto questo profilo il concetto di controllo appare sinonimo di integrazione.

L'obiettivo della integrazione verticale è stato all'origine delle prime multinazionalizzazioni di alcuni grandi complessi industriali europei (6).

L'investimento diretto nella comunità europea risulta definitivo da due elementi di fondo:

a) la libertà di circolazione dei capitali, b) la libertà di acquisizione dei controlli

sull'azienda o impresa recipiente.

Nella ipotesi, ad esempio, di una « joint-ven-ture », con partecipazione di minoranza dell'in-vestitore estero, il controllo di una o più attività, come rilevano Friedman e Kaimanoff, può essere (5) v . International Business Enterprises, ed. Prentice-Hall, Ine./Englewood, 1969. New Jersey, p. 218 e seg., p. 22S e seg.

(6) V. KINDLEBERGER, Economia Internazionale, Milano. Etas Kompas, 1969, p. 584.

fatto esercitare da quest'ultimo sotto forma di assistenza tecnica o altro tipo di accordo contrat-tuale, oppure tramite il rifornimento di materiali vari alla società o all'impresa straniera (7).

Sweezy afferma (s) che le società investitrici, anche detenendo una partecipazione minoritaria, hanno interesse nel controllo oligopolistico delle fonti estere di rifornimento e dei mercati non na-zionali, in modo da essere in grado di comperare e di vendere a condizioni particolarmente favore-voli, di passare ordinazioni da una società affiliata ad un'altra, realizzando di fatto quel processo di integrazione all'interno del Mercato Comune previsto, formalmente, dagli artt. 46 e 220 del Trattato di Roma istitutivo delle tre comunità.

4. Alcune riflessioni sul Japan Foreign Council Incorporateti.

Nell'area comunitaria un esempio lo si ha con le imprese giapponesi.

Il Japan Trade Center (Jetro) di Milano ha di recente pubblicato un « codice di comportamento per investimenti nel Mercato Comune ».

In tale documento viene raccomandato che: « ... le imprese multinazionali investitrici nei paesi della co-m u n i t à devono tenere presente che gli investico-menti servono essenzialmente p e r impiantare basi di produzione e che quin-di esse sono strettamente collegate con le società e le econo-mie di quei paesi...».

Da quanto assunto emerge l'importanza che tali società multinazionali pongono sulla necessità di un « controllo indiretto ».

Quindi il termine « controllo » deve essere in-terpretato in una accezione lata e che, per elimi-nare ogni equivoco, possa essere sostituito dalla parola « partecipazione ».

La Jetro evidenzia, nel suo studio, il crescente interesse delle società multinazionali giapponesi ad inserirsi sui mercati dell'area comunitaria ed in specie su quelli italiani.

Per tali imprese si sono levate varie voci al-l'estero che reclamavano e reclamano una restri-zione alle importazioni giapponesi all'estero ed è stato dato, cosi, impulso agli « investimenti giap-ponesi all'estero », ed in specie nell'area comuni-taria, per quietare tali critiche.

Nel frattempo gli investimenti all'estero delle imprese giapponesi sono stati ulteriormente favo-riti da un nuovo fattore: la crescita del naziona-lismo economico.

Tale nazionalismo, desideroso di alimentare le proprie industrie, impone delle restrizioni alle importazioni di prodotti industriali, mentre favo-risce la produzione locale delle società straniere, creata attraverso gli investimenti diretti o forme di partecipazione.

Allo scopo di trarre alcune conclusioni è op-portuno analizzare le norme essenziali del « co-dice di comportamento per investimenti all'este-ro » elaborate dal Japan Trade Council Incorpo-rated.

Fine primario di tali norme è quello di salva-guardare gli approvvigionamenti delle materie prime in quanto:

« ... poiché la prosperità del Giappone dipende, per i prodotti di più largo uso, dagli approvvigionamenti dall'estero, le società giapponesi dovrebbero dedicarsi agli investimenti al-l'estero allo scopo di stabilire u n a divisione razionale del lavoro ed u n flusso pressoché continuo di fattori di pro-duzione... ».

Fine secondario di tali norme è quello di in-staurare una pacifica convivenza e cordiale colla-borazione con le società e le economie di quei paesi nei quali viene indirizzato l'investimento in quanto:

« ... gli investimenti d o v r a n n o essere indirizzati verso quelle fonti che c o n t r i b u i r a n n o allo sviluppo economico ed al be-nessere del paese o regione europea dove avviene l'investi-m e n t o . nel rispetto degli usi e costul'investi-mi locali e con la più ampia partecipazione del capitale indigeno.

Inoltre, le società multinazionali a vocazione europea giap-ponesi, d o v r e b b e r o evitare di dare l'impressione di fare un'eccessiva concorrenza tra di loro a t t u a n d o u n a accorta politica di concentrazione sia su paesi che su industrie spe-cifiche... ».

Fine terzo di tali norme è quello di mantenere relazioni commerciali amichevoli basate sul prin-cipio della reciprocità e dell'uguaglianza:

« ... tali società d o v r e b b e r o fare le loro richieste di modifica o correzione ai loro soci locali, che giocano u n ruolo diret-tivo importante nello svolgimento degli affari, e rispettare il più possibile le leggi e le n o r m e della regione europea in cui avviene l'investimento...».

Per ultimo si può notare un ribaltamento del nazionalismo economico a favore della filosofia di interdipendenza comunitaria in quanto:

« ... le società giapponesi d o v r e b b e r o tenere presente che esse r a p p r e s e n t a n o il G i a p p o n e , ed evitare q u i n d i di f o r m a r e circoli chiusi, che possano dar adito ad incomprensioni, o c o m m e t t e r e atti di cui il G i a p p o n e ed il suo popolo d e b b a n o vergognarsi... ».

Nel documento Cronache Economiche. N.011-012, Anno 1974 (pagine 63-69)