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La vicenda umana e poetica di Isabella Morra (1516-1545/46)

-Rovistando tra le carte segrete- -Geografia dei luoghi-

“Ogni verso d’Isabella Morra è un grido veemente di un’anima straziata, e talora sembra di sentirne l’ululato che, dai remoti burroni del Siri si leva fino a noi, per gridare, ben che sia tardi, vendetta.”37

C

osì De Gubernatis, con la metafora del grido, definiva la poesia di Isabella Morra che nel feudo paterno di Favale fu vittima della violenza omicida dei fratelli, perché colpevole di una presunta relazione con il signore spagnolo don Diego Sandoval De Castro, che non sarà risparmiato dall’altrettanta violenza di un agguato.

Nel cupo e profondo Sud del Cinquecento, una giovane donna viveva le tragiche conseguenze di una guerra europea, con la quale le due grandi superpotenze del tempo, Francia e Spagna, si contendevano l’egemonia nel mondo. Erano i tempi di Francesco I e Carlo V ed un piccolo barone della Basilicata, Giovan Michele Morra, signore di Valsinni, sceglieva la causa della Francia, trovandosi tra i vinti. Fu costretto, così, a

37 Il romanzo di una poetessa, Introduzione di A. De Gubernatis a Isabella Morra, Rime, con note dello stesso, Roma, Forzani, 1907, p. 27.

rifugiarsi a Parigi, presso il re francese Francesco I, rifacendosi una nuova vita. Accusato di non essersi unito agli Spagnoli, il Morra si sarebbe potuto giustificare agevolmente, ma non volle presentarsi ai magistrati per timore della vendetta del Principe di Salerno, il quale mirava ad impossessarsi della terra di Favale, abbandonando così la famiglia nella solitudine della Lucania senza porsi problemi. Questo sembrava apparire un episodio tipico del tempo.

Era il 1528 e nella lontana Valsinni, rinchiusi nel castello, isolati e sospetti ad i nuovi signori spagnoli, rimanevano abbandonati a se stessi la moglie e sette dei suoi otto figli. Fra questi c’era anche la terzogenita Isabella, anima delicata e gentile, formatasi nella lettura dei classici e del Petrarca. Nella bruta realtà del luogo e del tempo, ella vide inesorabilmente soffrire la giovinezza e la bellezza, non le restava se non l’invettiva contro l’empia Fortuna e la confessione disperata della sua sofferenza a cui, più tardi, seguì la rassegnazione cristiana, collocandosi, tra l’una e l’altra fase, momenti di laceranti illusioni e speranze.

Come qualunque giovane dei nostri tempi e di tutti i tempi, che viva isolato nel borgo, tra gente con cui ogni colloquio è impossibile, anche Isabella Morra sentì Valsinni come una prigione o un carcere. Con questi termini, infatti, ella per ben due volte, indicò la realtà del suo villaggio ed impressionano, sotto questo aspetto, le affinità, non solo psicologiche ma anche linguistiche e stilistiche, che accomunano Isabella non tanto ai poeti e alle poetesse petrarchesche del Cinquecento, quanto, invece, al Leopardi, che viveva lo stesso dramma di isolamento e solitudine, tanto più accentuato nei due poeti, in quanto, da un lato, si trattava di persone di rango aristocratico- viventi, quindi, nel chiuso del castello o del palazzo baronale- e, dall’altro, si trattava di persone colte, che nessun colloquio potevano stabilire con gli abitanti del paese, zotici e vili. Per la Morra, ad aggravare la condizione di isolamento si aggiungeva, peraltro, il fatto che viveva in un paese del Sud, necessariamente più emarginato di Recanati. Per di più era una donna.

Vissuta in un secolo ricco di poesia femminile- si pensi a Vittoria Colonna, Veronica Gàmbara, Gaspara Stampa, Veronica Franco e Tullia D’Aragona38- il caso di Isabella si presenta alquanto diverso dalle altre poetesse rinascimentali precedentemente citate, in

38 N. SAPEGNO, Antologia della storia e della critica letteraria dal Cinquecento al Settecento, vol. II, Roma, Barjes, 1968, p. 203.

quanto ella fu né una donna di corte e né una cortigiana, ma una donna sola con se stessa e consapevole della propria solitudine, nonostante il desiderio di libertà ed emancipazione.

Geograficamente e socialmente isolata, ella non aveva a chi confessare il suo dramma esistenziale: l’unico ad avere un’educazione raffinata, affidata ad ottimi pedagoghi, era suo fratello Scipione, secondogenito della famiglia, il quale fu portato con il padre in Francia. Significativo è, secondo la critica, che il padre abbia scelto di portare con sé il secondogenito dei maschi e non il primo, Marco Antonio, al quale toccava invece la responsabilità della madre e dei fratelli e, proprio in quella famiglia senza padre, egli avrebbe educato alla violenza i fratelli minori.

In Isabella si avverte subito il disagio e se mai a qualcuno ella, stando tra gente

irrazional, priva d’ingegno39, ovvero tra ignudi spirti di virtute e cassi40, avesse voluto

confidare i suoi sentimenti, sarebbe stata derisa e rimproverata. Bisogna aggiungere che nel primo Cinquecento la Basilicata appariva lontana dai grandi centri intellettuali come Firenze, Ferrara, Napoli: era una terra isolata dal mondo e priva di quelle condizioni favorevoli alla nascita di una vita culturale di grande spessore, dalle contrade devastate dalle guerre civili di allora, dalle congiure dei baroni che causavano nella società momenti di grande instabilità. Un’epoca di cattiverie, malvagità, di crisi sociale e culturale, nella quale la gente viveva condizioni di precarietà, afflitta da carestie e imposizioni daziarie del Cinquecento.41

Le origini del paese della poetessa risalgono ad ancor prima del Medioevo, al periodo magno greco e lucano, quando le popolazioni dimoranti nelle città fortificate, una volta cambiate le strategie politiche e mutati gli aspetti economici e sociali, si riversarono a valle o sulle strutture più prossime alle nuove vie di comunicazione e di scambi commerciali. Tra le mura di quel castello che sorgeva sulla montuosa Basilicata, in prossimità del fiume Sinni, dominava l’arroganza.

39 Rime, XI. Isabella Morra, Rime, a cura di M. A. Grignani, Roma, Salerno, 2000. Per i testi della Morra si farà riferimento, qualora non venisse esplicitato, a questa edizione del Canzoniere.

40 Rime, VII.

41 P. MONTESANO, Storia di un paese e di una poetessa a cura di F. Vitelli, Matera, Altrimedia, 1999, pp. 19-22.

Nella figura del padre, Isabella, fin dall’adolescenza, aveva fissato la sua attenzione, credendolo vinto in gravi affanni ed, in qualche modo, ostacolato nel ritorno: da ciò il suo desiderio di raggiungere non solo il padre lontano, ma l’uomo colto, l’eroe. Nella madre, invece, vedeva una proiezione negativa di se stessa, una donna non realizzata e non emancipata. Non le restava, dunque, che la rozza compagnia dei fratelli, dediti soltanto alla caccia e alle rapine, sempre più imbarbariti nel loro isolamento, fratelli che la detestavano e la tenevano segregata in casa, lontana dalla società letteraria napoletana, tanto che la fanciulla poteva trovare conforto solo nella lettura e nella poesia.

Così ella sognava e sperava di essere richiamata in Francia, e viveva ansiosa in questa trepidante attesa cercando in tutti i modi possibili di far giungere lontano la voce della sua tristezza e del suo profondo dolore, il suo non voler vivere in un ambiente tanto estraneo alla sua cultura, alle sue aspirazioni, alla sua necessità di donna giovane, colta, ardente di vita e pensiero: qui io non provo di donna il proprio stato lamentava in una delle sue Canzoni42.

La condizione di reclusa è ovviamente il punto di partenza di un’analisi critica che va alla ricerca dei procedimenti conoscitivi e psicologici di Isabella. La poesia, infatti, non poteva sostituire la vita, poteva al massimo dare conforto e consolazione, o sollievo, ma non risolveva il problema esistenziale. Non per nulla, in molti casi, poeti ed artisti risolsero la loro angoscia nel suicidio. Tutto, peraltro, lascia credere che le condizioni fisiche e psichiche della giovane donna, che sarebbe morta all’età di appena ventisette- ventotto anni, si aggravarono sempre di più.

È lei stessa, infatti, a parlare con un linguaggio moderno di un interno male43o alma stanca44, a cui si associava un corpo, velo dell’anima, che diventava sempre più frale45e

sempre più gravosa salma, struggendosi46 come neve al sole. Almeno in tre sonetti,

42 F. RUSCIANI, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro castellano del castello di Cosenza, Roma, Cossidente, 1963, pp. 12-16.

43 Rime, VI. 44 Rime, XI. 45 Rime, XI. 46 Rime, XIII.

infatti, c’è il ritorno ossessivo all’empia morte47, come presenza immediata ed

incalzante, al punto che qualche commentatore vi ha visto anche una intenzione suicida. Probabilmente fu in questa fase di crisi acuta che Isabella decise di dare l’addio al mondo, alle illusioni e alle speranze, chiudendosi ulteriormente in sé e convertendosi a Dio. Il passaggio, segnato da un sonetto di pentimento (Scissi con stile amaro, aspro e

dolente […]/ or del suo cieco error l’alma si pente48), approda appunto alle due canzoni

religiose, che includono il Canzoniere e cantano le lodi di Cristo e della Vergine. La sofferenza e la prigione di Valsinni, ormai, venivano accolte con cristiana rassegnazione, quale prova a cui Dio chiamava la giovane donna, per riservarne la beatitudine entrata nell’altro mondo.

Tuttavia, fu proprio nel bel mezzo della trovata pace religiosa che, all’orizzonte della giovane donna, apparve la figura fascinosa del poeta spagnolo Diego Sandoval de Castro, bello d’aspetto, padre di tre figli, autore di una raccolta di liriche pubblicate a Roma nel 1542, socio dell’Accademia fiorentina dal 1544, ricercato dalla polizia spagnola, ma con nessuna voglia di consegnarsi ad essa. Barone di Nova Siri, compariva spessa dalla latitanza per far visita alla moglie, donna Antonia Caracciolo, amica della Morra. Cominciò, così, per la poetessa un breve quanto intenso periodo di turbamenti che portarono lo scompiglio in un sistema di vita ancora molto fragile e provvisorio.

Né segni di questo rapporto, qualunque esso fosse, si trovano nelle poesie di Don Diego, pubblicate come detto precedentemente, nel 1542, perciò la frequentazione più significativa tra i due dovette cominciare, all’incirca, tra la fine del 1544 e la prima metà del 1545, cioè nella fase terminale della loro breve esistenza. Né essa fuggì all’occhio malizioso della gente contadina del paese, che parlava ed alludeva: pare che il poeta di Bollita, odierna Nova Siri, abbia inviato alla fanciulla, tramite il pedagogo, con una non chiara mediazione della moglie, varie lettere contenenti versi.

Che si trattasse di una delle tante corrispondenze letterarie, andate di moda tra i petrarchisti e petrarchiste del Cinquecento, o che si trattasse di corrispondenze di altro genere, non si saprà mai. Quello che è certo è che le dicerie raggiunsero anche le orecchie dei fratelli Morra- Decio, Fabio, Cesare- ai quali poco importava se la

47 Rime, IX. 48 Rime, X.

relazione fosse vera, in quanto non era tollerabile il sospetto di una relazione illecita, fra una ragazza ed un uomo sposato, per giunta di parte politica avversa, perché spagnolo. Questo avrebbe potuto infrangere l’onore della famiglia e ciò spiega come la vendetta dei Morra non fu un fatto improvviso ed occasionale, legato ad un momento di rabbia o furore, ma fu studiata: lo dimostra il fatto che ad organizzarla non furono solo i tre fratelli, tutti in giovanissima età, ma anche due zii, Cornelio e Baldassino.

I primi ad essere assassinati, nell’autunno-inverno 1545, furono Isabella ed il suo pedagogo, colpevole di aver fatto da mediatore in questa corrispondenza. Questo duplice assassinio, peraltro, non bastò perché restava vivo il maggiore responsabile di quello scandalo. Rifugiatisi infatti in Francia, presso il padre e Scipione, ed ottenuta sicuramente la loro approvazione, i tre fratelli tornarono nel loro feudo, si appostarono nel bosco di Noepoli, sul Pollino, ed attesero che lì passasse Diego Sandoval de Castro. Una volta ucciso, ritornarono a Parigi.

Secondo Benedetto Croce (1866-1952)49 che, per imbeversi dell’aria dei luoghi, fece un faticoso viaggio fino a Valsinni, fu probabilmente la polizia spagnola a trovare, tra le carte della giovane assassinata, i dieci sonetti e le tre canzoni che costituirono l’intero

Canzoniere di Isabella Morra, breve quanto intenso e diverso da tutti gli altri

contemporanei. Le prime due edizioni di pubblicazione del Canzoniere risalgono al 1552 e al 1556 in Rime di diversi illustri signori napoletani a cura di Ludovico Dolce, il quale, tramite il libraio napoletano Marcantonio Passero, pubblicò alcuni sonetti (I-VIII) ed una canzone (XII) per poi approdare all’edizione del 1556, sempre a cura del Dolce, in cui vennero stampati i rimanenti inediti sonetti (IX, X) e canzoni (XI, XIII). L’edizione completa si ebbe, però, nel 1559 a cura di Ludovico Domenichi, in Rime

diverse di alcune nobilissime e virtuosissime donne, il quale adottò una serie di micro

variazioni, dovute a preferenze di normalizzazione linguistica, retorica- stilistica. La fama sopraggiunse ben presto, perche il nome della donna cominciò subito a circolare, sexum superando- scrisse nel 1629 il nipote Marcantonio50-, cioè superando

tutti i limiti e gli ostacoli legati alla condizione femminile.

49 B. CROCE, Isabella Morra e don Diego Sandoval de Castro, in La critica, vol. XXVIII, Bari, Laterza, 1942, p. 28.

50 Marco Antonio Morra, riferendosi al successo della zia negli ambienti letterari, riassumeva felicemente in queste due sole parole le difficoltà ed i pregiudizi connessi alla sua condizione di donna. L’opera del Morra (1561-1618), che era figlio di Camillo (1528-1603), il più piccolo dei fratelli di Isabella, fu

Dopo le succitate edizioni, vi furono soltanto accenni ad Isabella Morra, da parte di storici della letteratura, quali il Crescimbeni ed il Tiraboschi, mentre alcune rime comparivano qua e là in raccolte quasi sconosciute. Bisogna attendere, quindi, gli inizi del Novecento, quando De Gubernatis, ripubblicando le Rime della Morra, ne inviò una copia a Benedetto Croce, perché critico gagliardo e penetrante, […] vendicasse

anch’esso la povera vittima51.

La vera svolta si ebbe, infatti, con Benedetto Croce (1866-1952) che della vita della poetessa si occupò con ricchezza di informazioni, scrivendo un primo saggio che contenesse in appendice52 le Rime di Isabella Morra ed una scelta dal Canzoniere di don Diego Sandoval de Castro.

Seppur sollecitato da De Gubernatis, resta dunque il Croce il principale ricopritore della vicenda e soprattutto della poesia di Isabella Morra, ciò avvenne peraltro dopo un pellegrinaggio nei luoghi nei quali fu vissuta questa breve vita e cantata questa

dolorosa vicenda53. Di quest’ultimo egli stesso ne specificò la motivazione: nemmeno vagamente speravo, di trovare colà nuovi documenti; mi ero tratto, come suole, dal desiderio di un più sensibile ravvicinamento ai casi del lontano passato per mezzo delle cose che vi assistettero, o assai poco, cangiate nell’aspetto, e sembrano svegliarne o prometterne la più vivace evocazione54.

Il contributo Crociano nasce quindi da un approccio di storiografia romantica, per il

quale ogni vera storia è sempre autobiografia […], se l’autobiografia è storia delle

nostre opere, anche le restanti storie delle opere dell’umanità, che tutte ci

pubblicata postuma nel 1629 dal tipografo Domenico Roncallioli di Napoli sotto il titolo “Familiae

nobilissimae de Morra historia”. Il fac-simile, in latino, con traduzione in italiano, è stato riprodotto in un

libretto stampato con il patrocinio del comune di Valsinni, Dolce vita mi saria la morte, Isabella Morra

nella cronaca di famiglia, a cura di Brunella Carriero, Matera, Edizioni del Labirinto.

51 Cfr. G. CASERTA, Benedetto Croce e Isabella Morra- rovistando tra e carte segrete- in G. Delia- G. Caserta, Benedetto Croce, da Napoli a Valsinni, sulle orme di Isabella Morra, Guida alla mostra, Rotondella (Mt), Archivi A, giugno 1999, p. 29.

52 B. CROCE, Isabella Morra e don Diego Sandoval de Castro, in La critica, vol. XXVIII, Bari, Laterza, 1942, pp. 36-59.

53 Ivi, p. 30. 54 Ivi, p. 32.

appartengono, sono sostanzialmente autobiografia55 e proprio da questo approccio

nasce l’opera del 1947, ovvero Vite di avventure di fede e di passione56. Croce scriveva:

mi è accaduto, nel corso delle mie battute e indagini, di sentirmi attirato dalle figure di alcuni uomini, le cui vite, ricche di vicende e di contrasti, trabalzate e trapiantate dalla fortuna in paesi lontani e diversi, impersonavano drammaticamente le condizioni e le lotte politiche e morali dei loro tempi. Mi pareva che, a ben raccontarle, si potesse appagare l’immaginazione, che si diletta dello straordinario e inaspettato, senza perciò deludere le richieste dell’intelligenza storica57.

Si deve, infatti, alla squisita cortesia delle figlie Alda, Silvia e Lidia Croce, se si è

avuta la possibilità di rovistare tra le carte segrete del Croce, le quali insieme ai

Taccuini di lavoro58, anch’essi in parte segreti, stanno a testimoniare, nonostante la loro

limitata stampa, la lunga passione del filosofo e critico napoletano per la poetessa di Valsinni. La richiesta del De Gubernatis non lasciò indifferente l’uomo d studi, una conferma è nella lettera all’amico Raffaello Piccoli, scritta nell’ottobre del 1928 e premessa all’estratto del saggio Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro in cui il Croce attribuiva all’insistenza dell’amico la decisione di condurre studi sulla tragica vicenda ma, in verità, dimostrava di ricordare bene le esortazioni del De Gubernatis a

vendicarne la povera vittima, visto che la riprendeva in apertura della lettera. Non vi è

accenno, né in questa e né nel saggio, al ruolo del De Grazia, che invece dovette essere più importante di quanto non sembrava, essendo quest’ultimo diventato, come vedremo, ambasciatore di Valsinni a Napoli.

Paolo De Grazia (1871-1951), professore presso l’Università di Napoli dal 1909, nativo di Senise (PZ) e studioso di cose lucane, alla vicenda della Morra e alla sua poesia si era richiamato in una lunga nota che, conservata nelle carte di Benedetto Croce, porta il titolo di Acropoli enotria sopra Valsinni59. Essa risulta scritta a mano ma

55 B. CROCE, L’autobiografia come storia e la storia come autobiografia, in Id. Filosofia, poesia, storia, Milano- Napoli, Ricciardi, 1951, p. 29.

56 B. CROCE, Vite di avventure di fede e di passione, in Scritti di storia letteraria e politica, XXX, Bari, Laterza, 1947.

57 Ivi, Premessa.

58 B. CROCE, Taccuini di lavoro, III, 1927-1936, Napoli, Arte tipografica, 1987.

59 Scavi nella Magna Grecia, ‘’Nuova Antologia’’, Anno 42, Fascicolo 862, 16 novembre 1907, pp. 331- 333.

non è facile capire a quanto risalga la stesura, che forse era soltanto un appunto per far meglio conoscere la storia ed il sito di Valsinni; secondo l’ipotesi più probabile l’appunto, pare, risalga all’anno 1927. Vi si discorre delle tradizione greche e delle antichità lucane in quella che fu l’area del Sinni, si fanno anche ipotesi sulla localizzazione di Pandosia, che si vorrebbe collocata sul Monte Coppola, sopra Valsinni.

Ma l’attacco parte da Isabella Morra e da Valsinni:

“Nello scorso settembre- si racconta- io ed alcuni amici di Valsinni salimmo verso il Monte Coppola e…tutti godiamo, nella faticosa ascensione, l’allegrezza immensa della vista del tortuoso Sinni e dei monti brulli, delle valli, dei pianori, dei sentieri, che Isabella Morra cantò un giorno. E i boschi intricati, ora recisi, e i rovinati sassi e le chiare fonti e rivi, testimoni del suo canto doloroso, ci accompagnano lungo l’erta. Noi ascendiamo all’alto monte là dove il suo debole piede posossi, quando ella disperata veniva ad aguzzar lo sguardo ansioso di scorgere se qualche anima benevola approdasse alle rive dello Jonio, per rilevar lei infelice, e trasportarla in altri lidi. Ma nessun remo fondeva l’onda, nessuna vela era portata dal vento, onde morta di dolore disperato ridiscendeva a piangere sul sul suo tristo fato nell’avito castello, i cui ruderi oggi il tempo edace va battendo.’’60

Questo scritto potrebbe essere assunto come l’avvio della fattiva collaborazione tra il De Grazia e il Croce sulla questione Isabella Morra, anche se a questa il De Grazia dovette costantemente pensare dietro le sollecitazioni costanti del dottor Domenico Guarino (1873-1956), medico di Valsinni, ch nel suo paesino, si era fatto promotore, dopo la scoperta del De Gubernatsi, di una serie di iniziative tendenti a rivalutare la figura della sua concittadina. Questo si ricava da una nota di giornale (“Basilicata”, 4 settembre 1925), anch’essa conservata dal Croce, in cui il Guarino prendeva spunto dall’ultimo articolo apparso sulla poetessa del suo paese che era stato riportato, a firma di Francesco Rusticani, da “Basilicata nel mondo”61. Aveva titolo piuttosto romantico ma anche funereo: Isabella Morra, poetessa della morte. Il Guarino, però, non ne rimase soddisfatto, voleva che si andasse oltre; egli, infatti, si lamentava del fatto, e la cosa non dovette sfuggire al Croce, che si trattava di interventi, in un certo senso,