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Le dimissioni e l’uscita dalla comunità

Nel documento LA COMUNITA' TRA CURA E PROTEZIONE (pagine 92-98)

3 PERCORSI POSSIBILI

3.2 Le dimissioni e l’uscita dalla comunità

Le dimissioni possono verificarsi in diversi casi: il raggiungimento della maggiore età, un affido familiare/adozione, il rientro in famiglia, l’inserimento in un’altra comunità, l’ingresso in carcere.

Il raggiungimento della maggiore età è un traguardo molto delicato per il ragazzo che è in comunità, perché segna il momento in cui deve mettere in pratica tutti gli strumenti che ha acquisito durante il suo percorso e raggiungere una vita autonoma.

A tal fine gli operatori della comunità lavorano in particolare su obiettivi formativi e di responsabilizzazione, come la gestione dei soldi e la costanza nel percorso di studi o di apprendistato.

70 AA.VV., Forensic Psychotherapy and Psychopathology- Winnicottian Perspectives, London and New

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Se già è difficile che un neomaggiorenne sia l’emblema della responsabilità e dell’autonomia, è ancora più difficile che una piena assunzione di responsabilità si verifichi con un passato di deprivazioni e violenze ed è per questo che si prevede la possibilità di estendere il progetto fino ai ventun anni, in modo da poterlo accompagnare e sostenere nell’ingresso nel mondo.

Le comunità ad alta autonomia per i maggiorenni non sono ancora regolamentate a livello nazionale e solo alcune Regioni si sono dotate di leggi e documenti ufficiali che promuovano percorsi ad hoc per questa categoria, provocando così un panorama disomogeneo e variegato. Alcuni dei percorsi protettivi attivati sono: l’intervento educativo al sostegno familiare, gli interventi di facilitazione economica per affitti, mutui e prestiti, l’accesso ad aziende sensibili e disposte a riservare posti di lavoro, l’ampliamento delle reti informali di solidarietà, amicizia e vicinato, la costituzione di apposite associazioni.

Le criticità in cui si incorre sono causate della mancanza di un piano integrato tra gli enti e i servizi, l’assenza di misure a tal fine e delle strutture in cui attuarle. Dove invece questi percorsi esistono, è necessario lavorare al fine di arginare il rischio di abbandono del progetto. Il concetto di autonomia non è solo connesso all’indipendenza economica, ma anche alla percezione che il ragazzo ha di sé in merito alla sua adeguatezza e all’essere significativo per qualcuno: egli deve dare valore a se stesso. Partendo da questa consapevolezza si deve costruire “un’alleanza di lavoro e un patto educativo tra giovane, educatori e servizi del territorio.”71

I progetti per l’autonomia devono essere differenziati a seconda della categoria in cui il care leaver, cioè colui che lascia l’assistenza, rientra. I soggetti più vulnerabili e mediamente vulnerabili, ovvero quelli che hanno ancora molte questioni del loro vissuto insolute e per cui si prevede difficilmente una riuscita, necessitano di un accompagnamento che preveda ancora un’intensa attività di

71 Ivi p. 92.

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tutoring educativo e relazionale. I soggetti resilienti, cioè quelli che si percepiscono e vengono riconosciuti dagli altri come tali e sembrano aver raggiunto un equilibrio tale da potersi affacciare alla vita da soli, necessitano di facilitazioni economiche e sociali, di sostegno nell’affrontare le vicende burocratiche e legali e vanno aiutati ad inserirsi nel tessuto sociali, in modo che riescano a sentire un’appartenenza, ad esempio ad un gruppo o ad un’associazione di volontariato.

Il piano/patto educativo individualizzato per un neomaggiorenne è un accordo in cui tutte le parti sono attive e hanno pari potere, il ragazzo si assume le proprie responsabilità di fronte alla comunità e ai servizi sociali, ormai ha acquisito sufficienti abilità comunicative per far presente le sue necessità, i suoi obiettivi e quindi rendersi attivo.

All’interno del patto educativo individualizzato devono essere esplicitate72:

- le finalità del documento

- gli obiettivi del progetto che ogni parte si prefigge di raggiungere (tra i più frequenti c’è la gestione di un appartamento)

- la durata entro la quale il progetto si dovrà svolgere - i dati dei referenti del progetto

- gli obiettivi specifici del progetto compresi quelli che il ragazzo decide da solo (ambito scolastico o professionale, abitazione, gestione della quotidianità, recupero documenti, ambito sociale)

- il ruolo e le funzioni svolte dalle parti - la data e la firma

Proprio come nel caso dei minorenni, se si vuole che il patto educativo individualizzato possa essere utilizzato ai fini del monitoraggio, è utile che anche qui si stilino le liste degli obiettivi, delle azioni facilitanti e degli atti professionali. In questo caso il momento di verifica degli obiettivi, il

72 Cfr. ivi pp. 96-97.

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monitoraggio del percorso insieme al ragazzo è ancora più importante per dargli modo di auto-valutarsi, di ragionare sui risultati da ottenere e sui punti in cui è ancora carente, all’interno di una relazione significativa e di supporto come quella che dovrebbe avere creato con l’educatore.

Nel caso in cui durante il percorso in comunità, sia stato valutato che i genitori non sono recuperabili o lo sono in tempi troppo lunghi per poter lasciare il minore in struttura, si può trovare nell’affido familiare una misura più consona. Quando si verifica questa situazione il compito degli operatori è quello di preparare il minore all’inserimento. Infatti un bambino fortemente traumatizzato, mettendo in atto quella serie di comportamenti aggressivi, violenti o antisociali di cui abbiamo parlato prima, potrebbe rompere gli equilibri di una famiglia, che per quanto preparata dai servizi, non ha certo le competenze teorico-pratiche di un operatore per poter fronteggiare queste dinamiche. Il rischio qui è che il minore venga riportato al servizio subendo un doppio abbandono, un evento drammatico sia per lui sia per la famiglia affidataria.

Per evitare questi episodi si deve lavorare su più fronti, la famiglia d’origine, il minore e la famiglia affidataria. I compiti della comunità sono di destrutturare i comportamenti disfunzionali del minore, attraverso le pratiche quotidiane e le buone relazioni e di fungere da ponte nella comprensione del ruolo che ha questa nuova famiglia, sia in funzione di un futuro rientro nella nucleo familiare d’origine sia in funzione di un distacco netto da esso.

Anche l’affido comunque presenta delle criticità. Al fine di un inserimento in una famiglia affidataria spesso è necessario un trattamento terapeutico del danno subito e i tempi in cui esso è da considerarsi sufficientemente trattato possono essere molto lunghi, dilatando il periodo tra l’ingresso in comunità e l’affido. Può accadere inoltre che il minore e la famiglia affidataria, una volta conosciuti, non si integrino, rendendo l’abbinamento incompatibile, con la conseguente necessità di trovare una nuova famiglia affidataria.

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Infine l’aspetto che forse può essere più difficile da gestire è l’intromissione della famiglia d’origine, la quale, non accettando la decisione del Tribunale, mette in atto ritorsioni e minacce sia verso il minore sia verso gli affidatari. Il primo, seguendo uno schema di alleanze, ha più difficoltà ad instaurare una relazione significativa con la nuova famiglia, perché sente di tradire i genitori, mentre i secondi possono spaventarsi e fare un passo indietro, rifiutando l’affido.

Quando la prognosi di recuperabilità genitoriale è positiva, ma richiede un po’ di tempo, il servizio sociale e la comunità lavoreranno in sinergia al fine del rientro del minore nel nucleo familiare. Mentre i genitori dovranno intraprendere il loro percorso di recupero e attivare le risorse personali e di rete, indirizzati ed aiutati dai servizi, gli operatori della comunità cercheranno di favorire la strutturazione di una relazione sana con i figli, diventando anche mediatori delle reciproche aspettative.

Anche qui però può accadere che i tempi previsti per il rientro possano dilatarsi, non coincidendo con quelli effettivamente necessari alla famiglia per “rimettersi in sesto” ed essere in grado di riaccogliere il minore.

Purtroppo può anche accadere che, dopo il rientro in famiglia, questa si mostri nuovamente inadeguata e inadempiente rispetto alle prescrizioni del Giudice. Tale circostanza porta con sé come conseguenza un ulteriore allontanamento del minore e probabilmente il suo reinserimento in comunità.

L’ingresso in comunità del minore produce degli squilibri importanti all’interno delle dinamiche di gruppo e nel rapporto con gli operatori, quindi è possibile che si instauri una cattiva relazione tra l’ospite e quell’ambiente comunitario e il minore può essere indirizzato verso un’altra struttura. Questo accade anche in altre circostanze, ad esempio se la tipologia di comunità non è adeguata al progetto globale pensato per la famiglia e il minore o se il luogo di collocamento non permette al minore di perseguire i suoi obiettivi personali (come un adolescente che vuole frequentare una scuola troppo lontana dalla struttura),

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oppure ancora perché si entra in una fascia d’età diversa di cui la comunità, per regolamento interno, non si può occupare. Succede poi che durante il percorso terapeutico del minore venga diagnosticata una patologia fisica e/o psichica tale per cui la comunità non è attrezzata.

Di fronte a un nuovo inserimento il minore si può trovare a gestire un ulteriore trauma, infatti non solo deve affrontare dinamiche di gruppo impreviste, all’interno delle quali deve riuscire a trovare un suo spazio, ma deve anche fare i conti con la sensazione di rifiuto ulteriore e la sensazione di inadeguatezza, tanto più se il trasferimento avviene in seguito ad andamenti relazionali negativi con gli altri ospiti e/o con gli operatori.

In questo caso è importante che il minore sia seguito con grande attenzione sia nella fase di trasferimento e sia nel reinserimento nella nuova comunità.

Nel primo capitolo si è detto come l’inserimento in comunità può essere l’esito della decisione di un Giudice di mettere alla prova un ragazzo che ha commesso un reato, come misura alternativa alla detenzione. Il processo viene sospeso e se l’esito è positivo e quindi il ragazzo ha dimostrato un reale cambiamento, egli ha la possibilità di tornare “in libertà”, oppure se l’esito è negativo, quindi se non ha rispettato il progetto educativo e le prescrizioni del Giudice, la conseguenza è l’incarcerazione.

Il fallimento del progetto educativo e il conseguente ingresso in carcere obbligano il minore ad affrontare un contesto sicuramente più duro rispetto a quello di comunità, seppure anche qui continuerà ad essere seguito dai servizi sociali e a lavorare su un nuovo progetto educativo.

Il rischio è che una volta inserito nel circuito penitenziario sia segnato da uno stigma che si porterà dietro, con cui dovrà fare i conti una volta uscito e che lo potrà portare così a intraprendere una carriera deviante.

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