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LA COMUNITA' TRA CURA E PROTEZIONE

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Academic year: 2021

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Sommario

INTRODUZIONE ... 2

1 IL PERCORSO DI INSERIMENTO IN COMUNITÀ ... 6

1.1 Il processo di intervento ... 9

1.1.1 Le misure di protezione ... 13

1.1.2 Le situazioni di abuso sessuale ... 16

1.1.3 Il processo penale minorile ... 31

2 IL PROGETTO EDUCATIVO: UNO STRUMENTO PER IL TRATTAMENTO ... 53

2.1 Caratteristiche delle comunità ... 54

2.2 Il collocamento del minore ... 58

2.3 Confrontarsi con le conseguenze psicologiche ed evolutive del maltrattamento ... 61

2.4 La costruzione di relazioni significative per riparare ed educare ... 65

2.4.1 La valutazione e la progettazione del piano educativo individualizzato ... 69

2.4.2 Monitoraggio ... 72

3 PERCORSI POSSIBILI ... 75

3.1 Gli adolescenti nelle comunità ... 75

3.1.1 Le conseguenze del maltrattamento e dell’abuso in adolescenza ... 78

3.1.2 I giovani autori di crimini violenti ... 83

3.1.3 Il trattamento dei giovani autori di crimini violenti in comunità ... 87

3.2 Le dimissioni e l’uscita dalla comunità ... 92

4 LA STIMA DEL FENOMENO ... 98

4.1 La nazionalità ... 98

4.2 Il genere ... 100

4.3 La classe d’età ... 100

4.4 I periodi di permanenza ... 101

4.5 La disabilità certificata ... 101

4.6 Le caratteristiche dei dimessi ... 102

4.7 Le motivazioni che portano all’inserimento in comunità ... 102

5 CONCLUSIONI ... 105

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INTRODUZIONE

Con l’avvento dell’età moderna si attesta nella cultura occidentale un nuovo tipo di famiglia, detta “famiglia affettiva”, all’interno della quale si perviene anche ad affermare l’inviolabilità dei legami di sangue.

Nel 1989 l’Onu elabora e approva la Convenzione dei diritti del fanciullo, con la quale si riconosce la cittadinanza dei bambini e si tutela la salvaguardia e la promozione dei legami affettivi rispetto a quelli di sangue, legittimando così anche l’allontanamento dalla famiglia in caso di grave rischio per il sano sviluppo del minore. In questa prospettiva si riconoscono al minore una serie di diritti soggettivi e sociali.

Lo Stato italiano con la legge 149/2001 ha recepito tali direttive conferendo allo Stato, alle Regioni e agli Enti locali la competenza in materia di interventi sostegno e aiuto.

Lo Stato ha il dovere di creare le condizioni affinché il minore possa crescere in modo sano all’interno della propria famiglia e deve quindi intervenire anche dal punto di vista economico, ma può disporre anche l’allontanamento laddove sussistano gravi condizioni di negligenza e/o di abuso da parte dei genitori, tali da mettere a rischio o ledere i diritti dei figli.

L’affidamento familiare e l’inserimento in una Comunità sono due tipi di intervento che si utilizzano di fronte all’esigenza di allontanare un minore dall’ambiente di origine, quando questo risulta non essere idoneo, da un punto di vista morale e/o materiale, alla sua educazione.

Dagli anni ’70 inizia a farsi largo la prospettiva di un inserimento del minore in

luoghi diversi dall’istituto, si intraprende quindi una fase di

deistituzionalizzazione che porta ad un ridimensionamento del numero degli ospiti per struttura, per facilitare l’instaurarsi di un clima familiare. Con la legge 149/2001 si dispone la chiusura o la conversione degli istituti, dando il via a una

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serie di sperimentazioni come l’affidamento familiare o le piccole comunità. Negli anni successivi si sviluppano diverse forme sia di affidamento sia di comunità e vengono coinvolte le reti di prossimità sociale e di solidarietà, l’associazionismo familiare e l’intervento domiciliare.

Le comunità per minori rappresentano una realtà consolidata nel nostro Paese e includono una varietà di modi di vivere il quotidiano. Le modalità di affidamento dei minori alle comunità sono regolate dalla legge 149 del 2001 a integrazione della legge 184 del 1983. Spetta invece alle singole legislazioni regionali autorizzarne il funzionamento, attraverso le procedure di accreditamento e di valutazione.

Tra le varie tipologie di minori che possono essere affidati ad una comunità, quelli che presentano maggiori problematicità sono gli adolescenti.

L’adolescenza rappresenta una tappa dello sviluppo evolutivo particolarmente difficile, perché è quel momento di transizione in cui il ragazzo prova l’ambivalenza di due desideri: se da una parte sogna la vita adulta, con essa arrivano anche molte responsabilità e timori che lo portano invece a voler tornare all’infanzia, in una sorta di regressione.

L’adolescente che si trova in comunità però si porta dietro difficoltà aggiuntive perché spesso vive il suo inserimento come una punizione. Se già normalmente, nella ricerca della sua identità, per scoprire quali siano i valori che gli appartengono, al fine di proiettarsi in un futuro, è necessario che siano presenti sia la libertà di autonomia sia un contenimento di essa, questo è ancora più vero per quei ragazzi che si trovano in una struttura e che non hanno una famiglia presente o quanto meno funzionale.

Nelle comunità per minori non sono rari i casi in cui i giovani che hanno subito violenza si trovano a convivere, quindi a condividere spazi, tempo, attività ed emozioni, con chi si trova lì per aver commesso un reato, tra cui l’aggressione a persone.

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La comunità qui si trova a dover svolgere il difficile compito di mediare tra i due poli, da una parte chi è lì per essere protetto e dall’altra ci è stato “messo alla prova” per avere una possibilità di interrompere i comportamenti aggressivi. Diversamente da quello che si può pensare, è molto frequente che un comportamento violento abbia una stretta correlazione con una storia personale segnata da abusi o violenze, sia fisiche che psicologiche.

Partendo quindi dalle caratteristiche strutturali dell’individuo, quali le capacità sociali inadeguate, i deficit cognitivo-intellettivi e delle capacità rappresentative, le distorsioni cognitive, il deficit del controllo degli impulsi e le forme di dissociazione, si ottiene una miscela esplosiva quando queste si incrociano con un vissuto di vuoto e di inadeguatezze. Il ragazzo, non essendo in grado di elaborare le emozioni di rabbia, di frustrazione e di ansia che ne derivano, adotta strategie di violenza, aggressività, isolamento, evitamento e ritiro sociale.

Si può quindi pensare che in realtà le due categorie di adolescenti che si incontrano in comunità, maltrattati e maltrattanti, non siano altro che le due facce di una stessa medaglia. Hanno semplicemente avuto una risposta adattiva diversa all’ambiente, a seconda di come gli altri fattori (individuali, scolastici, correlati al gruppo dei pari e all’ambiente economico sociale) si sono incrociati.

In comunità si può instaurare un rapporto diverso da quelli vissuti fin qui, ai soggetti vengono fornite occasioni e strumenti per rompere i meccanismi disfunzionali pregressi e per aprirsi a nuove possibilità.

All’interno delle comunità i professionisti, gli educatori e i volontari, insieme agli adolescenti mettono in atto strategie di vita differenziate.

Attraverso il lavoro quotidiano si cerca di produrre in questi minori un cambiamento duraturo attraverso la trasformazione dei modelli interiorizzati. Ciò che è importante tenere sempre a mente è che tutto quello che gli adolescenti sentono, condividono, sperimentano nella comunità diventa parte del loro

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patrimonio personale. Attraverso le buone prassi degli operatori si cerca di dare a questi ragazzi degli strumenti che potranno riutilizzare in futuro quando rientreranno nella società.

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1 IL PERCORSO DI INSERIMENTO IN COMUNITÀ

Con l’avvento dell’età moderna, come ricorda Ariès1, si afferma nella cultura

occidentale un nuovo tipo di famiglia, detta “famiglia affettiva”, in cui il minore acquisisce un nuovo significato e un diverso valore all’interno della società. I legami diventano più intensi e si arriva così a riconoscergli maggiori diritti. Precedentemente, i bambini erano oggetto di commercio, potevano essere condannati a morte, erano soggetti allo sfruttamento lavorativo ed erano spesso abbandonati in condizioni di grave povertà. L’infanzia e l’adolescenza erano fasi evolutive molto brevi, che solo una ristretta fascia della popolazione poteva permettersi di vivere.

Con l’affermarsi della famiglia affettiva si perviene anche all’inviolabilità dei legami di sangue. Nel 1989 l’Onu elabora e approva la Convenzione dei diritti del fanciullo, con la quale si riconosce la cittadinanza dei bambini e si tutela la salvaguardia e la promozione dei legami affettivi rispetto a quelli di sangue, legittimando così anche l’allontanamento dalla famiglia in caso grave rischio per il sano sviluppo del minore. La Convenzione dei diritti del fanciullo dell'Onu all'art. 3, sancisce espressamente che: "in tutte le azioni riguardanti bambini, se avviate da istituzioni di assistenza sociale, private e pubbliche, tribunali, autorità amministrative, corpi legislativi, i maggiori interessi dei bambini devono costituire oggetto di primaria importanza".

In questa prospettiva si riconoscono al minore una serie di diritti soggettivi, quali il diritto alla vita, il diritto alla propria identità (il nome, la nazionalità, proprie peculiarità e aspirazioni), il diritto alla libertà di manifestare il pensiero, la libertà di coscienza e di religione, la libertà di associazione, il diritto ad essere protetto e tutelato da ogni forma di sfruttamento, maltrattamento ed abuso, il diritto ad avere un ambiente familiare valido che consenta al minore di strutturare la

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propria personalità in modo adeguato, attraverso un rapporto relazionale intenso, il diritto alla tutela della propria privacy e il diritto all'educazione.

Oltre ai diritti individuali di personalità, l'ordinamento riconosce al minore una serie di diritti sociali, quali il diritto all'istruzione, al lavoro, alla salute, all'assistenza, allo svago, alla protezione da ogni genere di sfruttamento, alla regolare socializzazione e all'eventuale risocializzazione, se si è interrotto o deviato l'itinerario formativo.

In virtù di questo, lo Stato italiano con la legge 149/2001 si fa carico di essere garante di tali diritti. L’art.1 comma 3 conferisce allo Stato, alle Regioni e agli Enti locali la competenza in materia di interventi di sostegno e aiuto. Lo Stato ha inoltre il dovere di creare le condizioni affinché il minore possa crescere in modo sano all’interno della propria famiglia e deve quindi intervenire anche dal punto di vista economico, perché il solo stato di povertà non è sufficiente per disporre un allontanamento. Le ragioni che possono portare ad un tale provvedimento si riferiscono al contrario a gravi condizioni di negligenza e/o di abuso da parte dei genitori, tali da mettere a rischio o ledere i diritti dei figli.

In una cultura, come quella occidentale, in cui si è instaurata e consolidata una modalità di creare famiglia basata sui legami affettivi e su una forte componente emotiva, non sorprende che di fronte all’allontanamento si incontrino grandi resistenze, soprattutto in riferimento al diritto che estranei possano intervenire per valutare la qualità e la stabilità assicurata da una famiglia. A tal proposito si è molto discusso sull’uso proprio/improprio dell’ art. 403 c.c., che permette l’immediata messa in protezione del minore che si trova in grave stato di pregiudizio d’urgenza, quindi da la possibilità di agire senza avere ancora un provvedimento giudiziario, che verrà emesso poi immediatamente dopo l’intervento.

Ricordandosi che il minore ha il diritto a crescere nella sua famiglia d’origine, non si può trascurare l’importanza della fase di valutazione della recuperabilità

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genitoriale. Dall’esito di questa si deciderà se orientare l’intervento verso un progetto che prevede il reinserimento del minore nel nucleo oppure il suo distacco definitivo verso un’adozione.

Mettere in atto misure di protezione non investe emotivamente solo il minore e la sua famiglia, ma anche l’operatore. Per superare il sentimento di fallimento che può sopraggiungere, è cruciale condividere con l’equipe i propri sentimenti, i dubbi, le decisioni e le responsabilità.

Memori di questo senso di fallimento, derivante dall’insuccesso del lavoro con la famiglia, la domanda che l’operatore si deve porre non è se gli allontanamenti siano pochi o tanti, ma se questa misura sia presa per perseguire il supremo interesse del minore e se si sia fatto il possibile per lavorare con la famiglia. Sul lungo periodo bisogna senz’altro intervenire tramite politiche di prevenzione e intervento sui genitori, utilizzando come primo strumento l’ascolto attivo, non solo a livello individuale e collettivo dei minori, ma anche delle loro famiglie. Dagli anni ’70 inizia a farsi largo la prospettiva di un inserimento del minore in

luoghi diversi dall’istituto, s’intraprende quindi una fase di

deistituzionalizzazione che porta a un ridimensionamento del numero degli ospiti per struttura per facilitare l’instaurarsi di un clima familiare. Con la legge 149/2001 si dispone la chiusura o la conversione degli istituti, dando il via a una serie di sperimentazioni come l’affidamento familiare o le piccole comunità. Negli anni successivi si sviluppano diverse forme sia di affidamento sia di comunità e vengono coinvolte le reti di prossimità sociale e di solidarietà, l’associazionismo familiare e l’intervento domiciliare.

Le comunità per minori rappresentano una realtà consolidata nel nostro Paese e includono una varietà di modi di vivere il quotidiano. Le modalità di affidamento dei minori alle comunità sono regolate dalla legge 149 del 2001 a integrazione della legge 184 del 1983. Spetta invece alle singole legislazioni regionali

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autorizzarne il funzionamento, attraverso le procedure di accreditamento e di valutazione.

All’interno delle comunità i professionisti, gli educatori e i volontari, insieme a ragazzi e/o bambini mettono in atto strategie di vita differenziate.

Attraverso il lavoro quotidiano si cerca di produrre in questi minori un cambiamento duraturo attraverso la trasformazione dei modelli interiorizzati. Questo cambiamento passa necessariamente attraverso la relazione di fiducia, affettivamente autentica, che si deve instaurare con gli operatori della comunità. Consentendo all’individuo di sperimentare le proprie competente e capacità nelle relazioni e nelle azioni, gli si permette di maturare una nuova fiducia nella propria efficacia personale, permettendogli così di interiorizzare un nuovo sé, diverso da quello risultante dalla sua storia di deprivazione. Parte fondamentale di questo processo è il coinvolgimento del minore stesso nell’elaborazione del suo progetto, in questo modo non solo lo si responsabilizza, ma lo si pone come prima risorsa per il cambiamento.

1.1 Il processo di intervento

Il processo di intervento che comporta l’allontanamento dalla famiglia biologica di un minore e lo porta ad essere inserito temporaneamente all’interno di una comunità o di una famiglia affidataria segue diverse fasi.

I minori possono essere affidati ad una comunità perché per un certo periodo della loro vita non possono restare presso le famiglie d’origine, affidatarie e/o adottive o in altre comunità e/o istituti o perché pervenuti da soli da terre straniere (minori stranieri non accompagnati) o affidati alla comunità per la messa alla prova in alternativa a un procedimento penale.

La prima fase è la rilevazione di uno stato di bisogno, una “domanda di aiuto” che può essere espressa ai servizi sociali direttamente dall’utente oppure

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indirettamente da terzi, in particolare da familiari, scuole, medici specialisti, pediatri, tribunali dei minori, procura della repubblica o forze dell’ordine.

Una volta rilevato lo stato di bisogno, si passa al coinvolgimento della famiglia per comprendere se è il caso di fare una segnalazione al Tribunale oppure se al contrario è possibile lavorare in un contesto spontaneo2. Nel caso in cui si abbia

una moderata gravità del danno e un riconoscimento delle proprie responsabilità, sarà possibile lavorare in questo contesto. È importante fare questa valutazione attentamente, in quanto è molto più difficile raggiungere gli obiettivi se, ad un certo punto, si è costretti a passare da un contesto spontaneo ad uno coatto, in questo caso infatti si verifica una rottura del legame di fiducia tra l’operatore e l’utente.

Quando si ha un caso di elevata gravità di danno e di negazione della responsabilità, si lavorerà in un contesto coatto. Questo prevede la necessità di un mandato che autorizzi l’assistente sociale a compiere le opportune indagini. Fa eccezione l’ipotesi di un reato penale, come il maltrattamento grave o l’abuso sessuale, in cui non si deve coinvolgere la famiglia, per evitare che i familiari inquinino e compromettano le prove, alterando i propri comportamenti o intimidendo la vittima. In tal caso i servizi devono fare in modo che il segnalante sporga denuncia alle forze dell’ordine.

Escluso questo caso particolare, di fronte ad un danno o ad un grave pregiudizio per il minore, si procede con la segnalazione alla Procura presso il Tribunale dei Minorenni, dopodiché viene emesso un decreto con il quale viene disposta una misura di protezione adeguata al rischio/danno, intesa ad annullarlo o ad interromperlo. Quando il Giudice ritiene di non avere elementi sufficienti per prendere questa decisione ed emettere il decreto, apre un’indagine che porta a chiarire il sospetto e ad accertare l’eventuale danno. L’operatore, investito del

2 Il contesto spontaneo è quello in cui le famiglie collaborano con i servizi senza che debbano essere

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mandato del Giudice, procede a questa valutazione incontrando diverse difficoltà, in quanto non esiste una definizione univoca di danno.

Per circoscrivere l’argomento analizziamo diverse aree in cui il danno sfocia, tenendo presente che ogni area sfuma nell’altra.

Danno biologico

Gli indicatori del danno biologico sono diversi, come ad esempio la mancanza di un’adeguata cura farmacologica (un bambino con perenne raffreddore) oppure il caso del genitore tossicodipendente il cui bambino nasce con i sintomi della crisi d’astinenza da sostanze stupefacenti. In quest’ultimo caso si ha un indicatore che lascia poco spazio ai dubbi, permettendo di diagnosticare un danno certo. Questa situazione richiede sempre una segnalazione, anche se il Giudice generalmente prevede una misura di recupero della genitorialità, ad esempio attraverso l’inserimento in una comunità madre-bambino. Davanti al rifiuto di adesione a questa proposta, è possibile passare allo stato di adottabilità in tempi brevi, evitando al minore una percorso di affidi e spostamenti da una comunità all’altra. Gli indicatori sanitari possono essere raccolti anche in tempi successivi rispetto alla nascita, tenendo bene a mente il fatto che essere genitori tossicodipendenti non implica di per sé un danno al figlio.

In generale la rete sociale e di prossimità del minore deve essere attenta a individuare e cogliere i segnali di potenziale danno o rischio. In riferimento alla tossicodipendenza, la sintomatologia più frequente e facilmente individuabile è la difficoltà di respiro o il linguaggio disconnesso.

Per poter emettere un provvedimento acquisisce quindi rilevanza il referto medico che accerti il danno sanitario ed è importante coinvolgere i medici specialisti.

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Il danno sociale è un comportamento che tende a isolare il minore, che gli impedisce una sana socializzazione e/o determina uno stigma generazionale. Ad esempio non portarlo a scuola ha ripercussioni, oltre che legali, anche dal punto di vista sociale.

Un indicatore che in quest’area permette di rilevare il danno è la residenzialità ovvero la permanenza dello stesso nucleo familiare in un luogo stabile. Il cambio frenetico delle figure di accudimento e dell’abitazione influenza il tipo di attaccamento, rendendolo meno sicuro.

Danno psicologico

Il danno psicologico è difficile da diagnosticare in modo netto, infatti raramente si ha a che fare con un ritardo dello sviluppo evolutivo o con un contatto con la realtà chiaramente disturbato. Molto più spesso il minore reagisce alle incapacità genitoriali supplendo le mancanze, provvedendo non solo a sé, ma addirittura arrivando a prendersi cura del genitore “assente” e/o maltrattante. Il rischio per l’operatore è quello di confondere la costruzione di un falso sé, che deriva dall’angoscia provata dal minore di fronte al rischio di rimanere solo e di vedere crollare la sua figura di attaccamento, con una risorsa che il minore riesce a trovare dentro di sé. Quello che, ad una prima lettura superficiale, può sembrare una risorsa è semplicemente il risultato di un attaccamento evitante3 con

un’inversione dei ruoli.

L’operatore deve capire se c’è attinenza tra quello che è il sintomo di una disfunzione del minore e le problematiche familiari, senza sconfinare nel concetto di colpa che non è funzionale alla valutazione del danno e delle capacità genitoriali, ma soprattutto va contro il codice deontologico.

3 Lo stile di attaccamento insicuro evitante è dettato dalla mancata capacità della madre a cogliere i

segnali del bambino: scoraggia e rifiuta il contatto fisico quando il bambino mostra paura o dolore. Ne consegue che il bambino non mostra sconforto quando avviene la separazione, momentaneamente, dalla madre e che evidenzia un’eccessiva autonomia e concentrazione sul compito, con mancanza di rabbia o bisogni affettivi.

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Durante la fase di indagine non andrebbe trascurato, contrariamente a quanto avviene troppo spesso nella prassi, il coinvolgimento e la preparazione dei minori all’intervento di aiuto. Il primo passo è la presentazione dell’operatore, il quale non può essere autoreferenziale, elogiando se stesso, ma trovare la modalità ottimale facendo sì che siano proprio i genitori a rassicurare il bambino sulla positività del suo ruolo. In un secondo momento si deve spiegare il contesto in cui si lavora, quindi si mostrerà al bambino il lavoro degli operatori, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione (come storie e disegni) che favoriscano una semplice e chiara acquisizione delle fasi del procedimento che stanno vivendo e con cui dovranno confrontarsi. Ciò permette al bambino di esternalizzare con commenti e domande quello che sta provando, i suoi dubbi e le sue paure rispetto sia ai comportamenti dei familiari sia al ruolo degli operatori.

Le modalità del colloquio vanno curate ponendo attenzione alle circostanze e alle dinamiche familiari che si vogliono indagare (ad esempio nel caso di abuso si eviterà di sentire il minore insieme al presunto abusante). Almeno in un primo momento è sconsigliabile vedere il bambino da solo, è preferibile invece adottare il formato allargato genitori-figli o fratria.

In ultimo, l’operatore scelto per lavorare col bambino dovrebbe essere lo stesso che lavora con i genitori, al fine di fornire al Giudice il maggior numero di informazioni, coerenti e ricche di sfumature.

1.1.1 Le misure di protezione

I risultati dell’indagine vanno poi restituiti ai suoi protagonisti e vanno comunicati al Giudice, affinché possa prendere provvedimenti più idonei alla tutela. L’indagine ha come scopo il formulare un’ipotesi flessibile su quale possa essere la migliore misura di protezione. Di fronte ai casi di urgenza, il Giudice può disporre una misura di protezione immediata per poi passare successivamente alla fase di indagine. In generale, quando il Giudice emette il decreto e dispone l’intervento rispetta due criteri fondamentali, ovvero che la

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misura di protezione sia commisurata al danno subito dal minore e che allo stesso tempo stimoli la recuperabilità genitoriale. Quando il danno è lieve, si adottano delle vie intermedie, come ad esempio porre il minore sotto il controllo dei servizi sociali, affinché questi possano raccogliere informazioni e al tempo stesso dare supporto alla famiglia. Oppure si può pensare all’assistenza domiciliare, che svolge una funzione di recupero, aiuto e controllo della genitorialità.

Verso un polo più estremo si collocano le prescrizioni impartite al genitore, che generalmente sono affiancate dalla presa in carico dei Servizi. Se queste prescrizioni vengono disattese, il Giudice può provvedere in diversi modi, fino alla dichiarazione di adottabilità del minore. A seguito di questo provvedimento interviene il decadimento della potestà genitoriale, in particolare si affidano alcune di queste potestà ai servizi sociali che hanno in carico i minori, anche se questo non vuol dire necessariamente che il minore sia allontanato fisicamente dal domicilio. In ultima istanza, quando incorre un grave rischio, si procede con l’allontanamento del minore per collocarlo in un luogo extra-familiare più idoneo, quindi si ricorre all’affido familiare a parenti o a terzi oppure al collocamento in comunità.

Abbiamo detto che per rispettare il diritto del figlio a mantenere rapporti con la sua famiglia, la misura di protezione deve essere strutturata in modo tale da agevolare il recupero del genitore, infatti lo scopo del Giudice non è recidere il legame di attaccamento tra il bambino e il genitore, ma al contrario puntare a trovare un modo affinché questo venga rafforzato e, qualora ciò non sia possibile, proteggere il minore e cercare una soluzione alternativa. Quando la misura da prendere in urgenza è l’allontanamento provvisorio interviene la legge 149/2001 che all’art.2 statuisce che il minore, temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, sia affidato in primo luogo ad una famiglia e solo successivamente venga considerato l’inserimento in una comunità.

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Tenendo conto del carattere di temporaneità che in linea teorica dovrebbe avere questa soluzione, si ritiene che allontanare il minore dall’ambiente familiare e inserirlo in un altro contesto non sempre rappresenti, da un punto di vista pratico, la soluzione ottimale. Infatti il genitore potrebbe interpretare questa decisione come definitiva, demotivandosi così al cambiamento e rischiando quindi di troncare sul nascere il suo percorso di recupero. In tal caso sarà compito degli operatori rassicurarlo e spiegargli chiaramente che cosa accadrà.

Un altro affidamento rischioso, se applicato in via d’urgenza come prima misura, è l’affidamento intra-familiare. Nonostante la legge disponga che questa tipologia sia la prima da considerare, nella pratica si è spesso rivelata controproducente per due ordini di motivi. Il primo è che talvolta il minore non viene protetto, ma anzi si trova ancora più invischiato in “giochi familiari” che non rispettano le disposizioni del Giudice. Il secondo è la possibilità che esso diventi vittima della conflittualità generazionale. Non è raro che esso venga affidato dai genitori ai nonni con la modalità del “dono”, attraverso la quale i genitori affidano ai nonni i figli per essere riaccolti e perdonati. D’altra parte i nonni possono accogliere questa possibilità come un riscatto dall’essere stati cattivi genitori. Inoltre questo tipo di affidamento può risultare demotivante ai fini del cambiamento, anche se sembra accontentare un po’ tutti: la famiglia non subisce alcuno stigma e i servizi e il Giudice “non hanno grane” e chiudono velocemente la pratica. Il rischio è di segnare il destino dei bambini che spesso torneranno ai servizi da grandi come utenti. Per questi motivi l’affido a parenti va considerato con cautela, analizzando le dinamiche familiari, le conflittualità e gli scontri tra nonni scelti e non scelti.

Non esiste una regola assoluta, soprattutto in questa fase in cui ancora nulla è deciso e la prognosi sulla recuperabilità genitoriale deve essere ancora stilata. L’operatore deve essere attento a valutare la situazione di volta in volta e adottare la soluzione che gli sembra più idonea, mantenendo come obiettivo primario la protezione del minore.

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La fase successiva consiste nella valutazione della recuperabilità genitoriale ed è un momento fondamentale per capire se c’è o meno lo spazio per lavorare con la famiglia. Generalmente, in questo momento, il tribunale obbliga la famiglia alla collaborazione e i servizi devono ricercare, analizzare e valutare quali siano le risorse e il sostegno necessario, per poi definire una prognosi che si concluda con un decreto definitivo. Se la prognosi è negativa, si andrà verso la terapia del minore e l’accompagnamento verso l’adozione. Se la prognosi è positiva, la terapia coinvolgerà l’intero nucleo familiare e il lavoro sarà orientato al rientro del minore.

In questa fase le misure di protezione, familiari o di comunità, e le modalità di visita variano in relazione al tipo di danno e al grado di collaborazione della famiglia.

1.1.2 Le situazioni di abuso sessuale

L’allontanamento di un minore dal nucleo familiare e il suo inserimento in una comunità, in seguito ad un sospetto o ad un conclamato abuso sessuale, seguono un processo di intervento differente.

Nella Dichiarazione del consenso del CISMAI4 (Coordinamento Italiano de

Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia) troviamo la definizione di abuso sessuale come “il coinvolgimento di un minore da parte di un adulto preminente in attività sessuali, anche non caratterizzate da violenza esplicita”. I dati statistici rispetto a questo tipo di reato mostrano che la maggior parte degli abusi sessuali vengono perpetuati all’interno della famiglia o comunque da persone appartenenti alla cerchia ristretta degli amici. La complessità di questo fenomeno rende ancora più importante armonizzare gli interventi da diversi punti di vista, infatti gli operatori coinvolti su diversi fronti devono essere in grado di

4 www.cismai.it

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rapportarsi l’uno con l’altro e di affrontare questo percorso di analisi dell’abuso da diverse prospettive. Tutti i professionisti, che l’abuso sessuale inevitabilmente coinvolge, devono prestare molta attenzione al lavoro di rete al fine di convogliare gli interventi in un’ottica integrata.

Il momento della rivelazione scatena emozioni molto forti nella persona che il minore sceglie per confidarsi e, proprio a causa del grande impatto emotivo, a volte il “confidente” tende a minimizzare l’attendibilità del racconto. L’indignazione profonda può portare alla negazione che queste atrocità possano essere messe in atto, perché non potendo accettarle si negano. L’atteggiamento corretto è quello dell’accoglienza: è necessario eliminare il sospetto allargando il proprio campo di osservazione. Il minore che decide di confidarsi ripone fiducia e un’aspettativa molto alta in chi lo ascolta, per lui è un momento critico e le sue rivelazioni devono essere tenute in considerazione per non deluderlo, ma si deve porre attenzione anche a una serie di indicatori comportamentali. Per poter fare questo i professionisti che più spesso sono coinvolti devono avere una preparazione adeguata a individuare e leggere i sintomi dell’abuso.

Uno dei contesti di osservazione privilegiata è senza dubbio la scuola. Il codice di procedura penale all’art. 331 enuncia la responsabilità dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio rispetto ai fatti di abuso su minori di cui possono venire a conoscenza. Quindi l’insegnante e il dirigente scolastico sono obbligati a segnalare il fatto all’autorità giudiziaria, con un impegno non solo morale, ma anche civile che se viene meno comporta delle conseguenze penali come previsto dagli artt. 361 e 362 del codice di procedura penale.

Affinché l’insegnante non rischi di oscillare tra deliri di onnipotenza, delusioni e indifferenza nei confronti del minore, è bene che la scuola sia inserita in una rete e che, in particolare, si instauri una collaborazione costante e intensa con i servizi sociali.

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Quando c’è la presunzione di un abuso sessuale o di un maltrattamento, la segnalazione deve essere fatta contestualmente alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario e al Tribunale per i Minorenni; quando si tratta di maltrattamento o grave trascuratezza la segnalazione deve essere fatta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni. La situazione ideale si verifica quando la segnalazione all’autorità giudiziaria è concordata con i servizi sociali.

I sintomi osservabili in questo contesto variano in funzione dell’età: se in età prescolare il minore può già verbalizzare in qualche modo l’abuso o il maltrattamento, mentre al nido gli insegnanti dovranno stare attenti a sintomi più fisici. In generale sono importanti tutti quei fattori comportamentali disfunzionali che mettono in atto strategie per ottenere attenzione, anche in maniera aggressiva. L’insegnante non deve incappare nell’errore di minimizzare, ma deve considerare la soluzione di questi problemi come prioritaria rispetto all’apprendimento, anzi come una sua condizione indispensabile; deve controllare il più possibile le sue reazioni emotive per non incorrere in un attivismo incontrollato o nella negazione, da un lato evitando gli interventi frettolosi e dall’altro garantendo maggiore tempestività e quindi efficacia; deve avviare uno scambio con i colleghi per un riscontro su più fronti a proposito degli indicatori di rischio rilevati; deve ricercare un confronto con esperti esterni alla scuola su aspetti sociali, medici, psicologici, giuridici correlabili all’abuso sessuale; “deve effettuare un monitoraggio delle situazioni a rischio senza escludere un possibile abuso sessuale in condizione di grave disagio del bambino”5.

La scuola è un luogo privilegiato non solo per l’osservazione dei bambini, ma anche della loro famiglia e si trova all’interno di una rete con cui deve continuare a confrontarsi.

5 A. Carini e AA., L’abuso sessuale intrafamiliare. Manuale di intervento, Milano, Raffaello Cortina

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Un’altra figura che, per la sua formazione culturale e professionale, assume una posizione centrale per poter cogliere i segnali di un abuso è il pediatra. Non solo si occupa dei problemi di salute del bambino, ma entra in contatto con i genitori, per cui spesso si rivela l’unico canale attraverso il quale la famiglia o il bambino stesso possono rivelare l’abuso, sia tramite una preoccupazione esplicita sia attraverso messaggi indiretti o mascherati, che però il medico può riuscire a riconoscere mettendosi quindi in stato di allerta.

“La storia naturale dell’abuso, come detto, tende alla cronicizzazione. Il bambino viene schiacciato dai sensi di colpa, paura di perdere affetti, ricatti, gratificazioni. Molto difficilmente troverà le risorse per verbalizzare l’inganno a cui è sottoposto, essendo pervaso da un marcato senso d’impotenza.

La modalità naturale attraverso cui esprime il suo grave disagio può, dunque essere la manifestazione sintomatica.[…] Un’esagerata attenzione per l’igiene intima, un eccesso di lavaggio dei genitali, in realtà, possono rappresentare lo stimolo per una precoce erotizzazione del corpo infantile. Anche richieste improprie da parte della madre di visite ripetute e ingiustificate a un figlio apparentemente sano, in particolare se attinenti i genitali, quasi a voler ottenere una certificazione di normalità, debbono insospettire il medico.[…] Tra le annotazioni più frequenti si descrivono cambiamenti di umore improvvisi, rabbia, aggressività, scatti d’ira, ma anche calo nel rendimento scolastico, isolamento, passività, disturbi depressivi, comportamenti autolesionistici, scarsa autostima, fobie, panico, disturbi del ritmo del sonno, incubi, disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia), abuso di sostanze, comportamenti antisociali, tentato suicidio. In altri casi potrebbero venire riferiti od osservati comportamenti sessualizzati, quando il bambino si esprime con parole o frasi, compie gesti o pratica giochi che presuppongono la dimestichezza con pratiche sessuali. La presenza di una o più note positive rispetto a questi dati anamnestici deve

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sollecitare il pediatra a tenere presente nel proseguo degli accertamenti l’ipotesi di abuso sessuale”6.

Nonostante sia difficile che le vittime di abuso sessuale presentino esplicite lesioni fisiche legate al trauma, la visita medica rimane determinante al fine dell’indagine. Va fatto il possibile per eseguire un accertamento medico, avvalendosi anche dell’aiuto di specialisti quali il dermatologo, il chirurgo, il ginecologo, per poter arrivare ad una diagnosi il più possibile precisa.

Sulla base di queste premesse il Committee on Child Abuse and Neglect dell’Accademia americana di Pediatria raccomanda che “La diagnosi di abuso sessuale è fondata sulla storia del bambino. L’esame fisico da solo è infrequentemente diagnostico in assenza di una storia e/o di specifici riscontri di laboratorio”7. Questo non per sminuire l’importanza della visita medica, ma per

sottolineare che da sola non è sufficiente.

Da un punto di vista operativo, durante la visita il dottore deve ottenere, in modo correlato all’età, il consenso dalla vittima. La visita deve essere generale, in modo da non porre attenzione alle sole parti genitali, contrariamente si potrebbe creare con estrema facilità un ulteriore trauma al minore: l’esame della zona genitale deve essere percepito come una tappa dell’esame complessivo.

È necessario fare il possibile per creare un legame di fiducia, affinché il minore si senta nella condizione di potersi aprire con il medico o quanto meno non viva un ulteriore trauma durante la visita medica. Inoltre il pediatra deve cercare di raccogliere informazioni significative al fine di poter stendere un rapporto completo all’autorità giudiziaria, integrandolo anche con il supporto degli specialisti.

La verifica dello stato di salute del bambino fa parte del processo terapeutico per restituirgli in primis l’integrità fisica.

6 Ivi, pp. 16-17

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Se invece il minore è già all’interno di una struttura protetta, la figura di riferimento, con cui più facilmente si confiderà, è l’educatore, in particolare le educatrici, in quanto statisticamente la quasi totalità degli abusi è perpetuata da uomini, quindi aprirsi e creare un legame di fiducia con una persona di sesso maschile si rivela più difficile. La prima strategia per far sì che il minore si senta rassicurato e in grado di poter raccontare la sua esperienza di abuso, consiste proprio nel creare un rapporto di fiducia reciproca. Questo clima si instaura partendo da un attento ascolto delle richieste di attenzione messe in atto, sia livello verbale che non verbale. Tra i sintomi più comuni si osserva la manifestazione di un comportamento altamente sessualizzato, sia da un punto di vista verbale che gestuale, e una condotta altamente aggressiva, sia con i coetanei che con gli adulti, indipendentemente dal ruolo che essi rivestono. La sessualizzazione si può manifestare nei modi più svariati e può essere rivolta sia verso se stessi (ad esempio attraverso una masturbazione compulsiva) sia verso gli altri (ad esempio attraverso l’esibizione dei genitali o del corpo). L’educatore deve essere non solo in grado di ascoltare e di accogliere, ma anche di contenere, per dare la sensazione di sicurezza e di protezione al minore: egli capirà che di fronte a sé ha una persona competente che è in grado di sostenere il suo vissuto disfunzionale.

L’esperienza ha fatto emergere che buona parte delle rivelazioni passano prima da discorsi più generali in terza persona, per poi arrivare a domande, anche personali, sulla vita sessuale delle educatrici e, solo quando si sentono accolti e non giudicati da questo punto di vista, le piccole vittime riescono dare voce ai loro vissuti.

È importante che il lavoro degli educatori sia inserito sempre in una rete integrata con gli altri operatori, affinché si attivi un intervento giudiziario che porti ad individuare il colpevole e a punirlo. Se non dovesse essere accolta la domanda di aiuto del minore, il sistema intero perderebbe di credibilità ed egli ne uscirebbe

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deluso, ancor più suscettibile di fronte alle ritorsioni dell’abusante e più vulnerabile rispetto a nuovi abusi, con effetti psicologici ovviamente devastanti. L’assistente sociale riveste un ruolo importante nelle situazioni d’abuso e, per la posizione che occupa, è ancora più importante che sappia gestire la propria sfera emotiva, per comportarsi con la professionalità che la situazione richiede, tenendo presente delle linee guida e degli indicatori di rischio che inquadrino la condizione pregiudizievole e il modo più adeguato per affrontarla.

La segnalazione raggiunge il servizio tramite canali diversi che possono essere telefonici, verbali o scritti. Nel caso di abuso o grave maltrattamento, la maggior parte di queste segnalazioni avviene in forma anonima, in correlazione con la paura per le ripercussioni personali derivanti dall’eventualità di minacce perpetrate dalla famiglia segnalata. Se già il timore di causare la distruzione di un’intera famiglia può far desistere dal denunciare, soprattutto in modo esplicito, perché il progetto di tutela, attraverso l’allontanamento del minore dal contesto familiare, di per sé non è condiviso dall’opinione pubblica, la paura per se stessi rappresenta un ulteriore deterrente.

Le segnalazioni più attendibili sono quelle che pervengono dagli insegnanti in quanto, come si è detto prima, la scuola è un’agenzia di socializzazione che entra in contatto con i bambini e la loro famiglia precocemente e ci resta per molti anni ed è quindi in grado di dare maggiori informazioni ai servizi sociali. L’assistente sociale deve comunque verificare l’attendibilità delle indicazioni che riceve e deve valutare il livello di gravità, cioè deve decidere se c’è il rischio che l’abuso sia ancora in atto o che si reiteri, in tal caso è necessario un allontanamento immediato del minore. Per fare questa operazione l’assistente sociale si avvale del suo bagaglio tecnico e delle risorse del territorio e deve quindi coltivare bene i suoi rapporti per creare una rete di servizi il più efficiente possibile. All’interno di questa rete l’assistente sociale si affianca ad altri operatori e condivide con essi il fardello che porta, non solo per avere più risorse a disposizione, ma anche per

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evitare di rimanere intrappolata in “invischiamenti” personali, in deliri di onnipotenza dovuti a uno stato di isolamento o in strategie di tamponamento, frequenti quando la famiglia è già conosciuta e seguita dai servizi. È quindi importantissimo condividere i propri dubbi con gli altri operatori, seguendo un’ottica interdisciplinare e un lavoro di rete.

Per la costruzione del progetto di tutela e affinché l’intervento diagnostico e terapeutico abbiano successo, l’assistente sociale si avvale dell’indagine sociale, uno strumento che serve per raccogliere informazioni sulla famiglia, sul contesto sociale, sulle relazioni che intercorrono tra la famiglia e il contesto sociale. Nella fase di raccolta delle informazioni è fondamentale la segretezza del sospetto abuso, per evitare che l’indagine portata avanti dalla polizia giudiziaria non venga compromessa. Ci sono diversi indicatori che fanno suonare il campanello d’allarme e sono correlati all’età, quindi alla capacità di verbalizzare o meno: perché un bambino piccolo non capisce immediatamente cosa gli stia accadendo e quale sia la portata del danno. Nel caso in cui invece riesca a verbalizzare l’accaduto e non venga creduto o non sia in grado di verbalizzare, il minore chiederà aiuto in un altro modo, ad esempio mettendo in atto comportamenti aggressivi. Esiste comunque una griglia degli indicatori, che vanno letti tenendo conto del contesto ambientale:

- Indicatori fisici primari: ferite e contusioni ai genitali, al seno, alle cosce; ferite anali, dilatazioni dell’ano, insufficiente tono sfinterico; presenza di liquido seminale sul corpo e sugli indumenti; infezioni o infiammazioni nella zona orale, genitale o anale; ferite alla bocca; gravidanza precoce; malattie sessualmente trasmissibili;

- Indicatori fisici secondari: difficoltà a camminare e a stare seduti; perdite vaginali e uretrali; dolori o pruriti nella zona genitale o anale; dolore nell’urinare; indumenti intimi lacerati o macchiati di sangue.

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- Indicatori comportamentali: comportamenti sessualizzati (conoscenze di tipo sessuale inadeguate all’età, comportamenti sessuali inadeguati, atteggiamento seduttivo e sessualizzato nei confronti di adulti, masturbazione eccessiva, disegni di organi genitali, imposizioni di pratiche sessuali a coetanei o a bambini di età inferiore, minori dediti a prostituzione e promiscuità sessuale, rivelazione spontanea e diretta di aver subito abuso sessuale); alterazioni del comportamento (rifiuto di spogliarsi nelle attività di ginnastica o nelle visite mediche, improvvisi cambiamenti d’umore e crisi di pianto, senso di vergogna, alterazioni delle abitudini alimentari, inadempienza scolastica frequente e ingiustificata, eccessiva permanenza nella scuola anche oltre l’orario di entrata e di uscita, cali improvvisi nel rendimento scolastico, fughe da casa, uso di sostanze stupefacenti e alcol); disturbi della sfera emotiva (relazioni negative tra pari, atteggiamenti provocatori e ribelli, isolamento sociale e incapacità a stabilire relazioni con i coetanei, autolesionismo, depressione, tentativi di suicidio); disturbi del carattere somatico (disturbi del sonno notturno, eccessiva sonnolenza durante il giorno, enuresi-diuresi, encopresi).

- Indicatori ambientali: denuncia di abuso da parte di un familiare; genitori separati o in via di separazione; conflitti tra genitori; eccessiva intimità fisica tra genitori e figli; isolamento sociale; relazioni carenti tra coniugi e tra parenti; storia pregressa di abuso sessuale in famiglia; abuso su fratelli/sorelle8.

Nel momento in cui l’assistente sociale sospetta l’abuso, a causa di informazioni avute da civili, ha l’obbligo di segnalazione in quanto pubblico ufficiale, così come il medico e l’insegnante. La denuncia deve essere trasmessa alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario quando il presunto abusante sia ritenuto maggiorenne, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni qualora l’abusante sia minorenne o alla Polizia Giudiziaria la quale provvederà a trasmettere la segnalazione alla Procura competente.

8 Ivi pp. 37-38.

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Nella relazione di segnalazione all’Autorità giudiziaria devono essere presenti gli elementi che hanno mosso il sospetto abuso, le informazioni sulla famiglia, un progetto di tutela e dovrebbe essere indicato anche un adulto di riferimento per il minore, valutato come protettivo e di sostegno per la vittima. A seguito di questa relazione il Giudice può disporre gli interventi di protezione sia per il minore che per eventuali fratelli o sorelle. A volte l’allontanamento può essere attuato prima dell’emissione del decreto del Tribunale, a seguito di dichiarazioni esplicite del minore o di segni evidenti di abuso, in conformità con l’art. 403 del c.c. il quale attribuisce all’assistente sociale dei poteri/doveri rispetto alle condizioni di urgenza. Una volta messo in protezione con modalità urgenti il minore, l’assistente sociale informa la Procura della Repubblica per i Minorenni della nuova collocazione, affinché possa essere emesso il provvedimento giudiziario di protezione e abbia luogo il provvedimento amministrativo urgente. Anche quando non ci siano le condizioni per fare una segnalazione specifica di abuso sessuale, l’assistente sociale è obbligato, per dovere professionale, a segnalare le situazioni di pregiudizio e maltrattamento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni.

Quando il sospetto abuso è intra-familiare il minore deve essere protetto dalla sua stessa famiglia (che quanto meno non è stata protettiva nei suoi confronti) e perciò dovrà essere inserito in una comunità che svolgerà il ruolo di ambiente familiare sostitutivo. Nello stesso momento devono essere presi provvedimenti dal punto di vista giudiziario. La segnalazione all’Autorità giudiziaria, che provvederà a far scattare le indagini, può avere tre modalità. Si può presentare denuncia alla Procura della Repubblica competente a seconda dell’età dell’indiziato (ordinario o per i Minorenni), alla Procura della Repubblica competente accompagnata dalla denuncia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni per i provvedimenti civili di protezione (in caso di trascuratezza o stato di abbandono), alla Procura della Repubblica per i Minorenni, anche se l’indiziato che ha compiuto l’abuso è maggiorenne, sapendo

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che questa trasmetterà la denuncia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario. Per evitare risposte tardive, sia nelle misure di protezione sia nelle indagini, la procedura più efficiente è la doppia segnalazione.

Quando l’assistente sociale valuta l’urgenza di attivare o meno una misura di protezione, deve connettere sia gli elementi pericolosità che circondano il bambino. La scala di Maslow9, elaborata nel 1973 riguardo i bisogni, ci fa capire

quanto sia importante l’intervento di protezione nel momento in cui il bambino viva in una situazione di insicurezza e pericolo, tale da minare il suo processo di sviluppo psichico. Secondo questa scala i bisogni seguono una gerarchia e solo dopo aver soddisfatto quelli primari si può fare lo stesso con quelli di ordine successivo; se un trauma, una malattia o qualunque altro evento provoca la deprivazione di un bisogno, questo diventa dominante e impedisce la percezione di quelli superiori. Al primo posto ci sono i bisogni fisiologici, di seguito il bisogno di sicurezza, di affetto, di appartenere a qualcuno, di stima, di gratificazione ripetuta, di autorealizzazione.

L’intervento di protezione deve quindi avere come obiettivo non solo quello di aiutare il minore a trovare la sua sicurezza, ma anche quello di dare il tempo e il sostegno alla figura genitoriale protettiva di risollevarsi e attivarsi come risorsa. È importante far sapere al bambino che gli operatori non si stanno occupando solo di lui, ma anche della sua famiglia e che fanno il possibile per recuperala, al fine di produrre un cambiamento significativo per ottenere il ricongiungimento. Solo dopo un certo tempo e dopo aver compreso che non può accadergli niente di male, il minore sarà in grado di iniziare a costruire un legame di fiducia.

La situazione di abuso sessuale, rispetto ad altri tipi di maltrattamento, segue regole particolari perché fin dal momento in cui sorge il sospetto, l’assistente sociale o comunque un altro professionista non possono parlare, pur muovendosi nel più breve tempo possibile. L’operatore deve congiuntamente valutare sia il

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ruolo dell’adulto considerato protettivo, se esiste, sia come questo possa essere sostenuto, in relazione ai problemi di vita quotidiana che lo possono investire. Ad esempio per una madre che vuole lasciare al marito, il carico economico può diventare insostenibile e di fronte all’eventualità di sfaldare il nucleo familiare e di non riuscire a sostenerlo autonomamente, può essere dissuasa dal prendere le parti del figlio. L’assistente sociale si dovrà occupare di reperire contributi economici, anche tramite il ricorso ad associazioni di volontariato e altri servizi, di trovare un lavoro, di cercare eventualmente una famiglia affidataria in affiancamento, di proteggere l’adulto insieme al minore in caso di minacce. In altri casi non è possibile coinvolgere la madre o altri familiari perché c’è il rischio che questi comunichino la posizione del minore al presunto abusante o che mettano pressione, minacciando il minore. In questa circostanza si applica l’art. 403 del c.c. che prevede l’allontanamento urgente.

Il Tribunale deve essere informato dal servizio minori di tutti i particolari al fine di non far risultare incongruenze tra la misura di protezione e ciò che richiedono le circostanze effettive.

È importante sottolineare ancora una volta che bisogna essere molto onesti, trasparenti e chiari con il minore riguardo a ciò che sta accadendo e che avverrà in relazione alle sue figure di attaccamento e quali saranno i ruoli del Giudice per i Minorenni e del Pubblico Ministero che si occuperanno del suo caso e del suo sostegno. Va inoltre esplicitato al bambino che non ci sono segreti tra gli operatori (assistenti sociali, psicologi, ecc.), i giudici, gli educatori e gli affidatari.

Dal punto di vista operativo la protezione deve rispondere a cinque quesiti:

- Quale sia la misura di protezione più giusta ipotizzabile per il bambino affinché si senta effettivamente protetto dalle persone che si occupano di lui

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- Se siano presenti adulti significativi per il minore in un’ottica dinamica e, se non lo sono in quel preciso momento, se siano in seguito recuperabili; - Se esistano risorse sul territorio: la comunità in queste circostanze risulta

essere la soluzione più idonea, ma se non fosse possibile questo tipo di inserimento si può optare per un affido familiare, mettendo in chiaro di che tipo di affido si tratta con gli affidatari (devono mantenere rapporto più distaccato a causa della temporaneità della misura e dell’incertezza sui risultati dell’indagine) e ricordando a questi che devono essere disposti a dedicare tempo ed energie non solo all’accudimento ma anche alle questioni processuali;

- La valutazione del rischio di ritorsione da parte dell’abusante o comunque da parte del circuito familiare per decidere sulla segretezza del luogo di collocamento;

- Sincerarsi che gli operatori della comunità o gli affidatari siano molto flessibili e disponibili negli spostamenti per accompagnare il bambino agli incontri con i servizi e alle sedute di psicoterapia, lavorando in coppia con gli assistenti sociali.

Per una reale protezione, tutti gli operatori che si occupano del minore devono essere consapevoli della fase in cui si sta operando. Ad esempio se il tribunale, in seguito alle valutazioni effettuate dai professionisti, decreta una prognosi negativa di recuperabilità, è sconsigliabile che il minore riceva doni da parte della famiglia naturale in quanto si sta avviando il processo verso il distacco. In ogni caso gli operatori devono avere sempre presente il duplice obiettivo di lavorare sul benessere del bambino e sulla raccolta degli elementi di valutazione da trasmettere al Tribunale per i Minorenni.

Sempre ai fini della protezione, gli incontri con la famiglia vanno monitorati affinché non passino messaggi di minaccia in codice che in qualche modo possano indurre il minore a ritrattare le accuse. Per questo motivo gli incontri

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vanno programmati in anticipo, il minore ne deve essere informato e deve essere preparato alle modalità di svolgimento.

Per un’efficiente tutela non si possono non considerare i rapporti con la scuola. Generalmente non è necessario che venga esplicitato il sospetto di abuso sessuale, ma si rivela indispensabile collaborare con gli insegnanti al fine di comprendere i comportamenti messi in atto del minore e verificare quali siano le competenze del bambino nell’apprendimento e nelle relazioni. La scuola svolge quindi la funzione di osservatorio delle problematiche messe in atto.

L’intervento di protezione è il primo passo per creare un rapporto di fiducia con i minore e restituirgli la sensazione di sicurezza, grazie al lavoro di equipe concertato e concentrato su di lui e la sua famiglia.

Dal punto di vista pratico è l’assistente sociale ad accompagnare il minore in comunità. Durante il tragitto gli spiegherà che il suo allontanamento è legato alla decisione di un Giudice e che questa misura si lega alla volontà di proteggerlo e allo stesso tempo di lavorare con la sua famiglia. Nonostante tutte le delucidazioni e rassicurazioni del caso, questo è sicuramente un momento di forte ansia. Ciò che si andrà a fare da questo momento in poi è cercare di costruire un legame significativo tra gli operatori e il minore. L’equipe prepara l’accoglienza ampliando il numero di operatori a disposizione per far fronte al bisogno di contenimento del minore e per dare supporto al gruppo che già risiede in comunità. Il nuovo ingresso infatti destabilizza gli equilibri che si sono precedentemente creati e i ruoli di gruppo si rimettono in gioco; gli operatori devono essere preparati a fronteggiare eventuali tensioni, regressioni ed alleanze. Per entrare in sintonia l’educatore accompagnerà il minore a fare un giro di visita della comunità (l’ingresso generalmente avviene quando gli altri ospiti non sono presenti in struttura, ad esempio quando sono a scuola) per prendere confidenza con gli spazi ed i locali. Per far sentire il minorenne più a suo agio si può allestire la camera da letto in modo confortevole, con giochi adeguati all’età, si possono

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esporre le attività che si svolgono in struttura, magari proponendo di farne qualcuna: più il bambino è piccolo più quello di cui ha bisogno è solo un ambiente tranquillizzante e contenitivo.

Normalmente il Giudice non autorizza contatti con il sospetto abusante, ma vengono consentite le visite con altri membri della famiglia. Gli incontri, come anticipato, devono essere strutturati e l’osservazione dell’operatore deve essere costante e vigile, per svolgere una funzione di controllo e per ricercare quali siano le risorse da poter attivare. Le visite all’interno della comunità acquisiscono quindi un valore rilevante all’interno del processo valutativo di recuperabilità. Gli operatori devono essere molto chiari con la famiglia rispetto al loro ruolo e alle regole che vigono rispetto agli incontri, come ad esempio il non poter parlare sotto voce, il non potere passare degli scritti, lettere e bigliettini, che non siano stati supervisionati prima. Deve essere chiaro che la trasgressione di queste regole comporta l’interruzione immediata della visita.

L’educatore deve avere la funzione di tramite tra il minore e la madre (è rarissimo che il genitore abusante sia la madre) riferendo le speranze e i desideri reciproci sulla possibilità di poter continuare una vita insieme, perché il genitore non abusante potrebbe essere diviso tra l’idea di affrontare un fallimento matrimoniale, il non essere stato in grado di proteggere il proprio figlio e il minimizzare gli eventi e allontanare la vittima. È importante che in questa situazione l’educatore appaia agli occhi del minorenne come fedele e coalizzato con lui, senza che questo atteggiamento si traduca in un rifiuto o in un’opposizione netta nei confronti del genitore. Per riuscirci deve trovare un setting interno, in quanto, al contrario degli assistenti sociali e degli psicologi, non ne ha uno strutturato a disposizione. Di fronte a comportamenti aggressivi e provocatori l’operatore di comunità deve trovare dentro di sé quella forza contenitiva che il minore chiede, deve disconfermare l’idea negativa che egli ha di sé, che deriva dalla proiezione e dall’identificazione che viene fatta con

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l’aggressore: l’operatore quindi deve sempre mettersi in un’ottica di ascolto empatico e al contempo di contenimento.

Le vittime di abuso sessuale frequentemente rimettono in atto il trauma vissuto invertendo i ruoli, cioè sono seduttivi verso gli altri ospiti della struttura o verso gli operatori. Questa dinamica è deleteria sia per chi la mette in atto, perché conferma l’idea negative di sé (sono il carnefice), sia per chi la subisce, perché ripropone il trauma (non sono al sicuro): gli operatori devono quindi essere molto vigili affinché non si verifichino questi episodi.

Al minore non interessa che la comunità protegga i bambini buoni e aperti, ma che abbia intenzione di proteggere anche chi è aggressivo e provocatorio. Una risposta dell’operatore non aggressiva e comunque congruente è l’unico modo per spiazzarlo e far sì che riesca a fidarsi di nuovo di un adulto.

1.1.3 Il processo penale minorile

Il principale riferimento legislativo che disciplina il processo penale a carico di imputati minorenni è il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n.448. Il D.P.R. che disciplina il procedimento in modo che sia adeguato alle esigenze educative e alla personalità del minore. È tenendo presente l’interesse primario di salvaguardare i diritti soggettivi del minore, che il Giudice gli mostra il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza, nonché il contenuto e le ragioni, anche etiche sociali, delle sue decisioni (art.1), avviando quel processo di responsabilizzazione ed educazione necessario a interrompere quello che potrebbe essere l’inizio di una carriera deviante.

Seguendo questa direzione, il Decreto assicura l’assistenza affettiva e psicologica in ogni stadio e grado del procedimento attraverso la presenza dei genitori o di un’altra persona idonea, indicata dal minore e ammessa dall’autorità giudiziaria. In ogni caso viene garantita l’assistenza dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali. Inoltre sono

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vietate la pubblicazione e la divulgazione, con qualsiasi mezzo, di notizie o immagini che permettano di identificare il minore.

L’allegato 4 alla Circolare del Capo Dipartimento n. 1 del 18 marzo 2013: “Modello d’intervento e revisione dell’organizzazione e dell’operatività del Sistema dei servizi minorili della Giustizia” al punto 2 “Il ricorso al collocamento in comunità” dispone:

“Nelle Comunità si assicura l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria nei confronti dei minorenni autori di reato nelle seguenti ipotesi:

- Arresto o fermo ai sensi dell’art.18 comma 2, D.P.R. 448/88; - Accompagnamento ai sensi dell’art 18 bis, D.P.R. 448/88;

- Applicazione della misura cautelare del collocamento in comunità ai sensi dell’art.22, D.P.R. 448/88;

- Gravi e ripetute violazioni degli obblighi imposti dall’Autorità giudiziaria nell’ambito della misura cautelare della permanenza in casa ai sensi dell’art.21, comma 5, D.P.R. 448/88;

- Applicazione della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario, ai sensi degli artt.36 e 37 del D.P.R. 448/88.

L’autorità giudiziaria, inoltre, può disporre che l’esecuzione avvenga in comunità nei seguenti casi:

- Sospensione del processo e messa alla prova, art.28 comma 2 D.P.R. 448/88;

- Affidamento in prova al Servizio Sociale ai sensi dell’art. 47 e 47 bis Legge n. 354/75 (Ordinamento Penitenziario);

- Detenzione domiciliare di persona di età inferiore agli anni 21 per comprovate esigenze si salute, di studio, di lavoro e di famiglia, art 47 ter Legge 354/75 (Ordinamento Penitenziario).

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In questi ultimi casi, sebbene non previsto esplicitamente dalla norma, l’Autorità Giudiziaria può disporre che il minorenne soggiorni all’interno di una comunità. Il collocamento avviene in presenza di condizioni di rischio o di accertato pregiudizio del minore, in assenza di riferimenti parentali (minore straniero non accompagnato), in particolari condizioni di salute del minore (comunità terapeutica per il trattamento della dipendenza da sostanze o per disturbi di tipo psichiatrico)”.

L’art. 10, comma 2 del Decreto legislativo 28 luglio n.272 – “Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del D.P.R. 448/88” invece regola l’organizzazione e la gestione delle Comunità.

Esse devono rispondere ai seguenti criteri: - Organizzazione di tipo familiare;

- Presenza di operatori con professionalità riconosciuta; - Presenza di minori non sottoposti a provvedimento penale; - Capienza massima 10 unità;

- Attuazione di progetti educativi individualizzati (PEI); - Utilizzo delle risorse del territorio.

1.1.3.1 Misure cautelari

In caso di arresto o di fermo di un minorenne, all’ art.18 del D.P.R. 448/1988 si dispone che:

“Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che lo hanno eseguito devono darne immediatamente notizia al pubblico ministero, all’esercente la potestà genitoriale e all’eventuale affidatario e informano tempestivamente i servizi minorili dell’amministrazione della giustizia. Appena pervenuta la notizia, il pubblico ministero dispone che il minore sia senza ritardo condotto presso un centro di prima accoglienza o presso una comunità pubblica o autorizzata che provvede a indicare. Qualora, tenuto conto delle modalità del fatto, dell’età e

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