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LE PRIORITÀ PER LA RICERCA INFERMIERISTICA

Nel documento XXVIII CONGRESSO NAZIONALE ANIARTI (pagine 125-132)

M. CASATI

Responsabile Ricerca, Formazione e Sviluppo - Direzione delle Professioni Sanitarie Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo

fenomeni di interesse sono legati a situazioni di criticità, la complessità di let-tura si amplifica.

Siamo figli del nostro tempo e dell’epistemologia: è scientifico un approc-cio che fa delle affermazioni finché queste non vengono confutate. Si sottoli-nea l’importanza della lettura dei fatti attraverso la chiave della verosimiglian-za: «tutti i cigni sono bianchi, finché qualcuno non incontra dei cigni neri»;

tutte le informazioni scientifiche sono da prendersi con la consapevolezza che sono vere, finché non vengono confutate. Vanno quindi abbracciate con pru-denza a beneficio del dubbio che deve rimanere sullo sfondo.

Parlando di ricerca e di attività scientifiche è necessario ribadire questo sfondo, perché è molto pericoloso affidarsi totalmente alle informazioni che derivano dalla ricerca.

Siamo anche figli dell’evidence based medicine/nursing/practice. Dal 2005 si parla di evidence based practice indicando quella metodologia utile e idonea a tutte le discipline di natura sanitaria e sociale, che nell’assumere decisioni, considerano vari aspetti: l’evidenza provenienti dalla ricerca, l’esperienza clini-ca, le risorse disponibili e le preferenze dei pazienti.

Quindi anche le decisioni basate sull’evidenza chiedono di considerare più sfaccettature. C’è stata una prima fase dell’evidence based, negli anni ’90, in cui fu abbracciata questa metodologia in modo acritico, in modo fideistico, assolu-tamente pericoloso.

È del 2005 il manifesto dell’evidence based practice: è importante sottoli-neare questo perché significa utilizzare una metodologia che non è di una di-sciplina, ma dell’ambito scientifico, dove si parte da un quesito, si cercano le evidenze, si valutano le informazioni, le prove e le pubblicazioni, si applicano i risultati nella pratica clinica, e, in quinta fase, che è stata aggiunta o meglio scorporata dall’EBM, il monitoraggio o sorveglianza dei risultati, senza la qua-le, l’efficacia delle altre fasi sarebbero indebolite.

La cosa interessante è che il quesito parte dall’ambito clinico, dal singolo paziente, dall’infermiere, che è a diretto contatto con la persona assistita e, attraverso un percorso metodologico assolutamente impegnativo per tanti ver-si, si può arrivare ad applicarlo al paziente.

L’EBP è una metodologia che nasce in ambito clinico e trova in esso la sua applicazione.

Straordinariamente importante dopo la fase del quesito è la ricerca biblio-grafica, che rispetto a 15-20 anni fa, ci offre una serie di possibilità per rispon-dere meglio a questa formula, tale per cui la ricerca bibliografica non deve garantire il numero maggiore di pubblicazioni sull’argomento o sul quesito di interesse, ma deve portarci l’informazione più utile.

L’informazione più utile è quella che ha la maggiore rilevanza e validità con il minore tempo impiegato per poterla raggiungere.

È cambiato il paradigma di un tempo in cui bisognava considerare tutto il pubblicato: bisogna considerare il pubblicato che in modo più utile fornisca le informazioni al quesito di domanda. È cambiato il panorama editoriale: se un tempo si andava a ricercare pubblicazioni o singoli studi ora si ricercano

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sioni sistematiche della letteratura, linee guida o sistemi di sinossi delle infor-mazioni. Tutta questa letteratura che viene definita globalmente secondaria, include categorie definibili secondarie, terziarie e quaternarie, che sintetizza-no articoli originali e quindi la migliore informazione della letteratura prima-ria, rielaborata, masticata, sintetizzata nel minor tempo possibile.

È un percorso ampiamente iniziato che continuerà in futuro: è come dire rendere le informazioni più vicine a chi le deve utilizzare nelle proprie decisio-ni e non chiedere al clidecisio-nico di mappare tutto l’esistente rispetto alla sua pratica.

Si è sviluppato tutto il percorso dell’EBP, in cui ogni disegno di studio porta un peso di evidenze diverso a seconda dell’affidabilità della relazione causa-effet-to che andiamo a cercare in ogni studio, quindi la capacità di leggere in prospet-tiva, di prevedibilità degli esiti degli atti che andiamo facendo, ricordando però che ogni ricerca (questo è un limite) è soggetta a dei bias, delle distorsioni, ogni riferimento bibliografico ha la capacità di dare informazioni che noi interpretia-mo in interpretia-modo distorto rispetto al dato effettivamente presente.

Già nel 1979 Saket classificò i tipi di bias possibili in uno studio clinico e sono veramente numerosi. In ogni tipo di bias ci sono sottocategorie: vuol dire che quando prendiamo una pubblicazione rischiamo di fraintendere o capire male e sbagliare se non siamo particolarmente attenti all’aspetto metodologico e concettuale della ricerca.

Andiamo sempre più cercando negli studi metodologie che ci garantiscono l’abbattimento di questo bias. Negli studi sperimentali e negli RCT uno degli aspetti metodologici che diminuisce il numero di bias è sicuramente la rando-mizzazione e la cecità: per abbattere quello che il caso o l’influenza umana possono portare sullo studio.

Spesso, nei limiti della ricerca, ci troviamo in assenza di evidenze. Andia-mo cercando evidenze e abbiaAndia-mo invece l’evidenza dell’assenza dell’evidenza;

andiamo a cercare risposte dei quesiti clinici e in letteratura non troviamo nul-la: ci sono argomenti completamente orfani, sui cui è chiaro che la consuetudi-ne, il buon senso, la sostenibilità, l’accettazione da parte del paziente, l’osserva-zione, ci danno il feed back quotidiano che hanno sempre governato le nostre decisioni.

Il meta data base(che ha come critica la decisione di togliere una serie di questioni che riguardano l’Europa) è un luogo informatico virtuale dove noi in-serendo gratuitamente parole chiave (in inglese) abbiamo un ritorno della lette-ratura su tutte le pubblicazioni che possiamo trovare che ci facilitano le informa-zioni che cerchiamo nel minor tempo possibile o meglio minor lavoro possibile.

Quando andiamo su questo meta data base free (gratuito, con un numero illimitato di interrogazioni) che lavora su siti che pubblicano linee guida o revi-sioni sistematiche o sinossi e fa in algoritmo ricerca su data base primari (pub-med), noi abbiamo in un modo velocissimo l’interrogazione delle principali banche dati del mondo di revisioni sistematiche e linee guida.

È stato studiato anche l’affidabilità di questo data base attraverso delle tesi, e viene raccomandato come il modo più veloce, semplice, facile e gratuito per avere documenti scientifici. Perché quando si entra in questo data base non

si ha solo la risposta di quali sono i prodotti editoriali disponibili sull’argomento (le parole chiave giocano un ruolo fondamentale, pertanto è necessario siano prima verificate nel Tesaurus Mesh di Medline), ma anche con un linguaggio libero si ha una risposta molto affidabile sulla disponibilità della letteratura.

Abbatte in un modo impressionante il tempo-lavoro per trovare della lette-ratura nei migliori data base del mondo.

Peraltro ci da in link il documento che possiamo prendere gratuitamente.

Questo meta data base è consigliato semplicemente perché abbatte i limiti del-l’interrogazione singola da parte del singolo soggetto, dei singoli data base con le singole diverse interfacce: non solo un problema di tempo ma anche di affi-dabilità della ricerca, quindi i limiti della ricerca bibliografica possono essere presidiati, gestiti al meglio con l’utilizzo di questo meta data base.

Altro elemento di criticità, di debolezza e di limite della ricerca è che spesso troviamo prodotti editoriali che non sono di qualità affidabile. Da tempo ormai è necessario, quando si reperiscono questi documenti (linee guida, revisioni siste-matiche o singoli studi sperimentali di coorte, caso controllo o osservazionali) che una volta individuati, vengano letti in modo critico, valutandone la bontà metodologica: alcune griglie/check-list attualmente utilizzate sono consolidate (l’Agree ne è un esempio). Sono importanti perché molti prodotti editoriali pre-sentano dei limiti metodologici che inficiano l’affidabilità delle informazioni.

Quarta e quinta fase dell’EBP: applicare in sede le informazioni derivanti dalla ricerca. Un conto è sapere, un conto è applicare: tutti noi sappiamo che le cose devono essere fatte in un certo modo, ma per tante questioni, che spesso non sono legate alla volontà (ma a vincoli, valori, conoscenze, motivazioni og-gettive, sogog-gettive, individuali, collettive) si creano situazioni tali per cui il mio comportamento clinico- assistenziale può essere diverso da quello che la lette-ratura raccomanda.

Pertanto ci si deve porre l’opportuno quesito, trovare le informazioni giuste:

ma quando queste informazioni trovate in modo corretto senza bias arrivano ad essere disponibili, non è detto che queste arrivino effettivamente al paziente.

Il processo di integrazione dei risultati nella pratica, presenta tantissimi limiti, di natura individuale, collettiva, organizzativa, culturale.

Questi limiti vanno accuratamente osservati e presidiati.

Chi vuole applicare le evidenze scientifiche nella pratica deve guidare que-sto percorso, nella clinica di tutti i giorni, ma l’organizzazione lo deve guidare nelle sue funzioni manageriali e di formazione.

Il processo di implementazione è il risultato che avviene quando c’è una sinergia fra aspetti formativi- culturali-organizzativi e clinico- assistenziali.

Spesso guidare questo processo è un’avventura, perché bisogna lavorare sugli aspetti organizzativi più quotidiani, entrare nel merito di quello che fan-no le persone: abbiamo strategie a supporto di un’implementazione dell’evi-denze scientifiche, ci sono interventi che nell’insieme possono facilitare l’inse-rimento dei risultati della ricerca nella pratica, ma il passaggio da «general-mente efficace», a «qualche volta efficace», a «poco o nessuna efficacia» è da considerare con attenzione.

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La letteratura degli ultimi anni sottolinea come ci deve essere un fortissi-mo investimento da parte della leadership aziendale, da parte dell’organizza-zione, perché senza questo tipo di contesto, il clinico (infermiere o medico che sia) fa molta fatica ad applicare le evidenze scientifiche.

Èimportante lavorare sull’implementazione dell’evidence based, ma anco-ra più importante è che ci sia sinergia tanco-ra più ambienti: chi lavoanco-ra senza inte-grarsi, senza coordinare gli sforzi, senza ottimizzare il grande patrimonio che abbiamo a disposizione non può raggiungere un buon obiettivo.

Nella nostra realtà attuale, si sta notando una collaborazione, quindi non siamo in una situazione ferma, ma in movimento: tutto ciò è positivo e facilita l’incontro tra il clinico, la letteratura e la persona assistita.

L’attività di ricerca è implicito nell’agire professionale.

Una riflessione in conclusione: se è vero che l’arte è vasta, dobbiamo rico-noscere al collega le specializzazioni, la competenza specialistica, chi è compe-tente da un punto di vista clinico, chi da un punto di vista organizzativo, chi nella formazione.

Dobbiamo essere in grado di sviluppare al massimo quel principio di affi-damento al collega, di riconoscimento delle competenze, perché non tutti gli infermieri possono fare gli esperti clinici, non tutti gli infermieri possono fare gli esperti di organizzazione: ognuno ha il proprio campo e lì diventa esperto.

In ricerca ci devono essere il riconoscimento che tutti dobbiamo avere del-le competenze: queldel-le di usare al meglio la del-letteratura scientifica, di progettare delle ricerche, di gestire dei progetti di ricerca. Tutto ciò richiede competenze ad alti livelli professionali: si deve riconoscer come sia necessario avere delle formazioni ad hoc, per poter fare attività particolarmente specialistiche.

Questa responsabilità rispetto alla ricerca è centrale da parte della profes-sione.

In Italia abbiamo anche un problema storico che è quello di non avere una codifica linguistica unica: non abbiamo un unico linguaggio controllato, non abbiamo delle tassonomie che ci permettono di controllarci; da italiani abbia-mo un patriabbia-monio incredibile, un numero impressionante di abbia-modelli, termini, algoritmi, item, scale, check-list, una serie n si cose, modelli completi o parte di modelli.

La professione deve porsi il problema di adottare un vocabolario controlla-to in modo che ci si possa intendere sempre più su quello che studiamo, che registriamo.

Questa è una proposta che arriva dall’ambito internazionale: il Nanda, il Nic e Noc ci aiutano con una pantassonomia 3n ad avere un panorama di clas-sificazione unico. Ci servirebbe, tuttavia, quello che viene chiamato Nursing Minimum Data Set che in Belgio esiste da vari anni e che in Italia non c’è.

Abbiamo tanta ricchezza ma non abbiamo un minimo comune denomina-tore con cui andiamo a guardare i pazienti. Forse nell’area critica esistono il Nems e Nas, ma in generale la professione non ha una sua codifica unica e minima del paziente, a livello nazionale. Quindi non riusciamo ad usare lo stesso linguaggio per la stessa situazione.

È invece importante documentare con un linguaggio controllato, conside-rare l’opportunità dell’informatica un’evoluzione straordinaria per creare flus-si informativi di grande rilevanza per l’attività clinica, ma anche per la ricerca, la formazione e il management.

Fare lo sforzo di associare l’assistenza ai DRG che nascono già comprensi-vi dell’assistenza.

Dobbiamo lavorare in questo senso perché i DRG sono la strada assoluta-mente consolidata.

Dobbiamo studiare il livello di conformità tra gli interventi pianificati, ef-fettuati e registrati con indicazioni scientifiche più recenti: su questo abbiamo grandi limiti operativi e organizzativi.

Dobbiamo percorrere quello che la letteratura internazionale ci consiglia:

l’adozione di percorsi clinici in cui andiamo a studiare le varianze tra quello che facciamo e quello che andrebbe fatto.

Le priorità: potenziare lo studio dell’efficacia di quello che facciamo, ma anche dei rischi e degli effetti collaterali che sono impressionanti.

I pochi studi che sono stati analizzati su questo argomento ci danno degli

«allert»: attenzione a quello che si fa perché spesso non danno beneficio, ma anzi creano danno al paziente.

Nonché della funzione assistenziale infermieristica di tutela al paziente critico: potenziare lo studio di quanto gli infermieri sviluppano attitudine nei confronti del paziente soprattutto quelli critici.

Ricordare che spesso noi garantiamo ai pazienti i problemi durante la de-genza più grossi di quelli che portano con loro, perché gli ospedali sappiamo essere ambienti molto pericolosi. Recuperando le parole di Florence, si deve lavorare su questo aspetto che a tutt’oggi non risulta essere totalmente presi-diato, anzi il rischio a cui esponiamo il paziente è ancora inaccettabile.

I limiti degli infermieri sono quelli di pubblicare con fatica, con metodolo-gia debole, ma anche quello di non avere ancora messo a punto tanti sforzi su questo: bisogna capire dove arriva la nostra autonomia e lavorare sulla ricerca collaborativa, dobbiamo essere autori di orientamenti dell’architettura del si-stema informativo- clinico, che deve essere coerente con l’ambito decisionale, professionale e gestionale.

Bisogna studiare i nostri vissuti e l’impatto di questi sulla nostra vita pro-fessionale, familiare e personale.

Nonché studiare i vissuti della persona.

In conclusione le priorità che si rendono necessarie sono:

– presidiare i pre-requisiti professionali per l’esercizio della funzione di ricerca già dalla formazione di base;

– dare informazioni scientifiche disponibili in modo facile, fruibili, ma an-che affidabile perché oggi c’è in giro molta letteratura an-che è pericolosa;

– definire aree di nuove conoscenze con l’approccio dell’analisi del geno-ma e di tutto quello che sta succedendo: non dobbiamo più lavorare per stan-dardizzazione ma per personalizzazione.

Le priorità sono di lavorare sulla metodologia di produzione delle nuove

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conoscenze, utilizzare un linguaggio controllato e lavorare parecchio, darsi un grande slancio sulla questione di che cosa sono gli indicatori di esito e quali sono gli indicatori di processo.

Siamo piccoli davanti alle difficoltà dei fenomeni che ci circondano so-prattutto quando questi si sviluppano in contesti critici, con pazienti critici con relazioni critiche dove è evidente che le decisioni sono di conseguenza critiche.

La formazione infermieristica di base ha iniziato il suo processo di cam-biamento con l’istituzione del diploma universitario in scienze infermieristiche nel 1990, per arrivare alla laurea di primo livello.

Questo ha portato gli infermieri (seppure abilitati all’esercizio della profes-sione) a sviluppare contenuti teorici non sempre in maniera simile: anzi nella gran parte dei casi le persone hanno avuto in università una formazione diso-mogenea.

Infatti il Decreto Ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999 «Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei» sancisce l’auto-nomia universitaria, e pertanto la possibilità di definire programmi diversi, pur rilasciando un titolo abilitante. Obiettivo della laurea di primo livello, (abili-tante l’esercizio della professione) è quello di assicurare allo studente un’ade-guata padronanza di metodi e contenuti scientifici generali, nonché l’acquisi-zione di specifiche conoscenze professionali, garantendo 180 crediti formativi all’anno. Questo è importante per la lettura dei dati seguenti.

Nell’anno accademico 2009-2010, ci sono 40 corsi di laurea nelle diverse università italiane; sono presenti 218 sedi di corso pari a 15.919 immatricolati.

Se questo numero viene riportato nei 3 anni si hanno circa 50 infermieri (o potenziali tali) iscritti in università.

Se si analizza il contenuto teorico di alcune università e quindi il settore scientifico-disciplinare MED 45 (scienze infermieristiche- generali- cliniche-pediatriche, così chiamato ma ancora in corso di modifica), prendendo un cam-pione del nord, del sud e del centro, si può vedere che ci sono università che hanno 47 crediti (escluso il tirocinio clinico - pratico nei tre anni), contro uni-versità che ne attribuiscono 15,5.

Se si entra nello specifico dei tre anni di corso, risalta come la distribuzio-ne dei crediti delle scienze infermieristiche e della disciplina professionaliz-zante dei corsi di laurea, varia moltissimo, così come variano i crediti che sono dedicati al tirocinio delle varie università: da 47 a 88. Se poi si mettono insieme nei tre anni di corso i crediti formativi di scienze infermieristiche si passa da 111,5 a 72,5.

La variabilità dei crediti formativi è anche riferibile a tutte quelle scienze cosiddette propedeutiche affini, e quindi non specificatamente disciplinari, che nel corso di base variano moltissimo: da 1,6 a 8,5; nelle scienze biomediche da 11 a 17; per le scienze infermieristiche da 24 a 96.

L’offerta formativa dei diversi atenei è molto diversificata, e così per tutte le aree che sono previste nel percorso di base.

Nel documento XXVIII CONGRESSO NAZIONALE ANIARTI (pagine 125-132)