B. MANGIACAVALLI
Segretaria FNC IPASVI
nel sistema sanitario nazionale è la medicina del territorio, è la medicina della continuità, la medicina delle fragilità, la medicina di iniziativa.
Ogni regione ha dato un nome diverso, ma, per semplificare, è tutto ciò che è fuori dell’ospedale, è tutto ciò che non è approccio alla patologia acuta.
L’ospedale dovrebbe diventare centro di riferimento per l’eccellenza clini-ca e per l’urgenza e poi decentrare sul territorio verso un sistema di Hub &
Spoke: tutta la medicina legata alla fragilità e alla disabilità, all’invecchiamen-to e alla lungo-degenza, alla cronicizzazione.
C’è una crescita delle aspettative della popolazione con la tendenza a ri-vendicare i diritti reali e presunti: si pensi a tutti i dibattiti e le riflessioni che ci sono rispetto a tutte le prestazioni sanitarie che sono state escluse dai LEA, o che si tenta di escludere dai LEA. Quanto il bisogno di salute sta sconfinando sempre più verso un bisogno di benessere: sono tutti elementi in un contesto che devono essere tenuti in considerazione soprattutto perché c’è un vincolo finanziario entro cui tutti noi professionisti ci dobbiamo muovere.
E se è vero che abbiamo un vincolo finanziario, è anche vero che il bisogno di salute emergente, non emergente, manifesto, solidato, potrebbe essere infi-nito. L’impegno e la responsabilità etica che viene richiesta a tutti i gruppi pro-fessionali hanno un modo di ragionare sull’evidenze scientifiche che sono sot-tese alle prestazioni sanitarie.
In questo contesto viene bene il collegamento con la relazione di Monica Casati, perché di fatto la riflessione che tutti i professionisti devono in qualche modo approfondire e fare quotidianamente, è quello di interrogarsi sull’evi-denza scientifica, sul substrato scientifico, sulla validità oggettiva delle presta-zioni sanitarie che noi stiamo andando ad erogare.
Se noi entriamo da protagonisti in queste riflessioni rispetto alla gestione e al monitoraggio del bisogno di salute, rispetto alla definizione di bisogno prio-ritario di salute, portando la nostra riflessione critica sull’esperienza e sulle conoscenze scientifiche, facendo diventare modalità operativa quotidiana l’evi-dence based practice, probabilmente riusciremmo a contenere questo crescen-te disagio rispetto alla sensazione di non rispondere ai bisogni di salucrescen-te della popolazione.
Questo è il contesto entro cui ci muoviamo.
Analizzando meglio il quesito iniziale, decliniamo queste tre questioni.
Questione strategica: la necessità di un cambiamento. Quale cambiamen-to? La federazione infermieri da un po’ di tempo sostiene che il sistema sanita-rio nazionale così impostato, in un arco di tempo medio (non si sa se medio-lungo o medio- breve) non è più sostenibile economicamente. Il perché è asso-lutamente evidente a tutti: non sono più sostenibili i costi legati ad un modello organizzativo (chiamato tipicamente per funzioni), impostato sulla tradizione di unità operative cliniche, strutture complesse cliniche, dove il principio di aggregazione dei pazienti è la disciplina clinica di riferimento: all’interno di esso ci sono svariate patologie cliniche, svariati livelli di complessità della per-sona assistita, svariati livelli di intensità di cura della perper-sona assistita.
In un termine, sostanzialmente, diventa un contenitore poco appropriato,
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poco efficiente e poco efficace. Molto dispendioso economicamente: e questo è sotto agli occhi di tutti.
Per questa problematica, la presidente del collegio degli infermieri è già intervenuta ed è una delle sue riflessioni principali che questo processo di cam-biamento si è «coagulato» sul tavolo del comitato centrale: questo modello or-ganizzativo tradizionale comporta un «consumo» di risorse professionale, so-prattutto infermieristiche, legate al fatto che in ogni caso se vi è un reparto altamente specialistico, devo comunque garantire degli standard assistenziali, se non altro minimi, per la sicurezza delle persone assistite, oltre a quella degli operatori. Non è detto che questi standard numerici si portino continuamente dietro un mantenimento della competenza professionale tale per poter affron-tare tutte le situazioni cliniche che si presentano.
Non solo ma di contro ho strutture, unità operative e servizi che trabocca-no di pazienti perché sotrabocca-no quelle maggiormente ricettive e utilizzate per i rico-veri d’urgenza, per le situazioni critiche e per le situazioni particolari: notoria-mente le unità operative di medicina interna.
Continuare a insistere su questo modello organizzativo riteniamo sia di-spendioso e non più sostenibile.
Si è iniziato a ragionare sulla necessità di provare ad approcciarsi al siste-ma sanitario nazionale con una nuova cultura organizzativa, un nuovo approc-cio organizzativo e un nuovo modello di riferimento che prevede un’aggrega-zione dei pazienti non più basato sul criterio della complessità, della disciplina clinica, ma basato sul criterio di complessità assistenziale; perché riteniamo che dentro a questo modello organizzativo si possono andare a connotare dei modelli assistenziali che tengono in maggiore evidenza, in considerazione e valorizzano le competenze specialistiche e generaliste dell’infermiere, ma so-prattutto è un modello che risponde in maniera più appropriata anche al ri-chiamo sull’appropriatezza dell’uso delle risorse economiche che ci viene fatto come professionisti sanitari e risponde in maniera appropriata a quella neces-sità di competenza di cui il cittadino ha bisogno.
Se non dobbiamo perdere di vista il fatto che lavoriamo per il cittadino, l’infermiere è l’agente morale della persona assistita, colui che risponde etica-mente e moraletica-mente della persona assistita, dobbiamo proporre dei modelli organizzativi dove le risorse professionali vengono orientate in maniera appro-priata rispetto al bisogno.
Il principio su cui si basa il modello per complessità assistenziale, la strut-turazione di un équipe sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo che tenga conto del livello della complessità assistenziale della persona, si possono fare delle progettazioni legate al mix di infermieri e operatori di supporto ri-spetto al livello di complessità della persona assistita: ovviamente più si alza la complessità assistenziale più l’équipe deve essere connotata da competenze specialistiche oltre che disciplinari importanti; più la complessità assistenziale si riduce più l’équipe assistenziale può essere anche connotata prevalentemen-te da operatori che garantiscono un’assisprevalentemen-tenza di base, sostanzialmenprevalentemen-te con la necessità di poche attività specialistiche, poca attività di tipo critico-intensivo.
Questo comporta un altro ragionamento che riguarda la questione orga-nizzativa, il capitale umano, il capitale intangibile su cui dobbiamo lavorare che sono gli infermieri.
La riflessione che tutti noi dobbiamo fare è: «se dovessimo passare a que-sto modello organizzativo, siamo pronti rispetto alle nostre competenze?».
Cambiare modello organizzativo significa cambiare l’approccio mentale al-l’assistenza infermieristica, la presa in carico, il processo di cura e assistenza, perché a questo punto ci si trova a dover dominare un patrimonio di conoscenza e competenza infermieristica che non è quello tradizionale, consolidato a cui si è abituati nelle unità operativa. Significa dominare un processo decisionale che non ha più come agente di riferimento la patologia clinica, ma la manifestazione del bisogno di assistenza infermieristica correlata alla complessità della persona assistita, che può trarre origine da un problema clinico diverso.
In questo modello organizzativo dovremmo andare a riconfigurare la que-stione tecnica, a riconfigurare tutto il sistema professionale infermieristico ita-liano sul principio dei modelli di competenza dei profili.
Come si compone l’équipe assistenziale una volta stabilito quali sono i li-velli di complessità della persona?
Sulla base dei profili di competenza. Si deve dire che i profili di competen-za in Italia potrebbero essere 377.000, come gli infermieri italiani, perché il profilo di competenza è dato da quello che ognuno di noi come professionista ha fatto proprio: la propria cassetta degli attrezzi.
Dentro a questa cassetta degli attrezzi ci sono le conoscenze acquisite nel percorso di base, in tutti i percorsi specialistici, la competenza consolidata con l’ esercizio professionale, le abilità, tutto quello che è essere professionista.
Il mio percorso formativo, la mia attività clinica, assistenziale quotidiana, la mia esperienza professionale rivista criticamente sottoposta a revisione ed a analisi diventa quello che io metto in campo e va a comporre quello che è il mio profilo di competenza.
Se si deve iniziare a riprogettare l’organizzazione di un gruppo professio-nale, saltano una serie di logiche consolidate: vuol dire che si devono banal-mente cambiare molte regole di governo scritte nei contratti di lavoro, a volte definite con procedure e protocolli aziendali.
Banalmente, i principi su cui si basano la mobilità interna del personale:
perché la maggior parte dei processi di gestione delle risorse umane all’interno delle aziende pubbliche sono governati da elementi normativi e contrattuali abbastanza rigidi perché previsti dalla norma, ma vanno a valorizzare altri ele-menti quali i profili di competenza e i bilanci di competenza portfolio. Perso-nalmente non sono a conoscenza di procedure di assegnazione di personale di mobilità interna che partono da questo presupposto, almeno sui professionisti.
Le correlazioni dentro le istituzioni sanitarie sono assolutamente impor-tanti, profonde, forti, a volte consolidate. A volte si tratta di aggredire modelli organizzativi consolidati, cristallizzati dentro logiche che sono diverse rispetto a quelle che vogliamo portare avanti, ma che proprio per questo generano un cambiamento vissuto in maniera importante da tutti i professionisti.
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Come professionisti abbiamo il dovere di tutelare questo modello sanita-rio, ma anche metterci in gioco e ragionare e mettere in preventivo di cambiare radicalmente il nostro modo di pensarci all’interno dell’organizzazione, come infermieri e come ruolo. Questo deve diventare l’elemento che ci consente den-tro alle organizzazioni di portare avanti i nostri modelli assistenziali- organiz-zativi, a valorizzare la competenza, da documentare a tutti.
Non sono visioni troppo lontane dal sentire degli infermieri, vanno alla sostanza del gruppo professionale, sono ragionamenti e visioni vicine a noi perché vicine alla persona che assistiamo quotidianamente.
Deve diventare l’elemento decisionale rispetto ai nostri percorsi e alle or-ganizzazioni, che sia appropriata per la persona che viene in carico a noi, ri-spetto al suo livello di bisogno, al suo livello di intensità di cure che manifesta, e rispetto alle dinamiche economiche dello stato in cui siamo inseriti. Inoltre appropriato alle competenze che siamo in grado di esplicitare, perché non si riesce ad esercitare lo stesso profilo di competenza in tutti i campi.
La dottoressa Alvaro lo ha esplicitato bene: vi è una classificazione delle competenze: l’esperto, il competente, lo junior, il senior.
Ci sarà una correlazione fra il livello di competenza raggiunto da un pro-fessionista e l’attività da può erogare, fra le responsabilità che può assumere e i risultati che si possono ottenere. È anche un principio giuridico che l’errore dell’infermiere generalista è meno grave dell’errore dell’infermiere specialista.
Come stanno insieme le questioni strategiche organizzative e tecniche?
1) Riorganizzare gli ospedali per intensità di cura e complessità assisten-ziale: riposizionare il gruppo professionale rispetto alle competenze, in modo che tutti abbiamo in mano la propria cassetta degli attrezzi appropriata, per essere collocato, dare il contributo, per contribuire a realizzare questo modello organizzativo e strategico che abbiamo in mente.
2) Sviluppare le competenze specialistiche che devono attenersi ad ogni singolo professionista secondo il proprio ambito, ma sviluppare anche le com-petenze gestionali. Lo sviluppo delle comcom-petenze gestionali nella professione infermieristica è arrivato a livelli importanti.
3) La formazione universitaria ci ha sicuramente aiutato, però di fatto que-sto ci dovrebbe facilitare nel considerare qual’ è il gruppo professionale che dovrebbe prendere in mano questo modello organizzativo. Se dobbiamo cam-biare questo modello e innovarsi verso qualcosa che diventi più sostenibile, bisogna scegliere il gruppo professionale che per modus operandi ha quello di lavorare in équipe, di condivisione: gli infermieri non lavorano da soli, ed è un valore aggiunto inestimabile, nel gruppo professionale infermieristico italiano.
4) Identificare quel gruppo professionale che è capace di realizzare la pre-sa in carico: l’infermiere. Lo si vede banalmente dal nostro modo di lavorare, dalle documentazioni assistenziali: perché se si guardano le cartelle mediche sono strutturate secondo un percorso logico che è il percorso diagnostico-tera-peutico, ma non emerge il concetto di presa in carico della persona assistita.
Guardando la cartella infermieristica e la documentazione infermieristica a
qualunque livello: strutturata, poco strutturata, imprecisa, senza un riferimen-to di modello concettuale a monte, quello che emerge comunque è la presa in carico della persona assistita: questo è il valore su cui dobbiamo lavorare come infermieri italiani.
Siamo dentro un concetto dove è veramente difficile trovare un equilibrio.
Noi non possiamo stare a guardare, non possiamo essere passivi e dobbiamo entrare in gioco in prima persona.
Un piccolo collegamento ai contenuti del codice deontologico rispetto alla tematica in questione sulla organizzazione delle istituzioni.
Il comitato dei ministri nel 1997 ha prodotto un documento il cui estratto è: la qualità dell’assistenza sanitaria è il grado con cui il trattamento fornito migliora le probabilità del paziente di raggiungere i risultati desiderati. Il risul-tato è quello che dobbiamo perseguire noi come gruppo professionale: nessuno ci chiederà più di giustificare e argomentare se abbiamo fatto bene il compito, ma ci chiederanno qual è il risultato che volevamo raggiungere con l’azione infermieristica che abbiamo messo in atto per il paziente.
Diminuisce la probabilità di risultati indesiderati tenendo conto del cor-rente stato delle conoscenze. Questo significa che nella nostra cassetta degli attrezzi ci deve essere la capacità di sapere utilizzare le ricerche: non tutti pos-sono essere all’altezza di fare ricerca, ma la capacità di utilizzare i risultati della ricerca per migliorare la pratica quotidiana, anche organizzativa rispetto ai modelli, è necessaria.
Le dimensioni della qualità che discendono da questa affermazione sono:
manageriali- organizzativa, tecnico- professionale e percepita- relaziona-le, cioè responsabilità organizzativa rispetto alla qualità manageriale- organiz-zativa; responsabilità professionale rispetto alla qualità tecnico- specialistica;
responsabilità etica rispetto alla qualità della dimensione relazionale.
Dove sono queste dimensioni della qualità e della responsabilità?
Dentro i processi sanitari, sperando di riuscire ad orientare il modello ver-so un’organizzazione per processi e non più verver-so un’organizzazione funziona-le, perché l’organizzazione funzionale non è più sostenibile.
Andiamo verso un’organizzazione per processi: dove i processi sono tra-sversali, tipicamente per intensità e complessità e dove servono competenze professionali- specialistiche consolidate anche trasversali.
Dove troviamo l’orientamento rispetto a queste dimensioni della responsa-bilità?
Nel codice deontologico del 2009. Il codice deontologico trova alcuni prin-cipi ispiratori che li correlano alla responsabilità, e che evidenzia il ruolo del-l’infermiere nelle relazioni assistenziali nelle relazioni professionali e nelle or-ganizzazioni: qualità e responsabilità dell’organizzazione, qualità e responsa-bilità professionale, qualità e responsaresponsa-bilità etica.
La selezione degli articoli del codice sono classificate secondo questa pos-sibile riflessione. Nelle relazioni assistenziali, gli articoli del codice aiutano
l’in-Riflessioni rispetto al posizionamento del gruppo professionale italiano 163
fermiere a posizionarsi rispetto alla qualità relazionale percepita, e alle relazio-ni professionali: qualità tecrelazio-nico-specialistica e tecrelazio-nico-scientifica e la respon-sabilità rispetto ai modelli organizzativi. Dagli articoli emerge che non ci pos-siamo tirare fuori da nessun processo di cambiamento e non pospos-siamo aspetta-re che qualcun altro riorganizzi il sistema sanitario e i modelli organizzativi per noi. Siamo inseriti in un percorso che va fatto e quello che ci arricchisce non è arrivare in fondo al traguardo, ma è l’arricchimento che deriva dal cam-minare e fare un percorso nel gruppo professionale, nel gruppo interprofessio-nale e nel sistema sanitario naziointerprofessio-nale.
Moderatori: I
LARIAC
OSSU, G
IANDOMENICOG
IUSTILe stime della morbosità e della mortalità associate all’attività chirurgica, che in Italia rappresenta circa il 40 % della totalità dei ricoveri, giustificano la crescente preoccupazione per il problema della sicurezza dei pazienti e della qualità dell’assistenza in ambito chirurgico. Nonostante le difficoltà metodolo-giche nella misurazione degli eventi avversi correlati agli interventi chirurgici, i risultati degli studi internazionali riportano un’incidenza compresa tra il 3%
ed il 16% nelle procedure eseguite sui pazienti ricoverati, con un tasso di mor-talità compreso tra 0,4 % e 0,8 %.
A dispetto di una scarsa comparabilità dei dati, anche per la variabilità del case mix, i risultati riportati dagli studi internazionali giustificano la crescente attenzione verso questo problema, ritenuto una delle priorità della sanità pub-blica nel mondo, anche perché da tali studi emerge che circa la metà degli eventi avversi sono considerati prevenibili.
Esaminando la totalità degli interventi sanitari, si può constatare che una parte di essi evolve in complicazioni, che però in ambito chirurgico possono rappresentare un rischio calcolabile. C’è poi un’altra ampia casistica di errori spesso non viene considerata. Si tratta dei cosiddetti quasi errori (near misses) e degli eventi che non producono danno per il paziente, che se non opportuna-mente gestiti attraverso un valido sistema di incident reporting possono rap-presentare un problema, perché spesso non vengono segnalati.
Rispetto ad altri settori sanitari la sicurezza in sala operatoria si contraddi-stingue per la complessità intrinseca caratterizzante tutte le procedure chirur-giche, pure quelle più semplici: numero di persone e professionalità coinvolte, condizioni acute dei pazienti, quantità di informazioni richieste, urgenza con cui i processi devono essere eseguiti, elevato livello tecnologico, molteplicità di punti critici del processo che possono provocare gravi danni ai pazienti (identi-ficazione del paziente, correttezza del sito chirurgico, appropriata sterilizza-zione dello strumentario, industerilizza-zione dell’anestesia, ecc.).
Inoltre, in Italia il problema della carenza di personale infermieristico ha in-dotto, talvolta, le aziende sanitarie ad impiegare in questo ambito altre figure pro-fessionali, quali l’operatore socio sanitario e l’operatore socio sanitario specializza-to, coinvolgendole in alcune attività tradizionalmente eseguite dagli infermieri, contribuendo così ad aumentare il rischio di eventi avversi in sala operatoria.