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RIGUARDO L’ASSISTENZA NEL FINE-VITA NELLE TERAPIE INTENSIVE

Nel documento XXVIII CONGRESSO NAZIONALE ANIARTI (pagine 88-94)

A. QUARTA

Rianimazione Policlinico «A. Gemelli» UCSC Roma - Master in Metodologia e analisi della responsabi-lità professionale nell’area infermieristica

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Prendere decisioni etiche, in ambito sanitario, non è semplice e non può sempre derivare da protocolli definiti o comportamenti standard. Il tema trat-tato in questo convegno coinvolge tutti gli operatori sanitari, in particolare l’in-fermiere che lavora in terapia intensiva, dove costantemente si trova di fronte a situazioni che si spingono fino al limite di un trattamento sanitario, nella mag-gior parte dei casi salva-vita, ma che in molti altri rappresenta un trattamento superfluo.

Tema che accende i riflettori su alcune problematiche che oramai grazie a Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro sono uscite dalle mura sanitarie - ospeda-liere, per interessare aule di tribunale e di conseguenza tv, giornali ed opinione pubblica.

Il 20 dicembre del 2006, il Dott. Mario Riccio: «procedeva prima alla sedazio-ne di Piergiorgio Welby e subito dopo al distacco del ventilatore automatico, alla quale pratica faceva seguito la morte sopravvenuta nell’arco di circa mezz’ora».

Tre anni dopo ad Eluana Englaro, in coma vegetativo permanente da 17 anni, viene applicato il protocollo di sospensione della nutrizione enterale, die-tro richiesta del suo tutore legale, nonché il padre Beppino Englaro.

Eluana Englaro muore il 9 febbraio del 2009.

In alcuni casi, purtroppo, le manovre rianimatorie applicate sui pazienti pro-ducono coma vegetativi inizialmente persistenti per poi diventare permanenti.

Il miglioramento delle tecniche di rianimazione, negli ultimi decenni ha aumentato notevolmente il numero delle persone che dopo un brutto trauma, sono ritornate in «vita».

Una vita, molte volte, vissuta con consapevolezza, ma imprigionata in un corpo immobile, come nel caso di Piergiorgio Welby o ancora prima Terry Schia-vo, o molte altre vissuta in uno stato di coma permanente come è stato nel caso di Eluana Englaro.

– il diritto e il rifiuto alle cure: il consenso informato;

– il concetto giuridico di morte;

– il concetto di accanimento terapeutico – Le posizioni della bioetica, cattolica e laica – L’eutanasia: aspetti giuridici e deontologici – I testamenti biologici

Risultati e Conclusioni: Alcune sentenze degli ultimi anni, hanno fatto scalpore, affrontando tematiche sul fine-vita e, nonostante la giurisprudenza si sia pronunciata al riguardo, rimangono forti dubbi su come affrontare e assistere i pazienti in questi casi.

Un lungo iter tra leggi, codici e regole morali attanagliano il professioni-sta sanitario, che in alcuni punti si accomunano, ma in tanti altri si differi-scono creando quelle zone d’ombra che solo il rispetto della volontà altrui porterà a una giusta soluzione. Difatti voler il meglio per gli altri non signifi-ca imporre il nostro credo. La chiave di volta sta nell’appoggiare la libertà di scelta di chi decide di essere curato o meno.

Quante volte ci troviamo a vivere l’arrivo di un paziente in pronto soccorso per un grave trauma, un emorragia cerebrale, un ictus: il malato viene circon-dato da medici e infermieri, ognuno dei quali sembra agire in maniera indipen-dente: chi taglia i vestiti e pulisce il corpo, chi sistema gli elettrodi, chi posizio-na il tubo per la respirazione artificiale.

Si corre e ci si affanna per strappare la vita a una morte certa.

Spesso ci si riesce e una mattina il paziente apre gli occhi e ti guarda e allora ti rendi conto che la vita c’è!

Ma quell’attimo è solo l’inizio.

Dopo la rianimazione si dovranno affrontare lunghi periodi di riabilitazio-ne, fisioterapia, si deve imparare di nuovo a camminare, mangiare, parlare, ma la vita è anche questo e per difenderla si deve fare tutto il possibile.

Poi purtroppo ci sono anche i casi in cui la vita fugge e le mani di medici e infermieri che provano a rianimare, non riescono a trattenerla, in un corpo troppo ferito o troppo ammalato. Ed è dovere degli operatori sanitari non acca-nirsi, sapersi fermare quando non c’è più nulla da fare anche se questo provoca frustrazione e sconforto.

Diventa indispensabile affrontare tematiche inerenti la terapia intensiva, che coinvolgono in un unico cerchio tutti i professionisti che ruotano intorno al paziente e il paziente stesso.

Consenso informato, accanimento terapeutico, testamento biologico e di-ritto all’autodeterminazione, alleanza terapeutica, eutanasia sono temi contro-versi, pregni di dilemmi etici, morali e legali che ci coinvolgono tutti non solo come professionisti sanitari, ma anche come persone che, un giorno potrebbe-ro stare dall’altra parte e vivere la corsia da paziente.

A questo punto la domanda da porsi è: «Il proprio corpo è veramente di-sponibile come si afferma o, invece è proprietà indidi-sponibile dell’uomo?».

Partiamo dal diritto, dalla legge suprema: la Costituzione articoli 2-3-13-32 tutelano la libertà personale e in particolare l’art. 32 al comma II recita così:

«nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti impo-sti dal rispetto della persona umana».

Su questa tematica le posizioni sostenute dalla bioetica sono fondamental-mente due: una bioetica cattolica, che crede nella sacralità della vita vissuta in qualunque modo, perché la vita come la malattia, la sofferenza è un dono di Dio e per tale motivo rimane un bene inviolabile fino alla fine; una bioetica laica, che punta sulla qualità della vita, sul diritto di vivere una vita degna di essere vissuta, quindi diritto di autodeterminazione e disponibilità del proprio corpo.

Tale diritto che viene legittimato non solo dal consenso informato ma sot-tolineato già nel 1992 dal Comitato Nazionale di Bioetica: «si ritiene ormai tramontata la stagione del paternalismo medico, in cui il sanitario si sentiva legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente...».

Prima di ricevere il consenso informato da parte del paziente, il medico ha l’obbligo di informarlo sul suo stato di salute o piano terapeutico in modo one-sto, veritiero ma soprattutto completo.

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È a questo punto che tra l’operatore sanitario e il paziente si dovrebbe creare un inter-scambio di informazioni, una collaborazione, una alleanza te-rapeutica, che pone il paziente come fulcro nell’ambito del proprio trattamento sanitario, consapevole e libero di scegliere in ogni momento se tale trattamen-to deve o non deve essere fattrattamen-to. In altre parole grazie al consenso il medico è obbligato a non intraprendere nessuna attività diagnostica o terapeutica senza l’approvazione del paziente.

Come si evince dalla Sentenza n. 13 del 1990 della Corte di Assise di Firenze:

«Nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute e integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricom-presso il diritto di rifiutare le cure mediche lasciando che la malattia segua il suo corso fino alle estreme conseguenze: il che non può essere considerato il ricono-scimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interes-sato, dal volere o peggio ancora, dall’arbitrio altrui... ma deve fondarsi esclusiva-mente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare».

La storia di Eluana Englaro, dopo quella di Piergiorgio Welby e di altre persone che si sono trovate a vivere situazioni drammatiche, hanno scosso l’opi-nione pubblica italiana.

Storie vere, di persone in carne e ossa, che ci hanno obbligato ad aprire gli occhi, a interrogarci sulle carenze dei sistemi e sui fantomatici vuoti legislativi.

Esiste la consapevolezza diffusa, ormai, che la morte è un evento sempre meno naturale e sempre più affidato ad apparecchi che possono continuare a far vivere o lasciarci andare verso la nostra fine. Molti Paesi del mondo hanno adottato delle leggi su questa materia, mi riferisco al Testamento Biologico, o per essere più precisa, alle dichiarazioni anticipate di volontà.

Al riguardo, alcuni termini sono complessi, alcune differenze sottili e, nel dibattito italiano, in questi anni, vi è stata certamente tanta confusione. Per questo credo sia importante spendere qualche parola sulle definizioni prese in esame.

Il testamento biologico è un documento con cui una persona capace di intendere e di volere esprime la propria volontà circa le terapie e i trattamenti sanitari cui desidera, o non desidera, essere sottoposta, nell’eventualità doves-se perdere irrimediabilmente la capacità di comprendere e di esprimersi. Vi è una chiara e netta distinzione tra il testamento biologico in cui indico, oggi, le mie volontà per il futuro e il consenso informato, attraverso cui posso chiedere l’interruzione delle terapie o la non attuazione, nel momento in cui sono co-sciente e mi posso ancora esprimere.

Quando si chiede di interrompere una terapia si accetta che la malattia faccia il suo corso; il medico avrà il dovere di informare il paziente delle conse-guenze di quella decisione ma non può fare nulla per opporvisi e, anzi, è tenuto a rispettare le indicazioni.

Ci sono altri due termini con cui spesso si fa molta confusione, e sono

«suicidio assistito» e «eutanasia».

Nel primo caso, si intende l’atto di fornire intenzionalmente a una persona i mezzi e le conoscenze necessarie per commettere il suicidio, compreso il con-siglio e la prescrizione dei farmaci e delle dosi corrette per compiere l’atto mortale.

L’eutanasia è invece l’uccisione procurata deliberatamente, attraverso la somministrazione di farmaci letali o la non somministrazione di terapie salva-vita. In Italia il suicidio assistito e l’eutanasia sono considerati entrambi reati e su questi due aspetti anche il codice di deontologia dei medici e degli infermie-ri italiani segue la stessa linea (art. 36 per i medici e art. 38 per gli infermieinfermie-ri).

Altra distinzione va fatta tra eutanasia e astensione dall’accanimento tera-peutico, dove la prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita causando positivamente la morte; la seconda consiste nella rinuncia all’utiliz-zo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Evitando l’accanimento terapeutico non si vuole procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire assumendo così i limiti propri della con-dizione umana mortale.

Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale matematica, ma occorre un attento esame della situazione soggettiva e tenendo presente però la volontà del malato in quanto è a lui che compete la scelta.

Nelle nostre rianimazioni le decisioni sul fine vita vengono prese in conti-nuazione, ogni giorno, ogni notte, da medici che operano in scienza e coscien-za ma che, nella maggior parte dei casi, non conoscono gli orientamenti dei pazienti rispetto alle terapie da accettare o meno nelle fasi finali dell’esistenza.

Questo perché il paziente arriva in rianimazione già incosciente ed è impossi-bile poter dialogare e cogliere i principi che orientano la sua vita. Pur non co-noscendoli si deve comunque decidere quando mettere la parola fine; le intese tra famigliari e medici, anche se non sono documentate in cartella clinica, esi-stono, ma si fanno sotto-banco con qualche frase sussurrata molte volte in cor-ridoio «mi raccomando che non soffra» o «saprà lei cosa è meglio fare». Tali situazioni sono state documentate in una ricerca del 2005 condotta dal Gruppo Italiano per la Valutazione in Terapia Intensiva, costituito da esperti di riani-mazione che fanno ricerca su questi temi dal 1992.

Lo studio dimostra come su circa 3800 pazienti terminali in un centinaio di rianimazioni sparse in tutto il Paese, nel 62% dei casi i medici abbiano attua-to la cosiddetta «desistenza terapeutica» nelle ultime fasi di vita del paziente.

Il che significa che il medico di guardia e non il medico curante, o il padre, la madre, un figlio, un parente, prende in scienza e coscienza, ma aggiungo, anche in solitudine, la decisione di non avviare la dialisi, di non somministrare la nutrizione enterale, di non intubare il paziente per collegarlo al respiratore automatico.

In un Paese maturo, come dovrebbe essere il nostro mi aspetto che decisio-ni riguardanti il fine vita su una persona tengano conto della persona stessa attraverso un dialogo aperto e sereno semplicemente tra operatori sanitari e familiari.

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Mi sembra poco degno che queste decisioni vengano discusse in un aula di Tribunale da un Giudice che è completamente estraneo al paziente e alla fami-glia stessa.

Come è stato per Beppino Englaro che ha scelto la strada più «trasparen-te» per far valere un proprio diritto costituzionalmente protetto e l’ha fatto non solo per se stesso, ma perché ognuno di noi possa avere la possibilità di decide-re sulla propria vita fino alla fine.

Bisogna appoggiare la libertà di scelta di chi decide di vivere o decide di morire: vivere deve essere un diritto non un obbligo.

Mi pare significativo a tal proposito, concludere con il messaggio che Pao-lo VI volle far pervenire ai partecipanti al congresso dei medici cattolici nel 1970, attraverso una lettera del segretario di stato, Cardinale Giovanni Villot:

«Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lotta-re contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzalotta-re tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice.

In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione ve-getativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizio-ne, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo...».

Parole scritte nel 1970, dove probabilmente ancora esisteva quel senso di accompagnare il proprio genitore o parente fino all’ultimo momento della sua vita, con serenità, nella propria casa senza la paura di starli accanto.

Oggi spesso nei nostri reparti ci troviamo di fronte ad anziani novantenni, intubati, dializzati e sedati nella migliore delle ipotesi, altrimenti «trattati a metà», come li definisco io: non vengono intubati perché sono troppo anziani e allora per farli respirare vengono trattati con la NIV, cioè con una maschera che aderisce al viso e che costantemente manda aria nei polmoni del paziente.

Molte volte te li ritrovi li, in quel letto, soli, senza sedazione, con questa maschera che li opprime il viso e allora ti auguri almeno che non siano coscienti.

A mio parere, oggi, un po’ tutti dovremmo farci un esame di coscienza e riflettere su quanto viviamo nei nostri reparti e condividerlo con le altre catego-rie che ci ruotano intorno.

Noi infermieri abbiamo la fortuna di vivere più a stretto contatto con il paziente, rispetto a un medico e, per tale motivo penso che, attraverso la condi-visione si possa far emergere quel senso del «limite di un trattamento» che deve far parte del nostro quotidiano operato professionale.

Abstract

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Una buona percentuale dei decessi avviene in terapia intensiva e in riani-mazioni, a seguito di terapie inutili e spropositate. Il principio di proporzionali-tà delle cure dovrebbe permettere di distinguere il limite fra una doverosa insi-stenza terapeutica e una dannosa e inutile ostinazione. Il rifiuto dell’accanimen-to terapeutico non significa abbandono del maladell’accanimen-to terminale o comadell’accanimen-toso ma un rifiuto a prolungare con mezzi sproporzionati l’agonia, a tormentare il paziente con strumentazioni che non coincidono significativamente su un suo accettabi-le e minimaaccettabi-le benessere, a praticare terapie con poche probabilità di successo.

Nel Codice deontologico dell’infermiere si dice chiaramente no all’eutanasia art.

38: «l’infermiere non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, an-che se la richiesta proviene dall’assistito»), ma arriva anan-che uno stop all’accani-mento terapeutico art. 36: «L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita»).

Comparando 2 casi, uno il cui esito è risultato positivo e l’altro negativo, si capisce quanto sia sottile il confine tra accanimento terapeutico con effetti benefici e quando con conseguenze negative; e solo attraverso il dialogo fra professionisti, la crescita formativa, la ridefinizione del ruolo professionale e la trasparente assunzione di responsabilità nei confronti dei cittadini e degli assistiti, si può arrivare alla scelta migliore, poiché l’essere umano è unico.

SEMPRE L’IMPEGNO TERAPEUTICO

Nel documento XXVIII CONGRESSO NAZIONALE ANIARTI (pagine 88-94)