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Il primo ovvio riferimento di questa prospettiva è la teoria della strutturazione di Anthony Giddens. Disancorandosi da entrambi gli «imperialismi» oggettivista e soggettivista, tale approccio è un tentativo di comprendere i processi storico-sociali informato al concetto di “dualità della struttura” (Giddens, 1990) secondo cui agenti e strutture sono entità interrelate, “ontologicamente” interdipendenti. Tale interdipendenza è connessa al modo in cui le persone comprendono, percepiscono, condividono e praticano quotidianamente il loro senso del mondo, a come condividono questi significati e alle pratiche, alle azioni ed esperienze della vita quotidiana.

Giddens concepisce le strutture sociali quali «relazioni di trasformazione e mediazione» (Giddens, 1990: 26) che sono percepite, comprese e praticate dagli agenti, i quali incorporano a loro volta tali strutture sotto forma di norme, percezioni e regole. Il sociologo britannico enfatizza come la connessione fra istituzioni, norme, regole e vincoli e l’incorporazione di questi nei corpi e nelle menti, tramite la percezione e la comprensione, sia dovuta al fatto che la struttura è parte intrinseca dell’agente (come traccia mnemonica) che a sua volta è parte integrante della struttura. Nella concezione di Giddens, la struttura sociale è un mix di agentività e struttura, contemporaneamente il medium e il prodotto (outcomes) delle pratiche che costituiscono i sistemi sociali (Giddens, 1990) e possono limitare, o consentire ciò che le persone possono fare, provare o desiderare.

L’azione sociale, dal punto di vista di Giddens, è, infatti, impossibile senza la struttura e la struttura è determinata dalle azioni che gli individui compiono nel presente. Solo a determinate condizioni, le strutture sono costituite e ricostituite dagli individui attraverso le loro pratiche. Da una parte Giddens attribuisce agli agenti, in qualche misura, la possibilità effettiva di essere consapevoli di ciò che fanno, dicono e credono, dall’altra parte, la routine, veicolata attraverso quella che viene definita «coscienza pratica» (Giddens, 1990: xxi), implica secondo il sociologo inglese, un fare qualcosa senza esserne effettivamente consapevoli.

A fondamento della teoria della strutturazione si staglia, infatti, il concetto di «routinizzazione» che configura l’insieme delle attività eseguite abitualmente dagli agenti nella loro vita quotidiana. La reiterazione delle routine consente a Giddens di cogliere il momento dell’interazione fra agency/struttura:

«l’aspetto ripetitivo di attività intraprese in modo sempre uguale […] costituisce il fondamento materiale (della) natura ricorsiva della vita sociale, […] (ovvero) che le proprietà strutturate dell’attività sociale sono costantemente ricreate, attraverso la dualità della struttura, a partire dalle stesse risorse che la costituiscono» (ibidem)

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Per Giddens è solo attraverso l’analisi dell’azione situata (in situ), “routinizzata”, che è possibile osservare l’interazione fra le strutture e i modi con cui queste sono percepite. In questo modo è possibile leggere i processi sociali attraverso un ciclo d’interazioni continue fra le strutture, le pratiche e le conseguenze risultanti, volute o meno, in cui tutte le dimensioni sono sempre coinvolte. Per comprendere tali processi è però fondamentale porre attenzione al tempo, allo spazio e alla storicità dell’azione umana, concependola come un flusso continuo (Giddens, 1990).

Giddens enfatizza il rapporto omeostatico fra agency e struttura, mostrando come a livello delle dinamiche strutturali socio-economiche, politiche e culturali, vengono esplicitate le regole e determinate le risorse che attribuiscono significato e forma ai contesti per la continua produzione, riproduzione e trasformazione sociale. A livello micro, le regole e le risorse sono sempre soggette a possibile trasformazione, perché per l’agente può, a determinate condizioni, agire diversamente, poiché, come individuo riflessivo, ha il potere e le abilità di retroagire in senso trasformativo rispetto ai vincoli (Giddens, 1994). Questa possibilità d’agire per gli attori sociali è data dalla condivisione di “bacini di conoscenza” (scientifica, tecnica o empirica), legati a una determinata visione del mondo, che costituiscono le cornici di significato delle loro azioni e dei motivi che le orientano. Secondo Giddens, per poter agire nel mondo, è necessaria una qualche "consapevolezza" delle circostanze (una “conoscenza” intrinseca che riflette le influenze culturali e sociali) prodotta dall’interiorizzazione delle strutture esterne nel corpo e nella mente degli agenti, sottoforma appunto di conoscenze e di disposizioni.

Nei suoi lavori sulla “modernità” (Beck, Giddens e Lash, 1999; Giddens, 1994; 2001), Giddens ritiene che la globalizzazione produca una frammentazione delle strutture tradizionali di potere, riducendone l’importanza e il ruolo nella vita delle persone27. I pattern identitari dell’individuo si aprono quindi a relazioni de-tradizionalizzate (disembedded) col sé, con gli altri e con il mondo, risultando incrementalmente sperimentali e riflessive.

«La riflessività della moderna vita sociale consiste nel fatto che le pratiche sociali vengono continuamente valutate e modificate alla luce delle informazioni via, via ricevute riguardo a quelle stesse pratiche, alterandone così la natura in maniera costitutiva.» (Giddens, 1994: 46)

L’individuo appare quindi sempre più in grado di monitorare i propri comportamenti, ed è capace di poter agire in senso trasformativo rispetto alle circostanze. Attraverso le pratiche conoscitive, agisce sulla realtà sociale con la possibilità di riformulare costantemente i vincoli delle routines.

Le caratteristiche assunte dalla tarda modernità possono essere così sintetizzate:

27 Giddens definisce “modernità radicalizzata” (Beck, Giddens e Lash, 1999) o riflessiva la tendenza della

società a consolidare i processi d’individualizzazione, in altre parole il diritto/dovere dei singoli di «assumere su di sé il proprio destino» (Ghisleni e Privitera, 2009): una radicalizzazione dei processi di autodeterminazione che fanno emergere una serie di problemi esistenziali (identità, appartenenze e interpretazioni) sia per i soggetti sia per le istituzioni (Giddens, 2001). Nel lavoro complessivo di Giddens manca però un approfondimento sul grado in cui le istituzioni sono divenute più riflessive.

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1) «la costruzione dell’Io come progetto riflessivo dell’individuo» (Giddens, 1994: 125) che ricerca la propria identità fra i molteplici lifestyle;

2) la rinegoziazione continua delle relazioni e l’accettazione della provvisorietà delle conoscenze;

3) il bisogno di fiducia nella vita quotidiana e nelle relazioni e la consapevolezza del rischio che procede attraverso la selezione di possibili azioni future anticipandone i risultati (Giddens, 1994). Il sé si mette in gioco in un progetto aperto, un’«avventura pericolosa» (Beck, Giddens e Lash, 1999: 104) che mette in relazione le esperienze del passato, l’immaginazione del futuro e le sperimentazioni del presente.

Uno dei perni centrali dell’ultima parte del lavoro complessivo del sociologo britannico riguarda, più nello specifico, l’idea della ricorsività crescente nell’implementazione delle strutture da parte dell’agente nel contesto contemporaneo, attraverso la routinizzazione delle pratiche sociali. Giddens osserva delle connessioni fra gli aspetti micro del senso interno che gli individui hanno di sé e della propria identità e la dimensione macro dello Stato, del capitalismo e della globalizzazione. Questi differenti livelli s’influenzano reciprocamente, Nello specifico, emerge come sia la necessità di fiducia e sicurezza a guidare gli individui nella routinizzazione delle pratiche, allo scopo di stabilizzare le proprie relazioni in risposta alla crescente complessità della società (Giddens, 2001).

Le critiche mosse alla teoria della strutturazione sono da ricondurre al lavoro di Margaret Archer (1997) che discute la nozione di “dualità della struttura”, ritenendo che essa renda indistinguibili agency e struttura, producendo una forma di “conflazione centrale” che fonde insieme le due dimensioni. La prospettiva della Archer parte da una posizione ontologica realista28 in cui struttura e agency sono irriducibili l’un con l’altra e l’interazione fra gli individui, i gruppi e tra questi e le strutture socio-culturali fa emergere il contesto dei vincoli e delle risorse dell’azione. Il dualismo “morfogenetico” proposto dall’autrice assume che le due dimensioni operino in momenti sequenziali differenti, distinguendo analiticamente tre fasi: la pre-esistenza delle strutture che prescindono la comprensione degli agenti (fase I); l’esercizio e l’influenza di queste sull’azione e sulle relazioni tra i gruppi e gli individui che risultano quindi successivi (fase II); l’interazione sociale e culturale frutto dell’elaborazione o riproduzione delle proprietà emergenti delle strutture che, nel corso del processo, genera un mutamento degli stessi gruppi e agenti coinvolti (fase III) (Archer, 1997). L’obiettivo della Archer è quello di approfondire il modo in cui le influenze strutturali vengono trasmesse a determinati agenti in specifiche posizioni e situazioni e come influenzano le combinazioni strategiche che ne determinano la morfogenesi.

Pierre Bourdieu, in modo similare a Giddens, si oppone sia all’oggettivismo sia al soggettivismo e legge nel «senso pratico» (Bourdieu, 2005) dell’individuo – considerandone

28 L’orientamento metodologico realista contribuisce alla comprensione e all’esplorazione delle relazioni tra

contesti, meccanismi ed effetti. Secondo tale approccio sono i “meccanismi sottesi” che operano in determinati contesti a innescare il cambiamento mentre la causalità è concepita come avente carattere emergente e contestuale. Le cause di un fenomeno non vanno lette come regolarità che occorrono a prescindere da relazioni specifiche con i contesti ma, piuttosto, come potenzialità che possono essere possedute e esercitate o non esercitate, realizzate o meno, percepite e non dai soggetti presi in considerazione (Bhaskar, 2008).

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gli stili di vita, la cultura, le aspirazioni e i consumi –, lo scenario della produzione dei “dispositivi di differenziazione” che sono sia il prodotto delle differenze sociali incorporate dall'individuo, sia gli stimoli a modificare il contesto storicamente determinato. In questo senso, il singolo e la società sono forme diverse afferenti al medesimo spazio relazionale.

Il sociologo francese cattura tali processi e “trascende” la relazione dualistica tra il momento oggettivo e quello soggettivo del mondo sociale tramite alcuni concetti “mediatori” (Ghisleni e Privitera, 2009) che permeano il suo lavoro complessivo: habitus e campo.

Con habitus29 Bourdieu indica «i sistemi di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti» (Bourdieu, 2005: 84), ovvero le abitudini, i modi di fare, di pensare e di vedere il mondo che contribuiscono a definire gli agenti. Si tratta di un sistema di disposizioni interiorizzate che mediano fra il potere vincolante delle strutture oggettive e le pratiche dei soggetti (Brubaker, 1985). Includono la cultura personale, le competenze e le attitudini sociali, le storie e le esperienze acquisite durante la socializzazione a livello individuale e/o collettivo. Gli habitus incorporano pregiudizi e aspettative, influenzano i modi di vedere il mondo, le preferenze e i gusti personali. Con il trascorrere del tempo gli habitus possono essere sviluppati, modificati e adattati alla mutevolezza delle circostanze, o si può acquisirne di nuovi ma senza perdere quelli precedenti. Gli habitus, in quanto «capacità di produrre pratiche» (Bourdieu, 2001: 174) trasformano le strutture (norme, regole, leggi) in azione pratica, predisponendo le persone in una relazione trasformativa verso il mondo:

«[…]l’habitus […], imponendo la sua logica particolare all’incorporazione,[…] è ciò che permette di abitare le istituzioni, di appropriarsene praticamente e così di mantenerle in attività […], ma imponendo loro le revisioni e le trasformazioni che sono la controparte e la condizione della riattivazione». (Bourdieu, 2005: 90)

Gli habitus conferiscono alle pratiche «un’indipendenza rispetto alle determinazioni esterne del presente immediato» e funzionano come «capitale accumulato» assicurando la «permanenza del cambiamento che rende l’agente individuale un mondo nel mondo» (Bourdieu, ibidem).

Secondo Bourdieu, gli attori sociali costruiscono il mondo sociale attraverso l’impiego di strumenti dati dal mondo sociale che vengono incorporati a livello cognitivo: gli schemi di pensiero e di azione infatti sono condivisi da tutti coloro che ne sono ugualmente condizionati ma ciascuno, avendo un proprio posizionamento nel mondo, interiorizza una particolare combinazione di tali schemi.

Il punto cruciale della teoria dell’habitus è dato da due elementi che sono molto utili anche nell’alveo del presente lavoro: 1) la concezione del tempo e 2) l’assenza di consapevolezza delle strategie messe in atto dagli habitus.

29 Bourdieu ricostruisce filologicamente il concetto di habitus attingendo dalla filosofia classica (Aristotele e

Tommaso d’Aquino), dalla sociologia classica (Durkheim, Mauss, Weber e Veblen) e dalla fenomenologia (Husserl, Schutz, Merleau-Ponty ed Elias) attribuendogli però nuove caratteristiche e definizioni (Wacquant, 2015).

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Il tempo gioca un ruolo importante nella teoria degli habitus poiché essi “trascendendo” il presente immediato e quindi la coscienza individuale, attraverso il richiamo pratico alle condizioni del passato e tramite l’«anticipazione implicita» delle conseguenze future inscritte nel presente sotto forma di possibilità (Bourdieu, 2003), tendono, in ultima istanza, a riprodurre le strutture di cui sono esse stesse il prodotto. La concezione strutturale di tempo non dipende in modo meccanicistico dalla percezione individuale, ma si produce attraverso l’incorporazione e l’attività pratica. Le pratiche incorporate nell’habitus sono frutto della mancanza di consapevolezza del soggetto e secondo Bourdieu (2005) operano “al di sotto” della coscienza e, in quanto definite dalla posizione occupata nel sistema dei campi e dalle disposizioni inscritte nell’habitus, animano l’azione secondo tali disposizioni, senza che l’individuo ne abbia una consapevolezza perfetta, secondo un meccanismo metaforicamente assimilabile ad un gioco.

La posizione di una persona nello spazio sociale è data dalla quantità e dalla composizione del capitale posseduto. Quantità e composizione variano nel tempo e testimoniano il percorso seguito dagli individui per raggiungere la posizione occupata. Bourdieu usa il concetto di capitale per indicare le risorse economiche (beni materiali e finanziari), culturali (competenze e abilità), sociali (acquisite attraverso la socializzazione) e simboliche30 che permettono di ottenere successo e un posizionamento all’interno del campo.

Il campo per Bourdieu è una rete di relazioni oggettive tra posizioni e di circostanze date (equiparabile alla struttura), definite dal mondo in cui i diversi tipi di capitale sono situati al suo interno. Il campo, dotato di una specifica configurazione di regole di funzionamento e forme di autorità, è relativamente autonomo rispetto all’individuo e costituisce il contesto in cui quest’ultimo fa esperienze e agisce. Ogni campo31 è regolato da norme, logiche,aspettative di comportamento, rapporti di potere, conflitti e forme di controllo proprie, la cui accettazione è subordinata all’apprendimento da parte degli individui.

Questa concezione “relazionale” dei campi di Bourdieu (Bourdieu e Wacquant, 1992), riprendendo la teoria marxiana dei rapporti sociali, legge la complessità sociale in termini di relazioni conflittuali che si fondano sulla disuguaglianza nella distribuzione delle risorse (che dipende dal possesso di capitale e dall’importanza attribuita ad un certo tipo di capitale), delineando un quadro in cui dominio e conflitto, modellando i rapporti di produzione, generano un mutamento che scaturisce dalle lotte fra interessi contrapposti.

Il focus del lavoro complessivo di Bourdieu è posto sulla relazione concettuale fra habitus, capitale e campo: l’azione pratica è il prodotto dell’interrelazione fra le disposizioni incorporate, che formano le pratiche dall’interno, e le dinamiche dei campi, che strutturano l’azione dall’esterno. Poiché la posizione nel campo è determinata dal possesso di capitale (e quindi dalla particolare combinazione di pensiero e azione), coloro che occupano posizioni

30 Il capitale simbolico comprende l’insieme degli effetti prodotti dalle altre forme di capitale quando esse non

sono percepite come tali dai soggetti (Bourdieu e Wacquant, 1992) ed è strettamente connesso alla concezione di violenza simbolica (Ghisleni e Privitera, 2009).

31 Bourdieu distingue il campo del diritto, quello dell’economia, dell’istruzione, della politica, della religione,

dell’arte etc. affermando che rispondono a meccanismi e regole interne di funzionamento che gli accomunano e presentano differenti posizionamenti dei tipi di capitale che li contraddistinguono.

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dominanti in un campo tendono a mettere in atto strategie conservative rispetto alla distribuzione del capitale, mentre coloro che sono marginalizzati saranno più disponibili a dare vita a strategie trasformative (o meglio sovversive) rispetto alle configurazioni del campo

L’approccio relazionale di Bourdieu è stato oggetto di alcune critiche che interpretano il concetto di habitus in un prospettiva determinista. Jenkins (1982), infatti, legge la pratica come un “ciclo chiuso”, delineando un processo circolare per cui sono le strutture a generare gli habitus, che determinano le pratiche, le quali, a loro volta, riproducono le strutture. Le considerazioni critiche al sociologo francese fanno leva sulle incoerenze e le ambiguità operative della teoria della pratica (Hedström, 2008), ponendo enfasi sulla scarsa capacità del concetto di habitus di mediare tra soggettivismo e oggettivismo (Ghisleni e Privitera, 2009).

Il recupero da parte di Bourdieu e Giddens delle dimensioni creative e predittive della pratica è connesso a un livello comunque basso di riflessività che non lascia granché spazio alla riformulazione degli schemi d’azione. Sia l’idea di “consapevolezza discorsiva” di Giddens che la “riflessività metodologica” di Bourdieu riconoscono una certa flessibilità all’azione individuale, man mano che l’agente diventa più consapevole della propria situazione, ma non ne approfondiscono le effettive possibilità (Emirbayer e Mische, 1998).

L’insieme di queste suggestioni teoriche ha permesso a Stones (2005), nell’elaborazione della sua versione strong della teoria della strutturazione (SST), di distanziare analiticamente quattro dimensioni strutture esterne, strutture internalizzate, agency e outcomes, dinamizzando temporalmente l’interazione tra l’agentività umana e il contesto socio-culturale in un processo sequenziale di eventi (O’Reilly, 2012). In questo modo diventa possibile comprendere come gli individui generano le strutture, nel tempo e attraverso le loro routine pratiche, e come queste, una volta prodotte, possono divenire autonome e agire indipendentemente dall’agency individuale. Il merito di Stones è quello di aver tentato di enfatizzare il ruolo giocato dai significati sociali e alle percezioni individuali nei processi di strutturazione, attribuendoli un peso condizionante al pari delle altre differenziazioni strutturali. Nel suo approccio, infatti, gli individui conservano sempre la capacità di adottare comportamenti alternativi. Infatti, in relazione al grado della loro consapevolezza delle strutture, il loro livello di incorporazione di tali forze, attraverso gli habitus e il posizionamento, consentono loro di mobilitare risorse, potere e conoscenze allo scopo di capire le dinamiche sociali (Stones, 2005). Ad essere assente dal quadro analitico di Stones sono le questioni riguardanti i processi di soggettivazione e assoggettamento degli individui alle dinamiche del potere.

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