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I NCLUSI MA SOSPESI FRA LAVORO , ABITUDINI E DIFFICOLTÀ

Il secondo ambito esplorato dall’analisi delle interviste è relativo alla relazione fra il percorso lavorativo e le possibilità d’inclusione nel contesto sociale estero più generale. È stato già anticipato come la vita quotidiana degli intervistati ruota intorno al lavoro, i cui tempi e spazi consentono raramente attività diverse. I lavori svolti dagli intervistati riguardano per la maggior parte di impieghi nel settore della ristorazione, nel settore della ricerca scientifica e nel settore dei media.

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Ad emergere è la capacità da parte dei soggetti di intraprendere un percorso lavorativo all’estero venendo incontro alle proprie aspettative ed interfacciandosi con le aziende, le organizzazioni e il personale in tutti i settori presi in considerazione.

Le evidenze dimostrano come i protagonisti riescono, nello svolgimento del loro percorso lavorativo, ad acquisire un maggior livello di responsabilizzazione, diventando più in grado di gestire e di muoversi consapevolmente fra le diverse situazioni contingenti. Misurandosi con le difficoltà di volta in volta incontrate – con la lingua straniera, le procedure burocratiche e gli obblighi legati ai visti e il cambiamento delle abitudini -, i soggetti, più o meno gradatamente, riescono a costruirsi un percorso di realizzazione delle proprie aspettative.

Il settore della ristorazione e la ricerca scientifica vedono impiegati la maggior parte degli intervistati. Ma anche F. B., che ha fondato une emittente radiofonica online con base a Londra, ha iniziato la sua esperienza lavorativa “a sbucciare le patate in cucina”. Ottenere un lavoro all’estero è generalmente visto come un’opportunità di apprendimento e di arricchimento personale che consente di ottenere “nuove qualità professionali” come afferma C. S. che fa la manager in un ristorante italiano a Melbourne e ha imparato a “gestire le persone all'interno di un ristorante” (C. S.).

In molti hanno cambiato diversi lavori passando da un settore a un altro, e da ruoli diversi, come F. B. che è passato dalla ristorazione, all’insegnamento presso una scuola secondaria e infine alla radiofonia; altri nello stesso settore, come S. L.:

Il primo lavoro è stato appunto da bar tender […] per il primo negozio di “deli-food” a Melbourne. Dopo tre giorni che stavo qua ho trovato lavoro in un ristorante vicino, sempre a St. Kilda […]. Ho iniziato lì, è andata bene. Ho lavorato lì due mesi o tre. Dopodiché, mi è stato offerto un altro lavoro in un'azienda migliore, sempre al bar, ma era un ristorante di alto livello. (S. L.)

A rilevarne indirettamente le implicazioni è Drucker (1994) che celebra l’assunzione da parte dei singoli della responsabilità di formarsi, aggiornarsi e realizzare sé stessi e costruire “diverse carriere”. Anche il lavoro di ricerca scientifica richiede di trasferirsi da un’organizzazione all’altra, spostandosi fra i paesi e mantenendo un elevato grado di mobilità e di capacità di passare (“vincere una posizione”) da un progetto all’altro, rinnovando, di volta in volta, contratti a tempo determinato con gli istituti di ricerca.

Dopo i due anni di esperienza all'ESA, ho vinto una posizione sempre di research fellow - di nuovo, queste serie di contratti che si fanno, di breve durata, di ricerca in enti all'estero – presso […] l’ESO che ha sede centrale a Monaco di Baviera e gestisce telescopi che stanno nel Sud del mondo, nel Cile […] Quindi dal 2008 al 2012 ero in Olanda all'ESA; dal 2012 vinco la posizione a Monaco di Baviera, presso l'ESO, quindi mi trasferisco a Monaco. […] Quattro o cinque volte all'anno andavo in Sudamerica, a Santiago e poi andavo a operare i telescopi per la Comunità Europea. [...] Avevo 3 anni di contratto a Monaco di Baviera, con periodi medio/lunghi (fino a 3 settimane/un mese) in Cile - dove stavo a lavorare un po' Santiago e poi andavo a lavorare ai telescopi. (G. B.)

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Le organizzazioni incontrate dagli intervistati tendono nella maggior parte dei casi ad integrarli subito, affidandolo loro maggiori responsabilità nel corso del tempo o offrendo una formazione in grado di svilupparne le capacità. Tra le evidenze emerge come alcune figure manageriali legittimano il processo di apprendimento (Lave e Wenger, 2006

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all’interno dell’organizzazione, facendo sentire i lavoratori valorizzati e responsabilizzati rispetto alle loro capacità e ai loro compiti.

Piano, piano, il manager si accorse che, forse, non ero molto idoneo a sbucciare le patate e mi ha consigliato - devo molto a lui, veramente - di fare un corso come agente di sicurezza. E così ho fatto. Da lì poi si è aperta una strada verso anche l'insegnamento della fisica all'interno di una scuola, una secondary school e poi una high school […] dove mi avevano fatto un contratto, che io potevo starci a tempo veramente indeterminato. (F. B.)

Tutte le persone (manager) che ho incontrato all'estero sono state pronte ad aiutarmi e a farmi crescere. […] Si sono sempre messi in prima linea per cercare di aiutarmi quando non riuscivo ad arrivare per la lingua […]. Sono stati disposti a farmi crescere nonostante, certo, ci sono dei tempi che magari potrebbero essere un po’ più lunghi rispetto a una persona che sa già […] in quel campo, nel caffè o nel portare i piatti, o qualsiasi cosa. Tutte le manager che ho avuto sono state a disposizione. (C. S.) Mi hanno insegnato a fare la "coffee maker", quindi a fare caffè, cosa che non ho mai fatto in Italia. E da lì ho iniziato a coprire quindi il ruolo principalmente del bar poi piano, piano, incominciando ad avere un inglese più "fluent" e avere più familiarità con l'altra cultura, essendo una persona abbastanza espansiva, sono riuscita poi a coprire altri ruoli, quale appunto responsabile di sala e poi manager. (S. L.)

Dopo essere arrivato […] ho cominciato subito a lavorare presso la Cornell per il progetto, appunto la tesi di specializzazione che volevo fare, a fare ricerca e raccogliere materiale. Sono stato messo sin da subito in condizione di poterlo fare al meglio. […] Ho trovato un ambiente che, al di là di darmi quelle le possibilità di poter lavorare sul mio progetto principale, […] mi ha comunque dato la possibilità anche di sviluppare altre idee contemporaneamente. […] La mia posizione è rimasta la stessa sin da quando sono arrivato, però sono aumentate le responsabilità e anche i progetti in cui sono stato coinvolto quindi, ovviamente, questo mi ha molto gratificato, perché l'ho ritenuto l'espressione di una maggiore stima nei miei confronti che spesso, anche, mi è stata dichiarata esplicitamente […] dai miei capi. (G. G.)

La responsabilizzazione maggiore e il livello d’investimento sul capitale umano consente, come espresso nelle narrazioni analizzate, una riduzione dei tempi della gavetta, grazie ad un sistema di lavoro basato sull’apprendimento e meno gravato dalle gerarchie opprimenti che caratterizzato il contesto italiano a cui è implicito il riferimento critico. L’esperienza del lavoro all’estero è rappresentata come una leva che accelera lo sviluppo economico e culturale degli individui. È rappresentativo il caso di G. G., che lavora presso un ente di ricerca medica a New York e lo confronta con la ricerca pubblica in Italia, evidenziando la differenza nella disponibilità di fondi e di personale e valutando l’efficacia maggiore dell’organizzazione statunitense nel rispondere ai fabbisogni, sia dei progetti sia del mercato di riferimento.

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Confrontarsi con la realtà estranea nelle organizzazioni e nella quotidianità consente di sperimentare nuovi ambienti relazionali e mettere a frutto le proprie qualità e abilità sul lavoro e nei rapporti umani. Ciò contribuisce, non senza difficoltà, a creare un forte senso di appartenenza con alcune implicazioni di carattere identitario, restituendo un senso di grande soddisfazione e arricchimento personale.

Per indole italiana siamo molto portati a generare un contesto di collaborazione, di solidarietà nel lavoro. Mi sono visto quindi a confronto con questa cultura. Tra l'altro, è importante che l'ESA è un Istituto internazionale e quindi in quel momento lì mi sono trovato in un contesto con colleghi da tutta Europa e anche da diverse parti del mondo. Quindi confronti quotidiani con culture, con la Francia, con la Spagna, con tedeschi, con portoghesi, quindi è stato molto eccitante, mi ha veramente caricato di energia positiva. […] All'istituto di Monaco […] è stata ancora più forte, più grande la soddisfazione di lavorare in un istituto internazionale che accoglie ricercatori da tutta Europa e da tutto il mondo: ci sono americani, cinesi, siamo molti europei naturalmente. (G. B.)

La sfida maggiore è stata proprio quella di confrontarsi con persone diverse, in ambiti e contesti simili a quelli da cui provenivo, per cui è naturale, si trovano anche qui degli amici, una fidanzata, un corpo di colleghi interessanti, comunque da ascoltare per capire meglio anche come ci si può esprimere in maniera sensata per la popolazione locale, portando quindi un arricchimento personale che è italiano, ma raffinato alla maniera estone. (D. T.)

Allinearsi e adattarsi alle richieste delle organizzazioni e investire su se stessi quotidianamente sono temi che emergono dall’analisi delle interviste, sebbene restino discorsivamente impliciti nelle parole degli emigrati. Il tempo quotidiano dedicato al lavoro è sottoposto alla pressione dei contesti organizzativi e della necessità di costruire e curare le condizioni per il mantenimento della propria posizione. L’apprendimento consente di migliorare le performances individuali in funzione del rinnovo del contratto, della stabilità successiva e del progetto ulteriore, garantendo la continuità della propria situazione. A ciò si aggiunge la necessità, in alcuni casi, di trovare nuovi contratti o progetti. In tutti i casi è richiesto un notevole investimento, in termini sia di fatica sia di tempistiche molto lunghe che vengono interiorizzate e vissute come necessarie. Queste pressioni sono esercitate in particolare dalle regolazioni previste dagli schemi immigratori e il caso dell’Australia è peculiare.

In Australia, per le regole ovviamente, tu puoi lavorare in un posto con il working holiday visa fino a sei mesi. Dopo i sei mesi devi cambiare datore di lavoro. (C. S.)

La legislazione Australiana prevede che per continuare a lavorare nel paese sia necessario rinnovare il visto lavorativo ogni anno64. Ogni è condizionato dall’aver ottenuto la

64Il programma Working Holiday Maker (WHM) prevede la concessione del visto per lavoro e studio (Working

Holiday Visa, subclass 417) rispettando determinate condizioni di eleggibilità: possedere un passaporto da un paese o una giurisdizione ammissibile; avere un'età compresa tra 18 e 30 anni (inclusi); fare domanda online dall'estero; non avere figli a carico; non essere mai entrato in precedenza in Australia. Coloro che hanno ottenuto il visto possono richiederne il rinnovo a condizione di aver completato 3 mesi di specific work mentre sono in possesso del primo visto. I posti in cui svolgere il periodo di lavoro includono: le aziende di coltivazione e

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certificazione che attesta il completamento di un periodo di circa tre mesi di lavoro in un’azienda agricola (farm) o in un’azienda di pesca, di allevamento, mineraria o edile nell’entroterra Australiano. Il regolamento fa gravare sugli individui la responsabilità di trovare la farm più adatta per svolgervi gli ottantotto giorni.

Sono andata a fare le famose farm, i tre mesi, però fatto wwoofing quindi non ricevevo pagamento, ma solo vitto e alloggio. Sono stata un mese in Tasmania e due mesi qua in Victoria, quindi in delle famiglie straniere. In Tasmania è stata una bellissima esperienza perché avevo ricercato appositamente una farm con cavalli, animali, […] per poter fare qualcosa che mi piaceva e quindi è stata una bella esperienza. E dopo ho fatto ho visto studentesco, come al solito, e allo stesso tempo lavoravo sempre nella ristorazione. (S. L)

S. L., dopo aver completato il periodo di farm ottiene il rinnovo del visto e torna a lavorare nel settore della ristorazione. Questo meccanismo legislativo si configura come un dispositivo che “mette in panchina”65 (Mezzadra e Neilson, 2014) i lavoratori e ne sospende il percorso lavorativo, costringendoli a trovarsi autonomamente una mansione dequalificata per assicurarsi di poter continuare a vivere nel paese straniero ed essere inclusi nella società. Si può leggerlo come un caso di moltiplicazione del lavoro e di disarticolazione della propria biografia personale che dilata i tempi del proprio progetto.

Iniziato questo percorso, dovrò interromperlo per andare a far le farm e poi riprenderlo. Fare le farm vuol dire che, fatti questi ottantotto giorni di farm, si può “applicare” per il secondo anno di working holiday visa in Australia e quindi si può stare qua un altro anno. (C. S.)

Ancora, il sistema dei visti si interseca con l’iter burocratico statunitense che allunga notevolmente i tempi necessari all’apertura del locale di C. F.

Si tratta di affrontare le conseguenze temporali, spesso indesiderate, delle interazioni con i regimi dei visti e le procedure burocratiche: i percorsi migratori possono essere interrotti e ritardati mentre si aspetta “in sospensione” l’esito di procedure che non è possibile controllare. Una “lotta” fra traiettorie di vita interrotte e status incerti, mentre si attraversano i “confini” fra transitorietà, temporalità prolungata e permanenza. Un tempo “sospeso” in base al quale «le vite […] dei migranti vengono modellate attraverso l'interazione con i regimi regolamentari temporali di visti e attesa, status e sospensione» (Stevens, 2019: 297: trad. personale).

allevamento, di pesca e di abbattimento di alberi, di estrazione e costruzione. La ricerca del lavoro è legata al reperimento di offerte di lavoro idoneo, tramite giornali, Internet e agenzie di collocamento. I candidati devono assicurarsi che l’impiego soddisfi la definizione di specific work e che si svolga in un’area dell'Australia rurale. Non è ammesso lasciare il lavoro fino alla fine del soggiorno ed è inoltre possibile richiedere un terzo visto per le vacanze di lavoro. Le informazioni sono disponibili al sito https://immi.homeaffairs.gov.au/what-we-do/whm- program/overview, consultato da me in data 12 settembre 2019.

65 La pratica del “mettere in panchina” (benching) è descritta da Mezzadra e Neilson (2014), che recuperano il

concetto dal lavoro di Xiang (2007), e consiste nel tenere in “riserva” i lavoratori creando una ‘mancanza virtuale’: una tecnica biopolitica per regolare ed equilibrare l’offerta del lavoro rispetto alla domanda e che nasce dalla richiesta del mercato di avere un’offerta in costante crescita.

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Questo tipo di pressioni esercitate dai dispositivi legislativi generano al contempo forme di attivazione delle risorse proprie degli intervistati per adattarsi ai cambiamenti e trovare soluzioni rispetto alle imposizioni normative (Bailey e Mulder, 2017). L’accoglimento favorevole e il “consenso” a tali pressioni è funzionale alla strutturazione delle condizioni stesse di lavoro e di apprendimento, inoltre incoraggia riflessivamente a cercare e curare meglio le proprie relazioni, con l’effetto di riprodurle nel tempo.

A questi elementi si aggiungono ulteriori difficoltà rappresentate in molti casi dalla “barriera della lingua” (C. S.) che viene rappresentata, almeno all’inizio del proprio periodo all’estero, come un fattore di integrazione o meno.

Ho lavorato lì (nel ristorante di lusso) due mesi con un po’ di difficoltà, se devo essere sincera: avevo sempre paura del contatto con il cliente - perché l'inglese non era mai chiaro al cento per cento; il loro menù poi, tra l'altro, era molto complicato - qui c'è questa cultura “fusion”, intercontinentale, asiatica, eccetera, eccetera - quindi piatti che io non conoscevo, nomi che non conoscevo, nemmeno in italiano, e, ogni volta che il cliente si presentava al bar, per me era difficile capirli. (S. L.)

Una cosa è parlare inglese a congressi internazionali con persone che non sono, diciamo, native english speaker o comunque non hanno l'inglese come lingua primaria, una cosa invece è, prima di tutto, parlare con persone che parlano inglese molto rapidamente perché è la loro lingua madre e, secondo, parlare inglese quotidianamente per vivere, per poter fare e poter inserirsi al meglio. (G. G.)

F. B. sostiene che parlare correttamente la lingua straniera, accanto alle procedure per realizzare il proprio progetto editoriale, sia una delle maggiori difficoltà. D. T. considera, invece, il proprio rapporto con la lingua estone come “una sfida”, il cui superamento gli consente di sentirsi integrato e apprezzato dalla comunità di destinazione.

Ti fa capire molte più cose, rispetto a dove vivi e ti fa sentire integrato però direi anche apprezzato, non solo dagli altri, ma anche da te stesso perché quello che vuoi comunicare riesci a farlo secondo il modo di qui… (D. T.)

Nonostante la pervasività, questi dispositivi, a cui si aggiunge la lingua (Agamben, 2006), sono esposti a delle “rotture” che permettono il dispiegarsi di pratiche le quali possono modificare il rapporto di forza dall’”interno”.

Nelle tracce delle interviste, questo confronto, anche conflittuale, con la realtà estranea e il superamento delle difficoltà che attraversano la vita quotidiana, implicano una continua rinegoziazione delle abitudini e di ciò che veniva dato per scontato prima della partenza.

L’esperienza di D. T. in Estonia, sia nel rapporto con il cibo locale che con il clima freddo, è la più idonea a testimoniare queste sperimentazioni.

Qui la cucina, il modo di vivere, appunto, trasforma la dieta di una persona. Ma c'è sempre anche […] una componente personale che è il gusto, per esempio. Quindi, il gusto di una pastasciutta […] lo si mantiene […] tranquillamente, anche perché riconosco che c'è un discreto apprezzamento della nostra cucina. […] Non nascondo che, comunque, alcuni piatti estoni, alcune bevande anche - mi piace molto, per esempio, la limonata di Tartu -, ti rendono molto più sintonizzato con il mondo in cui sei, - perché

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Il clima è una componente importante. […] Significa adattarsi a tante ore di buio durante l'inverno […] un'atmosfera che può influenzare un po’ l'umore della persona, se non si trovano delle attività di supporto, di intrattenimento […]. E quindi in clima, […] la temperatura molto rigida per pochi giorni l'anno […] lo si affronta bene se si hanno attività che si svolgono con passione, con interesse. Può essere la lettura di un libro qualche volta, oppure fare una corsa fuori, se il tempo lo permette, altrimenti ci sono delle palestre molto attrezzate e anche i cori, insomma attività di intrattenimento molto interessanti e piacevoli. (D. T.)

Rinegoziare le proprie abitudini significa attivarsi e sperimentare gradatamente una serie di strategie di micro-resistenza – come l’adattamento alla cultura locale, apprezzandone alcuni aspetti, o l’aver trovato delle attività ricreative e appassionanti in grado di far passare meglio il tempo – che contribuiscono alla propria realizzazione e consentono, in una certa misura, di “sfuggire” alla cattura delle logiche regolatrici delle esistenze.

A questo punto, la maggior parte delle evidenze mostra come, proprio attraverso l’attivazione delle risorse individuali, delle proprie energie e capacità sia professionali sia personali, diventa possibile - per gli emigrati qualificati italiani all’estero – trovare una «realizzazione individuale soddisfacente» e una disponibilità di spazi di soggettivazione (Gjergji, 2015: 18).

Tra le sospensioni, le difficoltà esistenti e le opportunità di crescere ed imparare, FB ammette:

“Non si può rimanere a galla. O si nuota… Sto ancora nuotando e spero di nuotare ancora perchè rimanere affogato è terribile. Non è semplice.” (F. B.)

Con una metafora viene espressa la sensazione permanente di trovarsi su una “china scivolosa” (Rosa, 2015) poiché la riuscita del proprio progetto di mobilità nel lungo periodo implica il misurarsi continuamente e individualmente con tutta una serie di dispositivi di sospensione e contesti competitivi, per cui è necessario “nuotare” per non “affogare”.

I contesti affrontati vengono, però, giudicati dagli intervistati molto più dinamici rispetto a quello di provenienza e certamente più inclusivi per i “talenti” espatriati. Per molti ciò si è tradotto nella possibilità di realizzare gradatamente le proprie aspettative di trovare un impiego congruo con le proprie competenze e abilità, venendo integrati nel mercato del lavoro estero. L’inclusione e quindi l’“inserirsi” (G. G.), il “sentirsi integrato” (D. T.), non impedisce, comunque, di essere esclusi, trovandosi sospesi in una situazione di precarietà e rischio, come discusso da Standing (2015). Anzi, è la libertà di essere imprenditori di sé stessi e di dover gestire individualmente la propria vita a tradursi per molti in una condizione di precarietà e incertezza. Dal chiasmo fra questi elementi risultano notevoli frizioni e tensioni che attraversano i confini fra istituzioni, processi e pratiche, tra logiche dominanti e forme di resistenza, ma, attraverso la capacità di attivare i propri legami e l’acquisizione di maggiore

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consapevolezza rispetto al contesto locale (lingua, regole e rapporti di potere nelle organizzazioni) sembra possibile, al contempo, resistere alle difficoltà e agli sconforti.

Concludendo, dai racconti emerge la descrizione di quei momenti di passaggio da un impiego lavorativo ad un altro, da un ruolo a quello successivo. Le riflessioni degli intervistati ruotano attorno alle modalità di transito da una posizione all'altra. Si va dai luoghi, ai tempi e ai percorsi di formazioni seguiti, attraverso i contesti in cui le persone sono cresciute, con le prime esperienze lavorative fino ai cambiamenti subiti o scelti, passando per la maggiore