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M ETTERSI ALLA PROVA FRA ESPERIENZE , LEGAMI E ASPETTATIVE

Il primo ambito dell’analisi delle interviste ha esplorato le modalità di attivazione delle risorse dei singoli e le loro capacità riflessive. A partire dalla propria esperienza formativa tutti i soggetti hanno raccontato il loro percorso intrapreso all’estero. Un progetto costruito individualmente – “Sono partito da solo” (G. G.) –, in cui i soggetti si muovono, appunto, “da soli” per “mettersi alla prova”, attivando anche faticosamente le proprie risorse e recuperando le fila della propria esperienza formativa passata.

Mi sono laureato in Italia in legge. Ho fatto giurisprudenza, cinque anni con specialistica in diritto commerciale. Ho lavorato due anni nel ristorante di famiglia e ho aperto un bar con mia sorella. Ho iniziato a pensare di spostarmi a New York quattro anni fa, durante una Summer School alla New York University. […] Motivi della partenza: svariati. Un po’ per l'excitement di New York che ha fatto, diciamo, la sua parte e la volontà di mettermi alla prova in un mercato competitivo, soprattutto a livello di ristorazione ed entertainment. Sono partito da solo. (C. F)

79 Ho un diploma nelle scienze sociali con specializzazione nell'educazione dei bambini. Finite le superiori ho fatto un corso post-diploma sempre come educatrice per l'infanzia. […] Il primo lavoro serio è stato in un asilo nido dove facevo un part-time: ho lavorato lì per tre anni. L'ultimo anno in contemporanea ho iniziato a lavorare part-time in un azienda di fotocopiatrici […] che mi ha lasciato a casa dopo sei anni di contratti a termine, di sei mesi in sei mesi, un mese. Alla fine, mi hanno definitivamente lasciato a casa. Ho provato per cinque mesi a trovarmi un altro posto di lavoro qualsiasi, anche bar, ma non sono riuscita a trovare niente. Quindi, ho preso la palla al balzo e ho deciso di andare all'estero. Un po’ perché è stata la cosa che ho sempre voluto fare quella di spostarmi… (C. S.)

Mi sono laureata e mediazione linguistico-culturale ma ho focalizzato, più che altro, la mia conoscenza sul rapporto con le persone: come mediare, come tradurre tra una cultura e l'altra, più che avere una familiarità con la lingua stessa. Quando poi ho finito l'Università non avevo abbastanza soldi da parte perchè tutto quello che guadagnavo fondamentalmente lo davo alla famiglia. Però mi sono messa in testa di lavorare più che potevo, come “bar tender”, sempre nella ristorazione, nei bar […]. E quando mi sono messa quei "couple of thousand dollars" da parte […] sono venuta qua (a Melbourne), da sola e con tante paure. (S. L.)

Tra le prime evidenze risulta che l’espatrio è legato alla formazione e pensato come un progetto in cui investire: un periodo di tempo limitato e finalizzato al raggiungimento di un obiettivo specifico. Muoversi per crearsi una “possibilità”, un’opportunità di apprendimento e di lavoro, diventa allora il presupposto per seguire un desiderio e realizzare un obiettivo che appare chiaro solo con il passare del tempo.

Vado sei mesi. Mi faccio un'esperienza, almeno imparo l'inglese. Perchè quello era il mio obiettivo principale, anche se in realtà, inconsciamente, quell'obiettivo reale che avevo era quello di cambiare la mia vita: cioè crearmi una possibilità che non potevo crearmi a Roma. (S. L.)

Sono arrivato a Londra, a Stansted, non conoscevo nessuno. Sono partito, appunto, da solo con uno zaino e basta e un diario […]. Ho iniziato da zero. Mi sono riproposto, mi sono rimesso in gioco con un obiettivo ben delineato in testa, un buon progetto in testa […]. (F. B.)

L’esperienza all’estero è vissuta in questi casi come necessaria per completare e migliorare la propria formazione alla ricerca di migliori opportunità rispetto a quelle in patria.62 Questi elementi sono condivisi sia nell’esperienza di G. G. nel settore della ricerca medica che da E. S. che opera nel settore cinematografico.

I motivi della partenza erano inizialmente due: il primo […] quello di fare un'esperienza all'estero e quindi anche vedere come nel mio settore altri paesi funzionano e anche lavorano. Il secondo era ovviamente quello di fare una tesi di specializzazione che fosse di qualità e che mi permettesse di poter pubblicare i miei risultati in un lavoro scientifico, come poi è successo. Questi sono stati i miei primi obiettivi. Poi dopo si sono aperte ulteriori opportunità che mi hanno poi portato, dopo il conseguimento del titolo di specialista in neurologia, a proseguire la mia esperienza dove sono ora, a New York. (G. G.)

62 Il maggior livello di qualificazione, l’essere disoccupati, le percezioni individuali degli standard di vita e della

soddisfazione personale, nonché le percezioni delle condizioni economiche locali, sono correlate positivamente alla maggiore probabilità di espatriare (Migali e Scipioni, 2019).

80 Ho lavorato […] sette anni nell'industria cinematografica italiana, dove credo di aver imparato abbastanza su come si produce un film, e sono qui per arricchire questo know-how e rendermi… Come dicono gli americani: migliorare continuamente me stesso e spero di aver opportunità di produrre film qui. (E. S.)

La scelta di emigrare è anche una strategia di exit per sottrarsi a una “situazione di grande sofferenza” come lamenta E. S., che sia data dalla mancanza di prospettive lavorative – “(all’estero) è vero che ci sono più opportunità” (C. S.) – o il non trovarsi bene con la “mentalità e la cultura nel modo di fare italiano” (E. S.).63

Gli intervistati si sono attivati e impegnati nella ricerca di opportunità, sentendosi spesso soli, sia alla partenza sia durante il periodo all’estero. Sebbene la solitudine sia stata rappresentata come un punto di forza del loro percorso, essa segnala il grado di autonomia che caratterizza i soggetti ed è la cifra della responsabilità che grava su ciascuno di loro.

Come emerge dai racconti, muoversi alla ricerca di un’opportunità di lavoro significa doversi attivare individualmente, inviando magari “un'ottantina di curriculum prima di riuscire a trovare il mio primo lavoro” (C. S.) oppure spendere giornalmente “otto ore su internet cercando di contattare agenti, creare networking” (E. S.) ma anche impegnarsi in maniera più mirata a “studiare il mercato durante la ricerca della location” (C. F.) per la buona riuscita del proprio progetto. Un fare affidamento solo su se stessi che si concretizza nella capacità di trovare informazioni e contatti, ma in solitudine.

Questa solitudine è affrontata tenendosi in rete con i propri connazionali “gli amici più stretti” (S. L.), sia attraverso l’uso delle piattaforme social online, sia condividendo la propria situazione non dissimile, arrivando ad allargare la propria rete di amicizie, associandosi ed eventualmente trovando lavoro. I percorsi delle due intervistate a Melbourne sono molto simili e l’aiuto ricevuto dai connazionali è condiviso anche da C. F. a New York:

Un gruppo (su Facebook) chiamato "italiani a Melbourne" […] mi ha aiutato a non sentirmi sola. Nel senso che a volte è bello vedere che ci sono altre persone che sono nella stessa situazione, la pensano come te, più o meno ovviamente, però hanno i tuoi stessi problemi e li condividono in una bacheca dove tutti possono leggere (C. S.)

La prima persona che ho incontrato era una ragazza - che io conoscevo su Facebook, tramite un mio amico di Roma - Giorgia e il suo ragazzo Luca, che mi hanno ospitato qui a Melbourne per la prima settimana. Quindi loro non conoscevano me, io non conoscevo loro. Avevamo questo amico comune e loro, molto carini […] mi hanno ospitato sul loro divano. […] Quindi loro conoscevano altri italiani che conoscevano altri italiani e via dicendo. Si è creato nel giro di un paio d'anni un gruppo notevolmente

63 Alla base delle motivazioni individuali si può individuare la commistione due elementi di agency: il «desiderio

di andare via» (Gjegji, 2015: 17) e la «disponibilità a partire» (Burchi in Tomei, 2017: 154). Gjergji ritiene che chi emigra lo fa perché spinto, al pari dei differenziali economico-strutturali, dal “contesto culturale e politico asfissiante” gravato da “un’immobilità economica e sociale” che impedisce di programmarsi un futuro e di immaginarsi in una situazione migliore (Gjergji, 2015). L’essere disposti a lasciare la propria patria a un insieme di motivazioni e stati d’animo: dall’identificazione della «scelta di partire come ovvia in un mondo del lavoro […] internazionale […] che si alimenta di una rete di conoscenza che ha i suoi diversi poli dislocati in un contesto sovra-nazionale» o muovendosi «a partire dalla considerazione che sia necessario allontanarsi […] da un paese bloccato che offre ai giovani interminabili tempi di gavetta e precarietà» (Burchi in Tomei, 2017: 154).

81 numeroso di italiani che poi mi hanno portato, appunto, a lavorare qua in questo ristorante… […] Questa comunità italiana a St. Kilda, molto forte, tra cui, appunto, abbiamo qui l'associazione NomIt… (S. L.)

Avevo già qualche amico che viveva qui a New York, che mi ha sicuramente aiutato con i primi alloggi e le prime difficoltà. (C. F.)

Gli intervistati per coltivare le proprie relazioni fanno riferimento sia ai connazionali già presenti nel luogo di destinazione per affinità linguistiche e motivi nostalgici, sia costruendo legami con i “locali”.

Per questioni linguistiche e anche per questioni potremmo dire nostalgiche, ho cercato di crearmi un piccolo gruppo di amici italiani, all'inizio, e poi di estendere le mie conoscenze anche a persone provenienti da altri paesi, soprattutto dopo che ho imparato meglio a parlare inglese. Conosco molte persone che sono coinvolte in attività lavorative simili alle mie; ma anche in attività molte diverse: imprenditoriali di diverso tipo o anche in settori di diverso tipo come la finanza o come il business più in generale (G. G.)

Quando io qui ero nuovo e veramente non conoscevo nessuno… […] Iniziando a fare piccoli corsi ed altri progetti, ho creato una mia rete di contatti. […] Poi piano, piano […] ho iniziato a conoscere altri italiani che sono diventati poi comunque la mia famiglia, il gruppo con cui condivido le esperienze più importanti qui. (E. S.)

Sia a Londra che a Tallin non sembrano essere presenti delle comunità italiane attive. F. B., raccontando dei propri rapporti con gli italiani a Londra, parla di una comunità italiana “a coriandoli” che corrisponde alla rete di “grumi” suggerita da Maddaloni (2019): «piccoli cluster di nostri connazionali che hanno preso a frequentarsi per motivi legati al lavoro […], all’affinità generazionale» (Maddaloni, 2019: 181).

Interagire tra gli stessi italiani diventa un po’ un problema perché, a volte, o ci chiudiamo troppo oppure ci sono troppe cose da fare, e poi muoversi da un punto all'altro a Londra diventa veramente terribile anche se c'è la metropolitana. […] Io ho un buon rapporto con i miei coetanei. Ci si confronta a livello lavorativo, poi si va in giro insieme. Ho incontrato anche qualche toscano […] Quei pochi italiani si possono ancora incontrare, stiamo insieme, parliamo, ci confrontiamo. […] Cerchiamo di condividere un percorso insieme […] come tanti coriandoli colorati, però sparsi. (F. B.)

Similmente D. T. reputa la comunità italiana a Tallin molto frammentaria e parla di “dimensione individualistica” nel modo di vivere degli Estoni e della conseguente “responsabilità di rendere la casa abitabile”

Questa cultura, secondo me, tende molto ad assorbire le identità nazionali in una vita abbastanza privata, una vita domestica, per così dire, che poi viene condivisa grazie ad attività di vario tipo. […] Dove si vive… Soprattutto d'inverno, la casa diventa una specie di agorà, cioè non quello esterno, ma se si riesce ad invitare qualcuno in casa, a stare bene in casa con una o più persone, già quello all'ambiente di forte socializzazione. (D. T.)

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Nelle narrazioni esplorate, le vite si organizzano intorno al lavoro con poco tempo dedicato ad altre attività, tranne alcune eccezioni che, nei casi individuati, rappresentano un possibile canale di attivazione per la creazione di reti sociali funzionali all’inclusione. L’esperienza di D. T. che, raccontando la propria routine quotidiana a Tallin, parla delle proprie relazioni quando non è “impegnato con uno schermo” è simile a quella di G. B che si è sentito “inserito nella società” giocando a pallacanestro.

Ultimamente ho scoperto l'importanza di cantare, quindi due volte alla settimana la mia giornata tipo potrebbe coinvolgere due ore di canto, oppure anche la palestra. Quindi riuscire a correre, a fare degli esercizi in compagnia, di gruppo, quando insomma si ha il tempo di partecipare. (D. T.)

L’ho visto nella quotidianità […] quando ci si trovava a cucinare insieme o a lavorare insieme. È stato molto, molto, molto importante e ho imparato l'inglese […] Mi sono inserito poi nella società olandese: giocavo a basket nella squadra di un piccolo paese dell'Olanda. Era molto bello vedere come gli olandesi, per esempio, nonostante io fossi l'unica persona non-olandese, parlassero tutti inglese con me… (G. B.)

Le esperienze all’estero vengono discorsivamente inscritte in un quadro di successi nei vari settori di volta in volta considerati (Tomei, 2017). Le vicende personali dei protagonisti consentono di far emergere anche l’altra faccia dei percorsi di mobilità valutati come eccellenti, testimoniando come, insieme ai “cervelli”, espatriano sopratutto i “corpi” (Gjergji, 2015) e come i fallimenti in cui sono incorsi ne abbiano segnato l’esperienza fisica, cognitiva ed emotiva.

Molti degli intervistati rilevano di essere cresciuti professionalmente e personalmente sentendosi “più forte di prima” (S. L.), “internamente e esternamente” (C. S.), provando “grande soddisfazione” per il proprio percorso (G. B.), dedicandosi quotidianamente alla propria attività per “crescere insieme” (F. B.) e soddisfacendo il proprio “bisogno di fare un percorso personale” (E. S.). A questi successi, che possono riguardare l’aver trovato un impiego ben retribuito e adeguato alle proprie competenze e aspirazione, l’aver ottenuto un successo sul lavoro e/o l’essere coinvolti in un progetto ambizioso “molto gratificante” (G. G.), si alternano dei fallimenti nel percorso che vengono affrontati impiegando le proprie energie in modi molteplici.

C. F., raccontando l’iter per l’apertura della sua attività a New York, lamenta di non essere riuscito inizialmente ad ottenere il lease necessario perché l’affittuario “preferiva affidarsi ad un tenant americano”, allungando così le tempistiche di un processo burocratico di per se già farraginoso, costringendolo a cercare una nuova posizione e comportando ulteriore fatica. Per D. T. invece il “non riuscire a mantenere tante amicizie in Italia” è stato vissuto come deludente, portandolo a costruirsi nuove relazioni e affetti, pur relazionandosi con una popolazione locale che inizialmente non riusciva a comprendere. C. S. rimpiange il non essere cresciuta dal punto di vista della lingua, sviluppando un’inglese al di fuori del contesto lavorativo; mentre E. S. si è sentito scoraggiato nel continuare il suo percorso dopo

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aver incontrato “degli italiani che […] erano qui con dei sogni e delle speranze che non si sono avverati e quindi, non so per quale ragione, hanno, in qualche maniera, voluto scoraggiarmi” (E. S.)

Anche il non riuscire a costruirsi delle relazioni affettive durature è vissuto come un fallimento per G. B.:

In tutto questo non sono riuscito a avere una famiglia, non sono riuscito a tenere una relazione stabile per vari motivi. […] Chiaramente ho provato, ho desiderato avere relazioni stabili però era molto complicato, effettivamente - questo è da riconoscere-, quando si viaggia molto. Quando ci si sposta molto è difficile riuscire ad avere una situazione stabile familiare. (G. B.)

Queste difficoltà, sia iniziali che riscontrate durante l’arco della loro permanenza all’estero, non hanno impedito loro di giudicare in modo positivo - anche usando poche parole “sono molto contento della scelta fatta” (C. F.), “sono contento del percorso che ho fatto” (F. B.) –, la propria esperienza migratoria e di lavoro. Infatti, questa è una delle evidenze che accomuna molte delle esperienze narrate.

Sono contenta di essere arrivata fino a qua e di esserci arrivata col sorriso sulle labbra, perché non me l'aspettavo.” (C. S)

Ho avuto un'esperienza bellissima con tutti i lati negativi e tutti i lati positivi (S. L.)

Un’altra caratteristica comune a molte esperienze fra gli intervistati “partiti da soli” – che hanno superato le proprie difficoltà, orgogliosi della riuscita individuale del proprio percorso – , è il ritorno periodico in patria. Si tratta di brevi periodi segnati da rientri e ripartenze che sono delle «tappe ripetibili di un processo […] non necessariamente programmate» (Bonifazi e Livi Bacci, 2014: 97) e connotano il carattere essenzialmente flessibile dei percorsi biografici di questi “nuovi mobili” (ibidem).

Ritorno abbastanza frequentemente, almeno tre volte l'anno. Tendenzialmente, durante i periodi dove c'è un po’ meno lavoro, quindi soprattutto nei mesi freddi, a gennaio-febbraio, riesco a ritagliarmi un discreto spazio per rientrare a casa. (C. F.)

Ritorno in Italia prevalentemente per affetti, per la mia famiglia, per i miei amici, e, di solito, una volta l'anno poi, dipende, in base alle esigenze e anche alle possibilità economiche. (E. S.)

Questi rientri sono dettati, per lo più, dalla nostalgia e dalla lontananza dagli affetti familiari e amicali e dai periodi di assenza dal lavoro, coincidenti con i periodi delle vacanze natalizie ed estive. Un sostanziale turismo di ritorno legato al recupero degli affetti e alla necessità di decelerare e ritagliarsi uno spazio-tempo (Elliott e Urry, 2013) utile a rinnovare il visto o a riabbracciare nuovamente il lifestyle italiano che, nel caso di F. B, invece, assume, diversamente dagli altri, un carattere claustrofobico se confrontato con il “British style” che apprezza molto.

84 Rientro in Italia generalmente due volte l'anno, per il periodo estivo e per il periodo natalizio. Generalmente sto due settimane a Natale e due settimane durante il periodo estivo. Il periodo estivo mi serve prevalentemente anche per rinnovare il visto presso l'ambasciata, prima di poter ritornare qua. (G. G.)

Personalmente torno in Italia una volta all'anno o ogni due anni, solo ed esclusivamente per affetti, familiari e per la mia migliore amica - che è l'unica cosa che realmente, io sento, mi si spezza il cuore tutti i giorni perché non è qui […]. Non ho mai fatto più di un mese e mezzo. Il primo anno che sono tornata sono stata un mese e mezzo. "Basta!" Dopodiché solo tre settimane, quattro settimane, solo per vacanza, motivi familiari e altro. Me ne vado in vacanza in Italia e sto a casa in Australia. (S. L.) Ritornare in Italia… Sì, ogni tanto, magari, per le feste natalizie, c'è questo desiderio, ovviamente. Sopratutto le feste natalizie ricordano la famiglia quindi è chiaro che, sotto Natale, uno è più spinto a ritornare in Italia, però, dopo un po' in Italia soffoco. (F. B.)

Il tema del ritorno in Italia è legato anche alle aspettative future. Rispetto a ciò s’intrecciano diverse possibilità nelle storie degli intervistati che fanno riferimento, per la maggior parte, alla prospettiva di “non tornare più” stabilendosi all’estero permanentemente o allo sfruttamento dell’esperienza migratoria come trampolino di lancio per un successivo spostamento. Si tratta complessivamente di prospettive lontane dal concretizzarsi a breve.

Si configurano come progetti incerti – in cui “tutto è da vedere” e “non si può escludere nulla” – soggetti a mutamento in relazione al successo del proprio percorso di inserimento nella società locale, agli affetti, alla necessità di dedicarsi all’attività lavorativa intrapresa o dei benefici socio-culturali derivanti dal continuare a vivere all’estero.

Voglio tornare in Italia alla fine di questo visto. Sono partita nel giro di un mese quindi ho lasciato tutto e tutti. Voglio tornare in Italia perchè voglio salutare alcuni parenti, alcuni amici e sarà un breve periodo. Vedrò se fare, magari, il Natale a casa e poi, dato che il mio visto scade a maggio, farò – sì – sei mesi in Italia e poi voglio tornare qua, in Australia; e voglio trovare il modo per rimanerci. Nel mio futuro prevedo di tornare, però per vacanza, per brevi periodi. Poi il futuro cambia sempre, non è mai come te lo aspetti, però per il momento la penso così. Preferisco vedere il mio futuro qua che non in Italia… (C. S.)

Per quanto mi riguarda non c'è un rientro definitivo in Italia per il semplice fatto che non mi vedo in Italia […]. Quindi non rientro […]. Poi vedremo, perché tutto è da vedere. Fondamentalmente, i progetti […] sono quelli, un giorno, di avere l'indipendenza per poter decidere di fare magari tre mesi di stagione in Italia o anche sei e il resto in Australia. Essere aperti a mille opportunità… (S. L.)

Decisamente penso che il rientro in Italia sia abbastanza lontano, penso però che, forse, un giorno rientrerò. Però, prima voglio godermi appieno questa avventura. (C. F.)

Le aspettative si intersecano con i desideri e le aspirazioni personali, legate alla riproduzione della responsabilità nei confronti della comunità di origine e all’espressione di

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un proprio senso di appartenenza culturale ad essa, attraverso le rimesse monetarie, cognitive e sociali (Tomei, 2014).

Il mio obiettivo è quello di poter portare il mio contributo e riportare quello che ho imparato qua a casa in Italia, perché è casa mia. Qualora, però, non ci riuscissi sono nuovamente aperto ad esperienze all'estero ma probabilmente… Poi nella vita non si può escludere nulla. (G. G.)

Sentendo il mio futuro come una costruzione, per un processo performativo, diciamo, lo vedo qui. Però