normativa sulle società pubbliche
5. LIMITI ALLA LEGISLAZIONE STATALE SULLE SOCIETÀ PARTECIPATE.
Negli ultimi anni, a fronte di esigenze sempre più incombenti di controllo della spesa pubblica, il Governo si è dovuto impegnare nei confronti delle istituzioni dell’Unione Europea ad adottare misure che garantiscano “la chiarezza della disciplina, la
semplificazione normativa, la tutela e la promozione della concorrenza, la riduzione e razionalizzazione delle società a partecipazione pubblica, l’omogeneizzazione
della disciplina interna con quella europea in materia di attività economiche di interesse generale”.6 Il legislatore ha, dunque, cercato (e sta cercando) di realizzare una globale razionalizzazione delle partecipazioni delle pubbliche amministrazioni, soprattutto a livello locale, nonché di riordinare l’assetto normativo.
Uno dei cardini di ogni tentativo di riforma delle società pubbliche è l’art. 3, comma 27, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008). Come abbiamo visto nel precedente capitolo (paragr. 4), tale comma contiene il divieto a tutte le amministrazioni statali, regionali e locali di “costituire società aventi per oggetto
attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”, nonché di “assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
Tale norma non si applica alle società quotate in mercati regolamentati, alle partecipazione indirette, ai servizi di interesse generale e ai servizi di committenza. La stessa Corte costituzionale ha riconosciuto a tale norma l’idoneità a limitare gli abusi dello strumento societario anche nella prospettiva di tutela della concorrenza.7 Gli aspetti da considerare nel concetto di attività strettamente necessarie sono due: - la necessità dell’attività rispetto a obiettivi che rientrano nelle finalità istituzionali dell’amministrazione pubblica;
- la necessità dello strumento della partecipazione societaria, rispetto a modalità alternative tramite le quali può essere garantita l’offerta dei beni o servizi interessati. La stessa disposizione, oltre a porre un limite ai comportamenti futuri di tutte le amministrazioni rispetto alla costituzione di nuove società o all’assunzione di nuove partecipazioni, implica per le medesime amministrazioni l’obbligo di elaborare una politica di gestione delle partecipazioni societarie che va aggiornata ed, eventualmente, riveduta a intervalli di tempo regolari al fine di dismettere le società o le partecipazioni divenute non più necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali o anche nel caso in cui quella modalità di intervento pubblico si riveli non più efficiente.
Ogni intervento di razionalizzazione e di riordino della disciplina delle società pubbliche da parte dello Stato incontra però il limite della sua competenza legislativa statuito dall’art. 117 della Costituzione. Questo limite è stato evidenziato dalla
6 Documento di Economia e Finanza 2015, Programma Nazionale di Riforma – La strategia
nazionale e le principali iniziative, deliberato dal Consiglio dei Ministri il 10 Aprile 2015.
sentenza 23 luglio 2013, n. 229 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dei commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3 sexies e 8 dell'articolo 4 della “spending review” nella parte in cui si applicano alle Regioni ad autonomia ordinaria. Le norme impugnate sono attinenti alle attribuzioni e alla competenza legislativa regionale inerente l'organizzazione e il funzionamento della Regione e pertanto violano l'art. 117 della Costituzione. Diversamente l'organizzazione e il funzionamento degli enti locali rientrano nella competenza legislativa statale e, quindi, le medesime norme per le quali è stata dichiarata l'incostituzionalità, ove applicate alle Regioni a statuto ordinario, sono invece pienamente legittime se riferite agli enti locali e alle altre pubbliche amministrazioni che non godono di autonomia costituzionalmente garantita.
La Corte si sofferma sulle norme statali finalizzate a delimitare l’attività amministrativa in forma privatistica dall’attività commerciale svolta dagli enti pubblici per mezzo di società partecipate, quale ad esempio l’art. 13 del decreto legge n. 223/2006 che ha stabilito stretti limiti all’attività delle società strumentali, vietando a queste di svolgere attività sul mercato e di partecipare in altre società, con l’eccezione delle società di intermediazione finanziaria, delle centrali di committenza e delle società che svolgono funzioni amministrative. Questi limiti trovano il proprio cardine nella competenza legislativa in materia di tutela della concorrenza ex art. 117 Cost., comma 2, lett. e) che corrisponde alla medesima disciplina europea sui requisiti per gli affidamenti diretti. Lo scopo è evitare alterazioni della libera concorrenza a sfavore di altri soggetti privati e garantire che le società “quasi amministrazioni” rivolgano la loro attività in favore degli enti pubblici di riferimento. In relazione all’autonomia organizzativa delle amministrazioni locali e alla possibilità di costituire o meno società strumentali, lo Stato può intervenire unicamente con riferimento alla competenza in materia di ordinamento degli enti locali per lo svolgimento delle funzioni fondamentali previste dall’art. 117 Cost., comma 2, lettera p).
Per quanto riguarda i vincoli all’organizzazione delle società pubbliche, come, ad esempio, sulla composizione del consiglio di amministrazione, sulle forme di responsabilità degli amministratori e del personale dirigenziale, sul rapporto di lavoro dei dipendenti e sulla loro remunerazione, l’intervento legislativo si basa sulla competenza in materia di ordinamento civile, vale a dire, dopo aver optato per una determinata gestione di un servizio pubblico, gli enti territoriali locali e regionali
dovranno osservare lo speciale statuto che governa la società partecipata che, se pur in possesso di connotazioni pubbliche, è assimilabile al modello societario fondato sul codice civile.
Sempre nell’ambito delle previsioni dell’art. 117 Cost., il comma 3 attribuisce allo Stato la legittimazione a emanare norme per il “coordinamento della finanza pubblica” in regime di concorrenza legislativa con le regioni. Spetta, dunque, allo Stato stabilire i principi che poi le regioni dovranno attuare scegliendo le modalità per raggiungere gli obiettivi. Si aggiunga che la Corte Costituzionale, con la sentenza 24 luglio 2013, n. 236 ha fatto salvo l'articolo 9 del decreto legge n. 95/2012, circoscrivendone l'ambito di applicazione “ai soggetti - enti, agenzie e organismi
comunque denominati - che operano nell'ambito di comuni, province e città metropolitane” e riconoscendo che “il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all'autonomia di spesa degli enti territoriali.... La norma impugnata, infatti, dopo aver indicativamente previsto la possibilità di una soppressione o di un accorpamento degli «enti, agenzie e organismi comunque denominati», limita il contenuto inderogabile della disposizione al risultato di una riduzione del 20 per cento dei costi del funzionamento degli enti strumentali degli enti locali. In sostanza, l'accorpamento o la soppressione di taluni di questi enti può essere lo strumento, ma non il solo, per ottenere l'obiettivo di una riduzione del 20 per cento dei costi.”
6. LA DECRETAZIONE D’URGENZA DEL GOVERNO RENZI SULLE