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Limiti alla successione di contratti con lo stesso lavoratore

Nel documento Disciplina delle mansioni (art. 3) (pagine 175-179)

LAVORO A TEMPO DETERMINATO

3. I limiti al primo contratto ed alla successione di contratti (art. 19)

3.3. Limiti alla successione di contratti con lo stesso lavoratore

I commi 2 e 3 dell’art. 19, che seguono il comma 1, relativo al limite di durata del singolo contratto e precedono il comma 4, concernente il requisito di for-ma, riprendono la disciplina sulle assunzioni successive a termine dello stesso lavoratore presente nell’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368/2001 ed ivi in-trodotta dalla l. n. 247/2007, in attuazione del protocollo sul welfare del luglio dello stesso anno, ma presentano anche delle importanti novità. La continuità è data dal limite dei 36 mesi che non possono essere superati, indipendentemen-te dai periodi di inindipendentemen-terruzione tra un contratto e l’altro, dalle successive assun-zioni delle stesso lavoratore. La norma del 2007 intendeva sanare una lacuna formatasi nel nostro ordinamento dopo che l’art. 12 della l. n. 196/1997 non aveva più riprodotto la norma dell’art. 2, comma 2, della l. n. 230/1962 che sanciva la trasformazione in un unico contratto a tempo indeterminato dei suc-cessivi contratti a termine che risultassero stipulati in frode alle regole poste dalla legge stessa. Si trattava, com’è noto, di una frode oggettiva, rilevabile quando per la numerosità dei contratti e per l’ampiezza dell’arco temporale in cui gli stessi si erano svolti, si poteva affermare che erano stati conclusi per far fronte ad un’esigenza duratura, e non temporanea, di lavoro. La lacuna era ap-parente, perché in situazioni quale quella appena accennata, come alla fine è stato riconosciuto quasi da tutti, poteva farsi ricorso all’istituto civilistico del negozio in frode alla legge. Per rendere il limite più chiaro e non più affidato alla discrezionalità del giudice nel 2007 si è ritenuto che la sussistenza di una esigenza di lavoro continuativa, e non temporanea, dovesse essere affermata dopo una sequela di contratti, la cui durata, con esclusione dei periodi di inter-vallo tra l’uno e l’altro, superasse i 36 mesi. Norma precisa, come ho detto, ma anche irrazionale, laddove, secondo l’interpretazione prevalente, non conside-rava per nulla l’arco temporale della successione contrattuale, che poteva comprendere anche decenni.

Accanto agli aspetti di continuità, il d.lgs. n. 81/2015 contiene, come già ac-cennato, anche rilevanti novità rispetto alla disciplina precedente. La prima consiste nel fatto che mentre in precedenza il limite dei 36 mesi si riferiva a

Act e contratto a tempo determinato. Atto I, Giappichelli, 2014, 13-14; M.PANCI, Proroga del

contratti stipulati per lo svolgimento di mansioni equivalenti, ora in coerenza con la nuova disciplina dello ius variandi, il limite attiene ai contratti stipulati per mansioni «di pari livello e categoria legale». Il nuovo testo del primo comma dell’art. 2103 c.c., infatti, non garantisce più mansioni professional-mente equivalenti a quelle precedenteprofessional-mente svolte, ma «mansioni riconducibi-li allo stesso riconducibi-livello e categoria legale di inquadramento». La novità, in sintesi, consiste nel trasferimento dal giudice alle parti sociali del potere di individuare i margini in cui può essere esercitato il potere di mutare le mansioni. Non si può essere spostati, poi, da mansioni proprie degli operai a quelle degli impie-gati e viceversa. Se è probabile che questo secondo limite sarà raramente im-portante, è pacifico che quello che attiene alla collocazione delle mansioni nel medesimo livello, e non più alla loro equivalenza professionale, comporterà per tutti i lavoratori, sia a termine che a tempo indeterminato, un ampliamento del potere unilaterale di mutamento delle mansioni, ogni volta in cui la trattazione collettiva includerà nel medesimo livello attività lavorative di con-tenuto professionale non equivalente. Lo stesso effetto si produrrà per quanto concerne il limite alla ripetibilità dei rapporti a termine, che risulterà ampliato in presenza di mansioni non equivalenti racchiuse negli stessi livelli contrat-tuali. Verrebbe da dire che oggi vi è una maggior certezza per il datore che riassume a termine, essendo sufficiente affidare mansioni incluse in un livello professionale diverso da quello in cui erano ricomprese le mansioni svolte in occasione del contratto o dei contratti precedenti. Non si può abusare, tuttavia, di queste nuove aperture, come è avvenuto in un caso, denunciato in un com-mento al decreto in esame dell’Ufficio Giuridico della Cgil, dove si descrive la situazione posta in essere dal CCNL per i dipendenti da Poste italiane, inseriti in vari livelli pur svolgendo praticamente le stesse mansioni e quindi assumibi-li a tempo determinato per numerose volte, di 3 anni in 3 anni, in diversi assumibi- livel-li. Una simile prassi renderebbe la norma non conforme alla clausola 5 dell’accordo europeo quale interpretato dalla Corte di giustizia, perché la stes-sa, come è ormai noto, non si accontenta di una conformità formale ad uno dei tre meccanismi previsti nel suo § 1, ma esige misure che siano effettivamente in grado di prevenire e sanzionare gli abusi nella ripetizione dei contratti. La seconda novità è rinvenibile nella previsione per la quale in caso di supe-ramento dei 36 mesi «il contratto si trasforma in contratto a tempo indetermi-nato dalla data di tale superamento», mentre il comma 4 bis dell’art. 5 del d.lgs. n. 368/2001 disponeva che «il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2». Questa innovazione è stata criticata dal commento al decreto in esame dell’Ufficio Giuridico della Cgil, perché la

comporterebbe la conversione del rapporto a ex tunc, e cioè a partire dalla sti-pula del primo contratto. A dire il vero l’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368/2001, ancora nel teso successivo al decreto Renzi-Poletti, prevedeva, per il caso di superamento del limite temporale, che il rapporto di lavoro si

consi-derasse a tempo indeterminato ai sensi del comma 2 dello stesso art. 5. Il

rin-vio a quest’ultimo comma indicava un termine a quo equivoco, perché si pote-va pensare che la trasformazione avvenisse o solo dopo il superamento dei 30 o 50 giorni dopo la scadenza dell’ultimo contratto o al massimo al momento della scadenza stessa. Ad ogni modo, il testo della norma cui rinviava il com-ma 4-bis escludeva chiaramente una conversione ex tunc, e cioè dal momento della stipulazione del primo contratto, come disponeva l’art. 2, comma 2, della l. n. 230/1962. L’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 chiarisce, invece, che la trasformazione avviene non alla fine dell’ennesimo contratto ma al compimento dei 36 mesi, anche se questo avviene in costanza di rapporto, prima della scadenza dell’ultimo contratto a tempo determinato. Gli studiosi dell’Ufficio giuridico della Cgil confrontano quest’ultima previ-sione con quella di cui al comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 23/2015, per la quale tale decreto, e cioè le nuove regole sul licenziamento, «si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeter-minato», evidenziando la differenza tra “conversione” e “trasformazione” e chiedendosi se la differenza stessa implichi la non applicazione della nuova normativa sui licenziamenti alle conversioni che retroagiscono, ex tunc, ad un momento precedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015. È noto che c’è sempre stata una certa confusione, nei testi legislativi, tra conversione e tra-sformazione. Il fenomeno implica l’esistenza di una sentenza costitutiva, i cui effetti, dal punto di vista temporale, a volte sono individuati dalla legge, come ora fa con precisione l’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 19 del decreto in esame, e come prima faceva, senza tanta precisione, l’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368/2001. La sentenza che costituisce il rapporto a tempo indetermi-nato retroagisce ai diversi momenti su indicati, ma non al momento della sti-pula del primo contratto a termine. Se tali momenti sono successivi all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, la disciplina di quest’ultimo si applicherà al contratto a tempo indeterminato sorto dalla sentenza, altrimenti no; va escluso, tuttavia, che per tale applicazione si debba guardare al momento della pronun-cia della sentenza.

La terza novità concerne l’ulteriore contratto che può essere stipulato una volta superati i 36 mesi: la sua durata non è più rimessa ai contratti collettivi stipula-ti dai sindacastipula-ti comparastipula-tivamente più rappresentastipula-tivi sul piano nazionale, ma

viene fissata direttamente dal comma 3 dell’art. 19 del decreto: non più di 12 mesi. Quanto alla procedura, ora la stipula dell’ulteriore contratto deve sempre avvenire presso la direzione territoriale del lavoro, ma non costituisce più re-quisito indispensabile l’assistenza del rappresentante del sindacato cui il lavo-ratore sia iscritto o conferisca mandato. Mi pare che queste due novità siano coerenti con le scelte dell’attuale Governo di eliminare gli spazi di intervento del sindacato. Considero negativa soprattutto la seconda.

Rimane ferma l’inclusione nel computo dei 36 mesi «dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale». In precedenza si dava rilievo alle “mansioni equivalenti”. Ora si corregge il testo precedente in conformità con le dizioni (ed i concetti) utilizzati negli artt. 3 e 19, comma 2, secondo periodo.

Rimane anche ferma l’espressa esclusione dall’applicazione delle norme di cui all’art. 19, comma 2, dei contratti stipulati per lo svolgimento delle attività stagionali di cui all’art. 21, comma 2, esclusione in precedenza disposta dall’art. 5, comma 4-ter, del d.lgs. n. 368/2001. La scelta mi pare razionale, sia perché gli stagionali hanno un diritto di precedenza per le assunzioni a tempo indeterminato, sia perché, se la stagionalità è autentica, la precedenza per suc-cessive attività stagionali poteva essere contraddittoria con il limite complessi-vo di 36 mesi, nel senso che alla fine ci si poteva trovare con un lacomplessi-voratore stabile, ma con occasioni di lavoro solo stagionali. A questa esclusione oggi, come ieri, si possono aggiungere quelle introdotte dai contratti collettivi. L’ultimo comma dell’art. 19 conferma, pur con delle novità rispetto alla corri-spondente norma rinvenibile nel comma 1 dell’art. 9 del d.lgs. n. 368/2001, la delega alle parti sociali della individuazione delle modalità con le quali vanno rese ai dipendenti a tempo determinato le informazioni sui posti vacanti che si rendano disponibili nell’impresa. Ora viene eliminata la frase che indicava la finalità delle informazioni sui posti vacanti e disponibili, destinate, cioè, a «ga-rantire (ai lavoratori a termine) le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che hanno gli altri lavoratori». Le informazioni sono altra cosa rispetto a diritti di precedenza e non va criticato nemmeno il fatto che le informazioni oggi possano riferirsi a tutti i posti, non solo a quelli “duraturi”. L’eliminazione, quindi, è positiva. Va apprezzato anche l’ampliamento dei destinatari delle in-formazioni, che ora sono, oltre ai lavoratori, anche le RSA e le RSU. La norma in commento non specifica quali possano essere i soggetti collettivi stipulanti ed il livello dei contratti che definiscono le modalità di resa delle informazioni, dato che questa specificazione è data, una volte per tutte, dall’art. 51 del decre-to.

4. I divieti (art. 20)

L’art. 20 del decreto in commento riprende con poche novità il testo dell’art. 3 del d.lgs. n. 368/2001 in tema di divieti di stipula del contratto a tempo deter-minato. I casi di divieto rimangono quelli tradizionali (sostituzione di sciope-ranti, unità produttive in cui si sia proceduto, nei 6 mesi precedenti, a licen-ziamenti collettivi – con alcune eccezioni – o a sospensioni con cassa integra-zione di lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a termine, datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi). La prima novità è costituita dall’eliminazione della possibilità che gli accordi sindacali deroghino al divieto relativo alle aziende che avessero proceduto a licenzia-menti collettivi nei 6 mesi precedenti: ennesimo esempio di sottrazione di fun-zioni al sindacato. La seconda è rappresentata dall’introduzione di un comma 2, che dispone espressamente che in caso di violazione dei divieti di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Questa precisazione potrebbe sembrare superflua, dato che non si è mai dubitato che la violazione dei divieti abbia tale conseguenza. Mi vien da pensare, invece, che si sia voluto mostrare che quando il decreto prevede la trasformazione del rapporto, lo fa con una norma espressa. Ma anche questo intento sul piano si-stematico deve fare i conti con le norme ed i principi del diritto civile.

Nel documento Disciplina delle mansioni (art. 3) (pagine 175-179)