LAVORO A TEMPO DETERMINATO
7. Numero complessivo dei contratti a tempo determinato (art. 23)
L’art. 23 riprende la novità dei limiti quantitativi di contratti a tempo determi-nato che può stipulare ogni datore di lavoro, unico vero argine all’utilizzo del contratto a termine insieme al limite relativo alla successione dei contratti con lo stesso lavoratore dopo l’eliminazione delle causali. Il d.lgs. n. 368/2001, nel testo modificato dal decreto Renzi-Poletti, poneva questo limite, pari al 20% «del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1o gennaio dell’anno di assunzione»39, al comma 1 dell’art. 1 e prevedeva la sanzione amministrativa per la sua violazione nei commi 4-septies e 4-octies dell’art. 5. Il nuovo decreto dedica all’argomento l’intero suo art. 23.
Una prima differenza tra i due decreti consiste nel fatto che mentre prima la deroga al limite del 20% poteva essere posta dai soli contratti collettivi di li-vello nazionale (art. 7, comma 10), ora le deroghe possono essere introdotte da tutti i contratti di cui all’art. 51. Il nuovo decreto, poi, chiarendo alcuni dubbi applicativi, nel comma 1 dell’art. 23 precisa il rilievo che nel calcolo del 20% assumono i numeri decimali (che si arrotondano all’unità superiore se uguali o superiori a 5) ed il metodo di computo da seguire quando l’attività è iniziata nel corso dell’anno (il limite percentuale va calcolato sul numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell’assunzione a termine).
Ulteriori differenze concernono le esclusioni. Rimangono ferme le precedenti esclusioni da ogni limite percentuale, di fonte legale e contrattuale, rinvenibili nell’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368/2001: contratti conclusi nella fase di avvio di nuove attività, per lo svolgimento di attività stagionali, per la sostitu-zione di lavoratori assenti, per specifici spettacoli o programmi radio-televisivi. A queste esclusioni il comma 2 dell’art. 23 del decreto in commento aggiunge i contratti stipulati delle start-up innovative, ed inoltre abbassa l’età dei lavoratori da escludere dai conteggi: si passa da 55 a 50 anni, in considera-zione del fatto che l’aumento della disoccupaconsidera-zione sta mettendo in crisi anche lavoratori che hanno perso il lavoro in età non tanto avanzata. Modifiche sono state introdotte anche per quanto concerne le esclusioni dei contratti stipulati per svolgere l’attività di ricerca. Il comma 5-bis dell’art. 10 del d.lgs. n. 368/2001, introdotto dal decreto Renzi-Poletti, aveva escluso dal limite per-centuale i contratti stipulati «tra istituti pubblici di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa». Il suddetto comma disponeva, inoltre, che i contratti
39 Sul concreto modo in cui doveva avvenire tale calcolo si veda R.ROMEI, op. cit., 687 ss., e
per lo svolgimento esclusivo di attività di ricerca potevano avere durata pari a quella del progetto di ricerca cui si riferivano. Ora il comma 3 dell’art. 23 del d.lgs. n. 81/2015 conserva le precedenti esclusioni e le amplia prevedendo che i limiti percentuali non si applicano, innanzitutto, anche «ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra università private, incluse le filiazioni di uni-versità straniere», ed anche per lo svolgimento di attività di insegnamento, ed in secondo luogo ai contratti stipulati «tra istituti della cultura di appartenenza statale ovvero enti, pubblici e privati derivanti dalla trasformazione di prece-denti enti pubblici, vigilati dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo […], e lavoratori impegnati per soddisfare esigenze temporanee legate alla realizzazione di mostre, eventi e manifestazioni di interesse culturale». Questa norma pone vari problemi. Sembra, innanzitutto, consentire che l’attività di ricerca possa essere effettuata da enti pubblici e privati con nume-rosissimi dipendenti a termine. La durata di questi contratti può, ma non deve, essere uguale a quella dei progetti di ricerca. Università private ed enti di ri-cerca possono stipulare senza limiti quantitativi anche contratti volti non alla ricerca, ma all’insegnamento, attività che di per sé non ha limiti di durata. Vi è da chiedersi, allora, se la norma autorizzi davvero a precarizzare il personale docente delle università private e degli enti di ricerca, magari superando il li-mite dei 36 mesi mutando il livello di inquadramento, o se non si debba ritene-re che l’insegnamento debba esseritene-re riferito agli obiettivi, ai metodi ed ai risul-tati della specifica ricerca in atto. Il secondo tipo di esenzione, in secondo luo-go, dà vita ad un nuovo tipo di contratto a termine causale. Gli istituti della cultura, infatti, possono stipulare, senza limiti quantitativi, contratti a termine volti a «soddisfare esigenze temporanee». Infine, la specifica esclusione dal limite percentuale dei contratti stipulati da datori di lavoro pubblici pone il problema dell’eventuale inclusione, per contrappunto, di tutti gli altri. Inclu-sione che per me o non va fatta o deve comunque convivere con i limiti quan-titativi dei contratti flessibili fissati per ognuna amministrazione dalle norme pubblicistiche. Questo comma 3 mi pare del tutto improvvisato e poco medita-to. Probabilmente vuole sanare situazioni in atmedita-to.
Rimane anche oggi del tutto aperto il problema dei limiti entro i quali la con-trattazione collettiva può derogare al limite legale del 20%, problema subito colto dagli studiosi in relazione al decreto Renzi-Poletti e risolto sia nel senso della possibilità di conservare o introdurre limiti superiori o inferiori40, sia nel
40 Si veda, ad es., M.MAGNANI, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato:
novità e implicazioni sistematiche, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2014, n.
212, 6; A.PANDOLFO, P.PASSALACQUA, op. cit., 38; R.ROMEI, op. cit., 691; R.SANTUCCI, op.
senso dell’impossibilità di fissare limiti superiori al 20%41. Questa diversità di opinioni dipendeva dal fatto che il decreto non regolava direttamente la convi-venza di queste due fonti, ma si limitava a regolarla indirettamente nelle di-sposizioni transitorie introdotte dalla legge di conversione. Per il comma 2 dell’art. 2-bis di tale legge, infatti, «in sede di prima applicazione del limite percentuale […] conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già sta-biliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro». Questa prima norma faceva salva l’efficacia dei diversi limiti introdotti contrattualmente, ma fino alla loro scadenza. Nulla si prevedeva, invece, sulla possibilità delle parti so-ciali di rinnovare tali contratti o stipulare ulteriori contratti collettivi per fissare percentuali diverse dopo la scadenza stessa. Senonché, per il comma 3 dello stesso articolo, «il datore di lavoro che alla data di entrata in vigore del presen-te decreto abbia in corso rapporti di lavoro a presen-termine che comportino il supe-ramento del limite percentuale […] è tenuto a rientrare nel predetto limite en-tro il 31 dicembre del 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole». È chiaro, dunque, che il dovere di rientrare valeva solo nel caso in cui in azienda non fosse applicabile un contratto che fissasse limiti più ampi del 20%.
Il d.lgs. n. 81/2015, nell’esordio del comma 1 dell’art. 23, si limita a far salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi, quali definiti nell’art. 51, senza nulla ripetere delle norme transitorie sopra riferite. In assenza di chiari limiti di legge, e tenendo conto che in precedenza le parti sociali non avevano restri-zioni circa la scelta di percentuali basse o alte, ritengo che il limite percentuale di legge possa essere derogato liberamente, nei limiti della ragionevolezza, dei principi costituzionali e delle norme euro-unitarie. Si rimane in questi limiti, a mio avviso, anche quando la contrattazione aziendale sia autorizzata a consen-tire percentuali alte di assunzione a termine in quanto giustificate dall’esigenza di disporre di maggior personale per far fronte ad una commessa o un appalto definiti e predeterminati nel tempo: qui si tratta di occasioni di lavoro tempo-ranee e le assunzioni, a ben vedere, hanno carattere “causale”.
Il comma 4 dell’art. 23 regola le sanzioni da applicarsi per la violazione dei limiti percentuali, ritornando al sistema delle sanzioni amministrative, come già previste dal comma 4-septies dell’art. 5 del d.lgs. n. 368/2001, introdotto dal decreto Renzi-Poletti. Ho già espresso la mia delusione per l’abbandono della soluzione in termini di indennizzo per il lavoratore assunto in eccedenza, comparsa in un testo del decreto pubblicato da Pietro Ichino qualche giorno prima della sua uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Il ritorno a tale sistema è oggi
aggravato dall’espressa esclusione della possibilità per il lavoratore di chiede-re, in caso di sforamento del limite, la trasformazione del rapporto.
Non ero contrario a priori al ricorso ad una sanzione amministrativa, ma mi cadono le braccia quanto il legislatore, malgrado tante sollecitazioni, su di essa non dice nulla che non siano i relativi importi. «Si applica la sanzione ammini-strativa»: chi l’applica? Su impulso di chi? Con che procedimento? Le infor-mazioni «da rendere» (chi deve renderle?) alle RSA o alle RSU «in merito all’utilizzo del lavoro a tempo determinato», previste dal comma 5 dell’art. 23, posto dopo il comma sulle sanzioni amministrative, comprende anche i dati sui dipendenti a tempo indeterminato e su quelli a termine?
La disciplina delle conseguenze del mancato rispetto dei limiti percentuali è molto importante, perché gli stessi costituiscono il requisito fondamentale che è stato sostituito alle causali. Proprio per questa ragione, in molti avevamo la-mentato il silenzio del legislatore su aspetti cruciali del sistema sanzionatorio prescelto ed avevamo auspicato un ulteriore intervento legislativo che comple-tasse la disciplina della materia42. Era stata, poi, diffusamente ammessa la con-temporanea possibilità di un’azione del lavoratore interessato per ottenere la conversione del rapporto in presenza di una clausola contraria ad un requisito di legge43. Di fronte a questi problemi mi era parsa illuminata la scelta di ab-bandonare lo strumento della sanzione amministrativa per adottare quello dell’indennizzo civilistico, sorta di sanzione civile, a beneficio del diretto inte-ressato, pur con esclusione della conversione del rapporto. Per il precedente testo era «dovuta al lavoratore una indennità onnicomprensiva di importo pari al 50% della retribuzione di riferimento del calcolo del trattamento di fine rap-porto, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro». In tal modo, si affidava ai diretti interessati l’azione per far valere il superamento del limite percentuale ed ottenere un indennizzo di importo non trascurabile. In precedenza i lavoratori non avevano interesse ad agire e ci si chiedeva se gli organismi dell’Inps e del Ministero del lavoro avessero avuto la volontà ed i mezzi per conoscere le percentuali ed attivarsi. Ora la situazione è quella, molto criticabile, del decreto Renzi-Poletti e potrà creare molti problemi.
42 Si rinvia a L.MENGHINI, op. cit., 1240.
43 In questo senso da ultimo si veda G.ZILIO GRANDI, MSFERRAZZA, op. cit., 20; G.LEONE,
op. cit., 741; A.PRETEROTI, La violazione dei limiti quantitativi tra sanzioni amministrative e
conversione del contratto, in G.SANTORO-PASSARELLI (a cura di), op. cit., 69 ss.; P.C
AMPA-NELLA, op. cit., 184-185. Ammetteva la compresenza di una sanzione civilistica anche P.A