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materiali e tipologia delle tecniche edilizie

I.

Murature in pietra

L’uomo già da epoche remote adoperò la pietra quale materiale da costruzione. Con lo scorrere del tempo e con l’esperienza, egli capì bene che non tutte le rocce sono uguali e che le loro caratteristiche (quali per esempio la durezza e la resistenza) variano, rendendole adatte ciascuna a determinati utilizzi399.

Archeologicamente parlando, sussistono tracce di estrazione della selce da ricondurre direttamente al Paleolitico finale, sebbene si dovrà aspettare il V millennio a.C. per poter parlare di una coltivazione sistematica delle cave di pietra ai fini di un’edilizia monumentale400. Le cave più antiche si trovano

precisamente nella Mesopotamia meridionale e nei deserti egiziani401, ma esistono anche grandi

cantieri da riferire alla civiltà minoica, a quella micenea ed ovviamente a quella greca402. In epoca

ellenistica lo sfruttamento del materiale lapideo si diffuse in tutto il bacino del mediterraneo, adattandosi alle innumerevoli varietà di rocce che i diversi ambienti offrivano. Con Roma e l’avvento dell’età imperiale, nonostante le tecniche di estrazione della pietra fossero rimaste praticamente immutate dal V millennio a.C.403, si riscontrò un’articolazione più complessa nell’organizzazione del

lavoro, la quale rifletteva indubbiamente l’importanza che il materiale lapideo deteneva nell’edilizia pubblica e privata. Tale situazione contrasta con quella che viene fatta risalire all’epoca tardo imperiale, in cui le attività estrattive subirono un sensibile calo, e soprattutto con quella alto medievale, periodo in cui si riscontrò una vera e propria interruzione delle attività di estrazione della pietra404.

Una volta estratto dalle apposite cave e trasportato fino al luogo di destinazione, il materiale lapideo veniva messo in opera; sulla base della morfologia dei blocchi di pietra utilizzati nelle murature e dunque sulla base del grado di lavorazione che i blocchi potevano ricevere prima di essere messe in posa, si possono individuare differenti tecniche costruttive405.

399 Cagnana 2000, pp. 24-53; Brogiolo, Cagnana 2012, pp. 75-81. 400 Cagnana 2000, pp. 48-51.

401 Cagnana 2000, pp. 48-51; Bianchini 2010, pp. 120-123.

402 Cagnana 2000, pp. 48+51; Lippolis, Livadiotti, Rocco 2007, pp. 897-898; Bianchini 2010, p. 123; 403 Bianchini 2010, pp. 125-126.

404 Cagnana 2000, p. 48-51: nel periodo altomedievale, l’unica eccezione all’interruzione dello sfruttamento delle

cave di pietra è rappresentata da alcune regioni poste sotto il controllo dell’impero Bizantino, quali l’Armenia. Brogiolo, Cagnana 2012, pp. 83-85.

405 Enciclopedia Treccani, sezione “mura e fortificazioni”, voce in sitografia); Hellmann 2002, pp. 110-120;

107 I.1. Opera Poligonale. Essa consta dell’utilizzo di conci a giunti multipli di numero superiore a quattro. In Italia lo studioso Giuseppe Lugli406 alla metà del secolo scorso pubblicò un’opera in cui elencava e descriveva

le tecniche edilizie visibili e riconoscibili dai resti delle antiche città italiche. Tra queste era ovviamente inclusa l’opera poligonale, la quale venne suddivisa dallo studioso in quattro sottoclassi o “maniere” sulla base del grado di lavorazione crescente dei massi utilizzati.

I.1.1. L’opera poligonale di prima maniera, caratterizzata dall’utilizzo di massi non lavorati o rudimentalmente e grossolanamente sbozzati, i quali venivano messi in opera a secco senza leganti. Ciò generava numerosi interstizi che venivano riempiti con pietrame di media e piccola pezzatura. Compare attorno al VII secolo a.C., adoperata principalmente per la realizzazione di opere di terrazzamento, ma continuerà ad essere utilizzata fino al III-II secolo a.C..

I.1.2. L’opera poligonale di seconda maniera, realizzata con massi che subivano una leggera lavorazione, i quali mostravano i lati rettilinei (sebbene di lunghezza differente) ma gli spigoli ancora smussati. Persistevano dunque gli interstizi tra un blocco e l’altro, seppure sicuramente di dimensioni inferiori rispetto a quelli riscontrabili nell’opera poligonale di prima maniera, che comunque venivano occlusi con pietrame di piccola pezzatura. Tale metodo costruttivo mostra, alla pari dell’opera poligonale di prima maniera, un utilizzo fino al III-II secolo a.C. nell’ambito delle fortificazioni cittadine italiche.

I.1.3. L’opera poligonale di terza maniera, corrispondente all’opera poligonale propriamente detta, ovvero a quella greca, era realizzata con la messa in opera di massi lavorati di forma poligonale, con lati retti e spigoli vivi. I blocchi dunque coincidevano perfettamente l’uno con l’altro. Tale metodo costruttivo trovò grande espressione nel III secolo a.C. in nell’ambito delle fortificazioni urbane romane. Altre fortificazioni in terza maniera possono essere datate alla fine del II secolo a.C., sebbene comunque in questi contesti la si ritrovi già associata a murature di tipologia differente

I.1.4. L’opera poligonale di quarta maniera, che si avvaleva di blocchi finemente lavorati e perfettamente combacianti l’un con l’altro. I piani d’appoggio tendevano verso il piano orizzontale. L’utilizzo della quarta maniera nelle cinte fortificate di terza è da mettere in relazione con la volontà di irrobustire le parti strutturalmente più complesse e contestualmente nevralgiche, come porte di ingresso, torri ed angoli. Qualora si prediligesse usare solo ed esclusivamente la quarta maniera (II secolo a.C. e I secolo d.C.), le superfici dei blocchi che andavano a costituire la parete a vista delle murature venivano lavorate a bugnato.

108 I.2. Opera trapezoidale. Trattasi dell’ordito murario di transizione e/o connessione tra l’opera poligonale e quella quadrata. Difatti, è costituita dalla giustapposizione di conci dotati di piani di posa e di attesa orizzontali e paralleli tra loro; di contro, i piani laterali risultano obliqui e convergenti, dando generalmente alla facciata a vista del blocco l’immagine di una forma appunto trapezoidale.

I.3. Opera quadrata. Consiste nella messa in opera di blocchi lapidei di forma perfettamente parallelepipeda aventi i giunti laterali non più obliqui bensì ortogonali rispetto ai piani di posa e di attesa. Questa tecnica costruttiva non ha limiti cronologici specifici: fece la sua comparsa nella Grecia di età arcaica ma si diffuse maggiormente a partire del V secolo a.C. in poi, divenendo la tessitura muraria per eccellenza di età ellenistica e modello di perfezione costruttiva.

I.3.1. Opera quadrata isodoma: presenta blocchi delle medesime dimensioni, i quali generano filari paralleli e tutti della stessa altezza.

I.3.2. Opera quadrata pseudoisodoma: si avvale di blocchi parallelepipedi tessuti in filari paralleli ma tra i quali varia la dimensione dell’altezza.

I.3.3. Opera quadrata pseudoisodoma regolare: mostra una variazione alternata regolare dell’altezza delle assise.

I.4. Opus africanum: Se per gli Ittiti, le nervature dei muri tra XV-XIII secolo a.C. venivano costruite in legno, tratto distintivo dell’architettura fenicia a partire dal XIV secolo a.C. ma con grande fioritura nell’XVIII a.C. fu la realizzazione di paramenti murari con nervature litiche. Tale tecnica costruttiva, conosciuta anche con l’espressione “opera a telaio”, si diffuse nelle città puniche del Mediterraneo occidentale: qui i pilastri litici, costituiti da blocchi di pietra impilati alternatamente in orizzontale e verticale, venivano legati tra loro da un riempimento a secco o legato con malta di scarsa qualità (Tarquinia, Pompei Ercolano). I pilastri lapidei, che nei paramenti curati furono sostituiti anche da pile di laterizio o vittato, erano dislocati nei punti dell’ossatura portante dell’edificio maggiormente sollecitati dai carichi strutturali407.

L. Le murature ad emplekton

Le murature ad emplekton (o a “sandwich”), realizzate soprattutto per le fortificazioni, possono considerarsi nel loro spessore tripartite: esse infatti prevedevano un doppio paramento murario costruito generalmente in blocchi di pietra; queste due cortine parallele venivano legate tra loro per mezzo di un riempimento interno di materiale incoerente (solitamente terra e pietrame di varia

109 pezzatura), la cui funzione, oltre a quella di legante, era quella di compensatore delle eventuali irregolarità408.

In epoca ellenistica, l’unione tra le due cortine murarie dell’emplekton venne resa più forte tramite l’inserimento di blocchi lapidei trasversali ammorsati nel riempimento.409 Sebbene già adoperata

sporadicamente in Mesopotamia durante le epoche neobabilonese e achemenide come collante per le murature di mattoni cotti, furono I Romani i primi che a partire dal III secolo a.C. iniziarono a fare grande uso della malta di calce, con la risultante che il nuovo sistema costruttivo che ne derivò divenne celermente quello più usato fino all’invenzione del cemento armato nel XIX secolo410.

La malta di calce è un impasto che si otteneva a partire appunto dalla calce, risultante di svariati processi a cui si sottoponeva il gesso in Oriente, il calcare in Grecia e nella penisola Italica411. La pietra

calcarea veniva dapprima fatta cuocere in apposite fornaci fino a raggiungere i 1000° di temperatura (calx viva).; successivamente avveniva lo spegnimento con immersione in vasche d’acqua: tale azione sprigionava grande quantità di calore (fino ai 300°-400°) e permetteva di ottenere così la calce spenta; questa veniva trasportata nei cantieri con appositi contenitori (ad esempio le semi anforette ritrovate a Pompei) e, mediante continue aggiunte di acqua, da essa si ricavavano 3 composti progressivamente sempre più diluiti: il grassello, il latte di calce e l’acqua di calce. Il latte di calce si usava per le tinteggiature e gli intonaci parietali e pavimentali; l’acqua di calce era una sostanza di cui i medici dell’epoca si servivano, conoscendone le proprietà disinfettanti. Il grassello invece era il composto utile ai fini della produzione della malta di calce: si può definire a tutti gli effetti un impasto particolarmente bianco, denso ed untuoso, che si essiccava celermente all’aria, sebbene l’azione fosse reversibile. Al grassello si aggiungevano materiali inerti quali sabbia, polvere di marmo o pozzolana, nonché acqua, permettendo alla malta così ottenuta di acquisire proprietà leganti e stabilizzanti412.

408 Adam 1982, pp. 24-25; Hellman 2002, p. 115; Hellmann 2010, pp. 322-323. Lippolis, Livadiotti, Rocco 2007: p.

900; Bianchini 2010, p. 175.

409 Adam 1982, pp. 24-25; Hellman 2002, p. 115; Hellmann 2010, pp. 322-323. Lippolis, Livadiotti, Rocco 2007: p.

900; Bianchini 2010, p. 175.

410 Bianchini 2010, pp. 247-249. 411 Giuliani 2006, p. 209.

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