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Le strutture di carattere difensivo nella Sardegna punica, romana e vandalica

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Academic year: 2021

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Università degli studi di Pisa

Dipartimento di Civiltà e forme del sapere

Tesi di Laurea Magistrale in Archeologia

Le strutture di carattere difensivo nella Sardegna

punica, romana e vandalica.

Correlatore:

Simonetta Menchelli

Anno accademico 2017-2018

Relatore:

Fabio Fabiani

Candidata:

Federica Obinu

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Ergo qui pacem desiderat, bellum praeparet”

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Ai miei genitori, alle mie due sorelline, ad Antonio.

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SOMMARIO

Introduzione ... 7

1. La Sardegna in età punica ... 10

1.1. La dominazione cartaginese: contesto storico ... 10

1.2. I sistemi difensivi della Sardegna punica ... 18

1.2.1. Le fortificazioni delle città costiere ... 20

1.2.1.1. Krly ... 21 1.2.1.2. Nora ... 23 1.2.1.3. Bithia ... 26 1.2.1.4. Sulky ... 28 1.2.1.5. Tharros ... 31 1.2.1.6. Olbia ... 34

1.2.2. Le fortificazioni puniche dell’entroterra ... 40

1.2.2.1. I sistemi fortificati interni: ipotesi a confronto ... 40

1.2.2.2. Monte Sirai ... 43

2. Roma e la Sardegna ... 48

2.1. Il dominio di Roma sull’isola dal 238 a.C. al 476 d.C. ... 48

2.2. Le fortificazioni romane della Sardegna ... 54

2.2.1. Le strutture fortificate della Romània ... 56

2.2.1.1. Carales ... 57 2.2.1.2. Nora ... 59 2.2.1.3. Sulci ... 62 2.2.1.4. Monte Sirai ... 62 2.2.1.5. Tharros ... 64 2.2.1.6. Turris Libisonis ... 67 2.2.1.7. Ulbia ... 70

2.2.2. I presidi militari della Barbària ... 71

2.2.2.1. Colonia Iulia Augusta Uselis ... 74

2.2.2.2. AquaeYpsitanae - Forum Traiani ... 75

2.2.2.3. Valentia... 77

2.2.2.4. Biora ... 78

2.2.2.5. Augustis ... 79

2.2.2.6. Luguido, Nostra Signora di Castro ... 79

3. La dominazione vandalica ... 84

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6

3.2. La Sardegna ed il “limes di profondità” vandalico ... 88

4. Conclusioni ... 91

Appendice I: tipologia dei sistemi fortificati ... 97

Appendice II: materiali e tipologia delle tecniche edilizie... 106

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7

INTRODUZIONE

Questo lavoro di tesi è nato dalla volontà di realizzare uno studio completo ed esaustivo

riguardante gli apparati difensivi eretti in Sardegna durante le dominazioni punica, romana e

vandalica.

Ciò che ha motivato la scelta di questo argomento è stato da un lato il desiderio di analizzare

le dinamiche di penetrazione e controllo del territorio isolano da parte delle tre grandi potenze

del Mediterraneo, approfondendo le indagini avviate nel 2014 con la stesura dell’elaborato di

tesi triennale, volto allo studio della viabilità locale di età classica.

Per le sue ricchezze e la sua felice posizione, la Sardegna assunse nel quadro geopolitico del

Mediterraneo antico un ruolo strategico importante se non fondamentale: ben note e

bramate erano le sue ricchezze forestali, minerarie e soprattutto agricole, le quali, associate

alla centralità dell’isola in termini geografici e, di conseguenza, economico-commerciali,

resero la Sardegna una terra allettante agli occhi delle grandi potenze che a più riprese si

scontrarono per il predominio dei mari.

Proprio i Cartaginesi, i Romani e i Vandali, ciascuna durante la propria fase di dominazione,

allestirono sull’isola sistemi fortificatori atti alla difesa delle città e del territorio rurale, con

l’obiettivo di mantenere saldo il controllo del territorio.

Dallo studio si desume che le opere fortificatorie variarono per tipologia, per tecnica edilizia e

per località di dislocamento: alla base di questo cambiamento vi era il mutamento delle

tecniche militari ossidionali e delle strategie messe in atto per la difesa dei settori ritenuti di

volta in volta più vulnerabili.

Il lavoro, basato sulla raccolta di tutta la letteratura disponibile sull’argomento, si articola su

tre capitoli dedicati ciascuno ai grandi peridi storici affrontati:

1. La Sardegna in età punica;

2. Roma e la Sardegna;

3. La dominazione vandalica.

Tutti e tre presentano un’analoga struttura: nel primo paragrafo vengono illustrate le

principali vicende della fase storica presa in esame; nel secondo paragrafo si affronta l’analisi

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8

dei sistemi fortificati delle città e del territorio, facendo emergere l’adeguamento delle

strutture difensive, attive e passive, alle mutate necessità che si presentavano nei diversi

periodi, non solo in rapporto alle minacce che provenivano dall’esterno, quindi dal mare, ma

anche a quelle che provenivano dall’interno, attribuibili alle fiere e indomite popolazioni

indigene.

Corredano il lavoro due appendici, in cui si offre una panoramica dei tipi di fortificazioni e delle

tecniche edilizie attestate in Sardegna. Alle appendici si rimanda nella trattazione dei capitoli,

per approfondimenti e analisi tecniche.

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1. LA SARDEGNA IN ETÀ PUNICA

1.1. La dominazione cartaginese: contesto storico

Apprendiamo dalle fonti che la colonia di Cartagine fu fondata dai Fenici di Tiro nell’ 814 a.C.. Scarse sono le testimonianze sul primo secolo e mezzo di vita della città, ma conosciamo i fattori che determinarono la crescita del suo potere fino al IV secolo a.C.1. Sicuramente la colonizzazione greca,

rivolta verso le coste della penisola italica, della Sicilia e della Gallia, provocò la nascita di una certa concorrenza commerciale con le colonie fenicie dislocate nel Mediterraneo occidentale2; al problema

esterno talvolta si aggiungeva quello interno, dettato dalle ribellioni degli indigeni che mal sopportavano un’intrusione straniera; infine, al IX secolo si deve far risalire la crisi lenta ma progressiva della madrepatria Tiro, che avrebbe indubbiamente avuto non pochi problemi ad inviare soccorsi per le sue colonie dislocate in occidente, qualora fossero stati necessari. Ecco che le colonie fenicie, per acquisire un po' di forza che consentisse loro di rendersi minacciose agli occhi di chiunque manifestasse l’intento di aspirare ai loro territori e/o commerci, poiché generalmente isolate tra loro e militarmente deboli, si radunarono attorno alla città che mostrava segni di maggiore ricchezza e potenza, appunto Cartagine3.

La città africana mostrò già nel VII secolo a.C. di voler entrare nella cerchia delle grandi potenze del Mediterraneo: fu infatti attorno al 654-653 a.C. che l’erede di Tiro fondò la sua prima colonia nelle Baleari, aprendosi la strada nel commercio dei metalli che faceva ponte tra la penisola Iberica e la Sardegna, dirigendosi poi verso l’Oriente. L’unico problema era rappresentato dai Focesi, Greci provenienti dalla Ionia, i quali fondarono nel 600 a.C. la colonia di Massalia (l’attuale Marsiglia in Francia)4 e attorno al 565 a.C. Alalia (l’odierna Aleria in Corsica)5. Per non perdere la posizione di

prestigio acquisita, Cartagine creò una coalizione anti-Focea: i Punici si unirono agli Etruschi con l’intento di ostacolare l’espansione politica, commerciale ed economica greca nel Mediterraneo occidentale. L’attività continuativa esercitata dai partecipanti a questa alleanza permise di debellare completamente, nel 535 a.C. con la battaglia di Alalia, la presenza greca in Corsica e nel Tirreno,

1 Moscati 2000, p. 12 a seguire.

2 Moscati 2000, p 12-13; Tucidide riporta che i Fenici stabilitisi in Sicilia dovettero migrare verso la parte

occidentale dell’isola, dando prova di come i rapporti con i colonizzatori greci non fossero buoni.

3 Moscati 2000, p. 13.

4 Barreca 1986, p. 34; Moscati 2000. P 13-14

5 Barreca 1986, p. 34; Moscati 2000, p. 13-14: i Cartaginesi tentarono di impedire la progressiva espansione

commerciale greca nel bacino occidentale del Mediterraneo, ma dallo scontro che avvenne furono i Focesi ad uscire da vincitori; questi ultimi a seguito della battaglia fondarono immediatamente la colonia di Massalia, ottenendo la possibilità di controllare un punto strategico per le rotte commerciali marittime e terrestri (dirette verso il centro Europa).

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11 sancendo indiscutibilmente l’ascesa di due nuove superpotenze nel teatro economico e politico del Mediterraneo occidentale6.

Contestualmente la città africana, per ribadire la sua forza militare ed economica, convogliò le sue energie verso una delle grandi isole del Mediterraneo: appunto la Sardegna.

Una volta sbarcati sull’isola, i punici non la trovarono di certo disabitata. Nel VI secolo a.C. infatti, periodo in cui cresce la potenza cartaginese e la sua egemonia7, la Sardegna si configurava come reduce

da un periodo di transizione dettato dal contatto non più sporadico bensì divenuto oramai costante tra le popolazioni indigene e quelle fenicie: le prime discendevano dalla grande civiltà nuragica che aveva dominato incontrastata sull’isola dall’età del Bronzo antico fino alla prima età del Ferro8; le

seconde avevano iniziato a frequentare le coste isolane tra XI e IX secolo a.C.9 e nell’VIII diedero vita

sul territorio a numerosi insediamenti stabili con fisionomia urbana10, tra i quali Sulci, Nora, Bithia e

Monte Sirai11. I fenici dunque si inserirono nell’evoluzione delle forme insediative che le popolazioni

sarde (con i loro villaggi organizzati in capanne circolari, addossate le une alle altre e disposte quasi radialmente attorno alla torre centrale12) stavano affrontando in maniera lenta ma indipendente,

divenendo perciò catalizzatori del processo di diffusione dell’urbanesimo nell’isola13.

Era dunque questa la realtà che si presentava ai Cartaginesi nel VI secolo a.C.: un territorio in cui le popolazioni sarde convivevano (più o meno pacificamente14) con le colonie fenicie, spingendosi

persino ad instaurare rapporti commerciali (e conseguentemente culturali) con gli Etruschi; ma soprattutto un territorio di indubbio interesse commerciale, in quanto crocevia delle rotte nel Mediterraneo occidentale15.

6 Barreca 1986, p. 34; Moscati 2000, pp. 13-14; Mastino 2005, p. 44. 7 Acquaro, Aubet, Fantar 1993, p. 103; Mastino 2005, p. 43.

8 Lilliu 1988, pp. 16-19.

9 Moscati 2000, p. 144. Moscati 2000, p 9-10: la “precolonizzazione” fenicia consistette, non solo in ambito sardo,

nel reperimento di approdi, limitati prevalentemente all’area costiera, e nella fondazione di emporia utili per fini puramente commerciali.

10 Acquaro, Aubet, Fantanar 1993, p. 103; Moscati 2000, pp. 9-10: le città fenicie subirono una grave sconfitta da

parte degli Assiri, a seguito della quale non riuscirono più a gestire in maniera indipendente i traffici commerciali che avvenivano via mare. Questo fattore e il fenomeno della colonizzazione greca, che cominciò proprio nel VIII, cambiarono gli equilibri commerciali e spronarono i fenici a rafforzare la propria presenza nel bacino centro-occidentale del Mediterraneo. Moscati 2000, p. 144; Mastino 2005, pp. 25-27.

11 Mastino 2005, p. 26.

12 Dyson, Rowland Jr 1990, p. 525. 13 Bartoloni 1988, p. 345.

14 Barreca 1986, p. 29: l’autore sostiene che in realtà tra VII e VI secolo a.C. si verificarono numerosi scontri armati

tra le popolazioni sarde e i Fenici i quali, una volta stabilitisi permanentemente nelle città costiere sorte sugli

emporia fondati nell’XIII secolo a.C., miravano ad un’espansione nell’entroterra isolano. Questa teoria sarebbe

confermata dalle numerose tracce di incendi archeologicamente ritrovate in numerosi siti fenici e nuragici oltre che dai numerosi rifascimenti murari di cui si dotano in questo periodo svariati nuraghi per far fronte alla nuova macchina da guerra introdotta in Sardegna dai Fenici: l’ariete.

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12 Cartagine avviò dunque in Sardegna nella metà del VI secolo una spedizione di conquista capitanata dal generale Malco16, reduce da una vittoriosa campagna militare in Sicilia17: essa prende il nome di

prima guerra sardo-punica e si tende a collocarla attorno al 540 a.C. circa18. L’esito non fu quello

sperato dai Cartaginesi: Malco tornò in patria portando il peso di una grande sconfitta, che studi recenti sembrano attribuire alla forza dimostrata in campo dagli indigeni sardi19.

Per far fronte all’inglorioso risultato ottenuto, vennero promosse reiterate spedizioni su suolo sardo che prendono il nome di Seconda guerra sardo-punica: questa fu condotta da Amilcare e Asdrubale (i figli di quel Magone che ottenne il potere a Cartagine a seguito della morte di Malco) e aveva come scopo quello di conquistare definitivamente le città costiere dell’isola ed il suo retroterra. Risultato che i Cartaginesi de facto raggiunsero entro il 509 a.C. se in questa data venne stipulato il primo trattato tra Roma e Cartagine20.

L’Etruria infatti, in termini di potenza politica, economica e commerciale, aveva ceduto velocemente il passo alla Repubblica Romana, nata alla fine del VI secolo a seguito della cacciata degli ultimi sovrani di origine etrusca. Roma dunque stipulò dei patti con Cartagine, affinché da subito fossero regolamentate le rispettive aree di influenza politica e commerciale. L’osservanza di questi trattati da parte delle potenze stipulatrici permise di mantenere rapporti di reciproca tolleranza almeno fino al III secolo a.C.21.

Il primo trattato22 (sebbene sulla sua datazione e sulla sua reale esistenza gli studiosi propongono

teorie contrastanti) viene generalmente fatto risalire al 509/508 a.C., quando si conclusero definitivamente e con esito positivo le imprese militari di Amilcare e Asdrubale in Sardegna23: con esso,

le due città stipulatrici si accordavano nel rispettare a vicenda i territori su cui dominavano. Inoltre, le attività commerciali romane in Sardegna e nella Sicilia occidentale sarebbero potute avvenire solo con la presenza di un araldo o di un cancelliere punico. Di fatto Cartagine considerava la Sardegna una terra di suo possesso24.

16 Barreca 1986, p. 31: L’autore sostiene che il nome “Malco” non fosse un reale antroponimo, ma semplicemente

l’indeuropeizzazione del termine semitico “Mèleq” = re. Se questo fosse vero, dovremmo pensare che la campagna militare finalizzata alla conquista della Sardegna sia stata condotta da un re di Cartagine in persona.

17 Moscati 2000, pp. 13-14.

18 Barreca 1986, p. 34; Lilliu 1988, p. 418; Moscati 2000, p. 14; Mastino 2005, p. 44. 19 Meloni 1975, p. 12; Lilliu 1988, p. 418; Moscati 2000, p. 14.

20 Meloni 1975, p. 12; Lilliu 1988, p. 418; Moscati 2000, p. 148; Mastino 2005, p 44; Barreca 1986, pp. 34-35: la

seconda guerra sardo-punica consentì ai Cartaginesi di penetrare e dominare su gran parte del territorio isolano, dalle aree costiere fino a quelle dell’entroterra nuorese, assicurandosi in tal modo il controllo delle zone minerarie (soprattutto dell’Iglesiente) e le fertili terre ad uso agricolo.

21 Moscati 2000, pp. 14-15.

22 Per maggiori informazioni si rimanda direttamente alla lettura delle Historiae di Polibio, III, 22, 4-13.

23 Lilliu 1988, p. 418; Mastino 2005, p. 45: significativa a tal proposito è la totale scomparsa della ceramica di

importazione etrusca da mensa e da toeletta che fino ad allora aveva avuto nell’isola una diffusione quasi capillare.

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13 La conquista cartaginese dell’isola seguì modalità diverse: da un lato i Punici distrussero numerosi centri che si erano mostrati particolarmente ostili nei confronti dei nuovi dominatori (e.g. Bithia, Sulci), dall’altra sostennero le città che invece avevano fornito il loro contributo durante le campagne di conquista (e.g. Tharros e Karalis); una terza opzione vide la fondazione di nuove colonie25 e

l’inserimento di elementi nord-africani26.

Apprendiamo da Diodoro Siculo che i Sardi si ribellarono attorno al 368 a.C. (sulla data gli studiosi discordano) ai dominatori punici, approfittando di una pestilenza che investì l’esercito cartaginese, allora impegnato sul fronte siciliano27. Questi movimenti sovversivi, che prendono il nome di terza

guerra sardo-punica, sembra che si protrassero per svariati anni; comunque pare corretto ipotizzare che Cartagine soffocò definitivamente le ribellioni entro il 348 a.C., anno in cui la città africana strinse un secondo patto con Roma: con esso si definì il ruolo svolto dalla Sardegna che, associata alla Libia, risultò stavolta essere un’area totalmente interdetta ai commerci romani e all’eventuale fondazione di colonie da parte della città laziale. Si evince che Libia e Sardegna divennero ufficialmente territori posti sotto il controllo politico (ed economico) di Cartagine28.

Usando le parole di Mastino dunque, a partire da questo momento (dalla metà del IV secolo a.C.) i centri sardi, che avevano patito un V secolo a.C. di contrazione, recessione e difficoltà economiche non indifferenti, si trovarono ora a vivere un momento di fioritura, visibile anche dal punto di vista architettonico con la costruzione e/o il rifacimento di opere pubbliche civili, religiose e militari29.

Barreca suggerisce che la rinascita degli abitati sardi e l’edificazione di capisaldi militari sparsi in tutto il territorio isolano sia da ricondurre all’intenzione da parte dei Cartaginesi di scoraggiare successive ribellioni indigene oltre che alla svolta dettata dal trattato del 348 nei rapporti “internazionali”30.

La situazione rimase stabile fino a quando Cartagine e Roma, che avevano intrattenuto fino ad allora rapporti cordiali e pacifici, sanciti dal rispetto reciproco per le rispettive aree di dominio ed influenza, nel secondo quarto del III secolo entrarono in guerra a causa di una collisione di interessi. Roma aveva ormai annesso tutta la penisola italica, dal centro alla punta meridionale. Oltre lo stretto vi era la Sicilia, in parte greca ed in parte sotto influenza punica: essa era infatti parzialmente compresa all’interno del

25 Tore, Stiglitz 1994, p.782: i nuovi insediamenti abitati, afferma G.Tore, sono da considerare come “aggregati

rurali in parte suburbani o totalmente rurali, o come dipendenza da strutture militari”.

26 Bartoloni 1988, p. 346.

27 Barreca 1986, pp. 35-36: Lo studioso sostiene che l’insurrezione in terra Sarda contro i dominatori Cartaginesi

sia stata fomentata dagli stessi Siracusani; questi, impegnati in una guerra contro Cartagine, avrebbero voluto mettere in crisi la città punica aprendo un nuovo fronte bellico in Sardegna e causando all’esercito nemico non pochi problemi nei rifornimenti che provenivano per la maggior parte dall’isola; Moscati 2000, pp. 151-152: l’autore pare estremamente convinto del fatto che i ribelli che dettero inizio a questa insurrezione fossero invece popolazioni libiche stabilitesi nell’isola, le quali trovarono l’appoggio e il sostegno degli indigeni.

28 Meloni 1975, pp.17-19; Barreca 1986, p.36: la presenza in Sardegna di merci romane attribuibili al periodo

compreso tra IV e III secolo a.C. è semplicemente da considerarsi esito di commerci indiretti mediati da Cartagine; Moscati 2000, pp. 152-153. Mastino 2005, pp. 63-64.

29 Mastino 2005, pp. 45-46. 30 Barreca 1986, pp. 36-38.

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14 grande impero che Cartagine aveva costruito dal VII secolo a.C. e che si estendeva dall’Africa alla Spagna, includendo le isole del Mediterraneo occidentale. L’occasione dello scontro diretto tra le due città venne offerta dai Mamertini (un gruppo di mercenari assoldati da Agatocle di Siracusa) i quali, seppur congedati, non abbandonarono il suolo isolano bensì si stabilirono prepotentemente a Messina, dedicandosi ad attività di saccheggio e brigantaggio delle aree circostanti. Siracusa cercò di risolvere subito la situazione inviando un esercito posto sotto il comando del generale Ierone, che effettivamente ottenne una grande vittoria sui mercenari e poté avanzare verso la città soggiogata. I Mamertini, trovandosi in una situazione di scacco abbastanza critica, non esitarono, appena ne ebbero occasione, nel chiedere aiuto ad una flotta punica che attraversava lo stretto proprio in quel momento. I Cartaginesi si stabilirono così a Messina, costringendo Ierone a far ritorno a Siracusa, dove peraltro vennero celebrati i suoi trionfi e venne proclamato re. Presto però i Mamertini si stancarono della presenza cartaginese e si videro costretti ad interpellare l’aiuto di Roma, la quale era già di recente intervenuta nella città di Reggio per risolvere una situazione non dissimile. Valutati vantaggi e rischi, nel 264 a.C. scoppiò la guerra31.

Due anni dopo l’inizio delle ostilità, quindi nel 262 a.C., sembra che Cartagine avesse ammassato un discreto numero di soldati in territorio sardo, probabilmente con l’intento di attaccare direttamente la città di Roma dai territori ad essa più vicini32. Questa notizia viene riportata dallo storico bizantino

Zonara, il quale si rifà senza dubbio a Cassio Dione, ma non sappiamo come quest’ultimo nel III secolo d.C. abbia ottenuto tale informazione: si potrebbe ipotizzare che egli a sua volta avesse appreso le vicende della guerra dall’opera perduta di Filino di Agrigento (che scrive nel III secolo a.C. e in ottica antiromana); oppure è possibile che Cassio Dione si fosse basato sulle Ἱστορίαι di Polibio, il quale si era aggiornato tenendo in considerazione l’unica fonte contemporanea rispetto allo sviluppo della guerra, ovvero proprio l’opera di Filino33.

A prescindere dai dubbi di carattere puramente filologico, niente si conosce in merito alla vicenda. Di contro, numerose sono le fonti che ci informano delle iniziative romane su suolo sardo, tra cui sono da annoverare le spedizioni del 259 a.C. e del 258 a.C. compiute rispettivamente dai consoli L. Cornelio Scipione e C. Sulpicio Patercolo34.

Per quanto concerne quella del 259 a.C., le fonti sono discordanti35 ma riportano vicende che possono

essere accorpate e riassunte nel modo seguente: è possibile che prima fosse stata conquistata Aleria

31 Geraci, Marcone 2011, pp. 87-89.

32 Meloni 1975, p. 19; Barreca 1986, p. 83; Moscati 2000, p. 153; Mastino 2005, p. 64. 33 Meloni 1975, pp.19-26; Moscati 2000, p. 153.

34 Meloni 1975, pp. 21-26; Moscati 2000, pp. 153-154; Mastino 2005, p. 64.

35 Meloni 1975, pp. 21-23: l’autore propone l’elogio scritto per L. Cornelio Scipione qualche decennio dopo la sua

morte e la celebrazione del trionfo “de Poeneis et de Sardin(ia), Corsica” annotato nei Fasti Trionfali Capitolini come elementi che proverebbero, uniti alla tradizione letteraria, almeno un tentativo di conquista dell’isola da parte romana.

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15 (ovvero Alalia) e con essa tutta la Corsica, con forza o per sottomissione delle popolazioni indigene; successivamente il console si sarebbe diretto verso la Sardegna, per la precisione verso Olbia ma, avvistata una poderosa flotta cartaginese, egli fece ritirare l’esercito. Non sappiamo se in questo frangente la città di Olbia venne conquistata36.

Nel 258 a.C. invece, stando ai racconti di Zonara e Polibio, i Romani, sotto il comando del console C. Sulpicio Patercolo, effettuarono attacchi ripetuti e repentini contro le posizioni cartaginesi della costa sarda, provocando non pochi disagi alle guarnigioni puniche ivi stanziate. Una volta che gli assedianti giunsero presso Sulky (città nella costa Sud-orientale dell’isola), la flotta romana arrivò direttamente allo scontro con quella cartaginese, che proprio nella suddetta città sarda aveva la sua base. L’esito della battaglia fu disastroso per i punici, i quali videro affondare la stragrande maggioranza delle loro navi: gli equipaggi cartaginesi, notando che la situazione stava volgendosi in maniera favorevole per gli avversari italici, decisero di abbandonare le loro imbarcazioni e di arroccarsi all’interno delle mura della città di Sulky, dove condannarono a morte per crocifissione (o per lapidazione) il generale Annibale, accusato di aver provocato il disastro navale. Nonostante il duro colpo inflitto alla flotta cartaginese, i Romani non riuscirono a mantenere il vantaggio acquisito: le truppe romane, che avevano l’obiettivo di conquistare la Sardegna per sottrarla dalle mani dei nemici africani, furono raggiunte dalle guarnigioni puniche poste sotto il comando di Annone, le quali inflissero loro una pesante sconfitta. Nonostante la sua disfatta, il console C. Sulpicio tornò in patria e gli furono concessi i trionfi “de Poeneis et Sardeis” attestati dai fasti trionfali37.

Negli anni a seguire non sembra che si siano verificati altri tentativi di conquista della Sardegna da parte romana, probabilmente poiché lo scenario della guerra si spostò in Africa e in Sicilia.38 La

conclusione del conflitto avvenne nel 241 a.C. a seguito della vittoria che la flotta romana ottenne su quella cartaginese presso le isole Egadi. Nello stesso anno venne firmato un trattato di pace che impose delle pesanti condizioni alla città nord-africana: questa avrebbe infatti perso il suo dominio sull’intera Sicilia, sulle Lipari e le Egadi; inoltre si vide costretta a pagare un indennizzo di guerra molto alto39; la

Sardegna invece restò in mano cartaginese40.

36 Meloni 1975, pp. 21-23. Barreca 1986, pp. 43-44; Moscati 2000, p. 153: Barreca e Moscati sostengono che i

romani riuscirono a conquistare Olbia a seguito di uno scontro navale avvenuto probabilmente contro la flotta dell’ammiraglio Annone nelle acque antistanti la città. Durante lo scontro navale, che si risolse favorevolmente per i romani, lo stesso Annone perse la vita ed il console gli rese gli onori funebri. Ovviamente gli eventi generarono scandalo a Cartagine, al punto che venne mandata una grande flotta di soccorso (si presuppone quella comandata dal generale Annibale, di ritorno dalla sconfitta di Milazzo nel 260 a.C.), la quale provocò la fuga dei romani. Mastino 2005, p. 64.

37 Meloni 1975, pp. 24-26; Barreca 1986, p. 44; Moscati 2000, p. 153; Mastino 2005, p. 64. 38 Moscati 2000, p. 155.

39 Meloni 1975, p. 27-28: Cassio Dione, probabilmente rifacendosi a Filino, elenca tra le clausole del trattato

anche “la restituzione dei prigionieri romani senza riscatto ed il pagamento del riscatto per i loro; l’impegno a non condurre guerre ed a non stipulare paci senza l’autorizzazione di Roma; la resa di tutta la flotta ad eccezione di una sola nave; l’obbligo di fornire una squadra di cinquanta navi da guerra a richiesta di Roma.”

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16 Le difficoltà economiche che Cartagine dovette affrontare all’indomani della guerra furono così pesanti da provocare una crisi profonda che la colpì direttamente nel suo interno: la città nord-africana infatti non trovava i fondi per retribuire i mercenari di cui si era servita durante la guerra contro Roma e questi, stanchi di attendere vanamente la loro ricompensa, nel 240 a.C. si ribellarono all’autorità cittadina, coinvolgendo alcune tribù stanziate nei territori limitrofi41. L’insurrezione fu sedata non

senza difficoltà da Amilcare Barca, ma solo quando questa si era già diffusa in Libia e in Sardegna. Proprio in quest’isola, la rivolta provocò l’uccisione del comandante punico Bostare e di tutti i Cartaginesi che, nella speranza di poter sfuggire alla furia dei mercenari, si erano arroccati in una città il cui nome non viene però fornito da Polibio42. Cartagine agì subito inviando un contingente militare

in Sardegna con l’intento di soffocare o quantomeno arginare la rivolta, ma le stesse truppe si ammutinarono contro il loro comandante Annone43 che, in questo contesto, trovò la morte per

crocifissione. I mercenari presenti in Sardegna, imbaldanziti per le loro prodezze e per la forza con cui riuscirono abilmente a contrastare i loro avversari inviati direttamente dal nord-africa, si impadronirono così dell’isola, instaurando un clima di terrore tale che le popolazioni indigene (o piuttosto quelle sardo-puniche) si videro costrette ad impugnare le armi: a questo punto Polibio riferisce che tra il 239 e il 238 a.C. i Sardi riuscirono a mettere in fuga tutti i mercenari, i quali trovarono rifugio nella penisola italica44.

Attilio Mastino sostiene che i mercenari, poiché incalzati dalla reazione punitiva delle popolazioni indigene o semplicemente impauriti che la repressione, che in quei tempi i Cartaginesi stavano attuando nei confronti dei ribelli in territorio africano, potesse espandersi fino in Sardegna e raggiungerli, chiesero appoggio militare a Roma45.

Inizialmente Roma si astenne dall’intervenire in Sardegna probabilmente perché sperava che, se la rivolta avesse avuto esito positivo, l’isola sarebbe riuscita ad ottenere il distacco dal dominio cartaginese, divenendo una terra ufficialmente autonoma ma facilmente manovrabile dal punto di vista economico, quindi culturale e soprattutto politico46. Ma quando in Italia giunsero le notizie che

Cartagine, seppure con difficoltà, aveva sconfitto in una battaglia campale nei dintorni della città le forze ribelli del luogo e che anche ad Utica e ad Ippona gli insorti dichiaravano la resa, Roma comprese

41 Mastino 2005, p. 64; Geraci, Marcone 2011, p. 91.

42 Meloni 1975, p. 31; Moscati, Bartoloni, Bondì 1997, p. 81; Stiglitz 2002, p. 1129; Mastino 2005, p. 64: gli autori

ipotizzano che la città in questione potesse essere Carales, quale sede del comando generale.

43 Meloni 1975, p. 31: a proposito di Annone, non è da scartare l’ipotesi secondo cui si tratterebbe dello stesso

Annone che sconfisse i Romani nel 258 in Sardegna.

44 Meloni 1975, p. 31: lo studioso aggiunge che In realtà questa affermazione contrasta con quella di poco

successiva fornita da Polibio, secondo cui furono gli stessi mercenari presenti nell’isola ad interpellare i romani chiedendo il loro intervento. Se ne deduce che sicuramente una parte dei rivoltosi, seppur piccola, restò nell’isola; Barreca 1986, p. 44: secondo Barreca sarebbero stati i mercenari rifugiatisi a Roma ad invocare l’intervento militare della città in Sardegna.

45 Meloni 1975, pp. 32-37. Moscati 2000, pp. 153-154; Mastino 2005, p. 65. 46 Meloni 1975, p. 33; Mastino 2005, p. 65.

(17)

17 che era arrivato il momento di agire: ed ecco che, giunta dall’isola un’ulteriore richiesta di aiuto, la città laziale ebbe il pretesto giusto per intromettersi nella quaestio Sardiniae e allestì prontamente un esercito con cui ne avrebbe tentato la conquista. Pare che Cartagine di pronta risposta inviò a Roma un’ambasceria per reclamare la Sardegna e per ricordare alla città Italica che la sua eventuale spedizione militare nell’isola avrebbe costituito una violazione del trattato di pace del 241 a.C.. Facendo tuttavia leva sulla sua posizione di vantaggio, Roma respinse le accuse mosse da Cartagine e, incriminando dal canto suo la città africana di organizzare una spedizione rivolta non tanto contro la Sardegna quanto piuttosto verso Roma stessa, rispedì in Africa l’ambasceria, inflisse il pagamento di un’ulteriore ammenda alla città (da sommare agli indennizzi di guerra) e introdusse una nuova clausola al trattato del 241: la cessione della Sardegna47.

Una volta arrivato in Sardegna, l’esercito sotto il comando di Tiberio Sempronio Gracco riuscì nel 238 a.C. a sottomettere l’isola senza colpo ferire48.

47 Meloni 1987, pp. 34-37; Moscati 2000. P- 154; Mastino 2005, pp. 64-66.

(18)

18

1.2. I sistemi difensivi della Sardegna punica

Prima di passare in rassegna le strutture fortificatorie erette in epoca punica sul territorio sardo, si fornisce al lettore una tabella crono-tipologica che schematizza quanto riportato nelle pagine a seguire.

La tabella illustra gli edifici di carattere difensivo suddivisi per località di appartenenza e per secolo di costruzione; pertanto, ogni casella può essere letta in maniera del tutto autonoma, rappresentando le fortificazioni relative ad uno specifico luogo e ad un determinato arco temporale.

Sulla base dei dati disponibili, il periodo di attribuzione di alcune strutture risulta più ampio; l’incertezza cronologica degli edifici viene segnalata con l’estensione in senso orizzontale della relativa casella, in maniera che i suoi limiti laterali corrispondano a quelli dei secoli durante i quali si presuppone che gli stessi edifici siano stati eretti.

L’incertezza funzionale delle strutture viene segnalata mediante il segno grafico “?”.

Ogni singola struttura viene descritta con l’uso di uno o più simboli (vedasi legenda per il significato) disposti su una medesima riga. A righe differenti corrispondono pertanto edifici differenti, collegati tra loro topograficamente e cronologicamente, ma pur sempre distinti.

A titolo di esempio, si riportano di seguito due estratti della tabella e la loro corretta lettura.

Monte Sirai, abitato, III secolo a.C.:

Costruzione, con reimpiego di materiale, di una cinta muraria ad andamento spezzato; la cinta è stata eretta con pietrame di varia pezzatura. Presenza di una grande porta di ingresso con passaggio a corridoio, affiancata probabilmente da due torri.

Presenza di fossato e di annesso antemurale, realizzato ad emplekton.

Carales, abitato, periodo imprecisato tra III e V secolo d.C.:

Costruzione di una cinta muraria con andamento rettilineo. Trattasi di struttura ad emplekton, con cortina esterna in opera quadrata.

(19)

19

(20)

20

1.2.1.

Le fortificazioni delle città costiere

Premettendo che nell’isola la pianificazione urbanistica venne introdotta dai fenici49 e migliorata dalle

popolazioni dominatrici successive50, le città più importanti (fig. 1) nonché più antiche erano

sicuramente quelle affacciate sul mare (da cui si evince la loro spiccata connotazione commerciale che rimanda direttamente alla “talassocrazia” fenicia prima e punica poi) ed in prossimità dei promontori, dei quali occupavano tutta l’area (Nora, Bithia, Olbia) o solamente le pendici (Karali, Sulky, Tharros)51.

Altro fattore indubbiamente importante ai fini poleogenetici era la vicinanza di un fiume e/o della sua foce: questo accade, a titolo di esempio, per Karali, che sorse in prossimità delle foci dei fiumi Mannu e Cixerri, per Tharros, prossima alla foce del fiume Tirso, ecc52.

Barreca propose alla fine degli anni Ottanta una teoria (vedasi ipotesi ricostruttive e relative confutazioni per ogni singolo centro) secondo cui gli stanziamenti punici più importanti sorti e sviluppatisi sulle coste sarde fossero stati dotati di impianti fortificati più o meno imponenti durante il IV secolo a.C.. L’insieme di tali centri e delle loro strutture difensive avrebbe costituito una valida “cortina perimetrale”, il cui scopo sarebbe stato quello di tenere a lontano dalla Sardegna qualsiasi altra potenza che aveva mire espansionistiche nei suoi riguardi (soprattutto Roma), configurandola dunque

49 Stiglitz 2004, p. 57

50 Bartoloni 1988, p. 345; Dyson, Rowland Jr 1990, p. 525.

51 Tucidide, Περί τοũ Πελοποννησίου πολέμου, VI, 2, 6; Barreca 1986, pp. 23-24; Stiglitz 2004, pp. 60-61. 52 Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, p. 40; Stiglitz 2004, pp. 60-61.

Figura 1. Foto aerea della Sardegna con indicazione delle città puniche più importanti scoperte fino ad ora.

(21)

21 di dominio esclusivo Cartaginese53. Ed effettivamente come constata Bondì, in Sardegna venne

privilegiata, a differenza di quanto accadde in Sicilia, la difesa delle aree urbane54.

1.2.1.1.

Krly

55

L’antica Karali, non indagabile in maniera approfondita per l’insistenza della città odierna su quella antica56, sorse per volere fenicio tra VIII e VII secolo a.C.57 in un punto estremamente strategico che

riflette chiaramente l’andamento delle rotte commerciali del periodo58. L’insediamento si trovava

infatti alla base del promontorio denominato Capo Sant’Elia, che con il suo andamento NO-SE divide a metà l’ampio golfo cagliaritano, ripartendolo in laguna di Santa Gilla a Ovest (ove sfociano i fiumi Mannu e Cixerri 59) e litorale del Poetto e stagno di Molentargius a Est60: per la precisione, la città

fenicia di krl era fondata sulla sponda orientale della laguna di Santa Gilla61.

Figura 2. Veduta aerea della città di Cagliari. Si segnalano: l'antica linea di costa (in azzurro), aree formateri naturalmente in epoca moderna (in grigio); il colle Tuvixeddu-Tuvumannu(1), viale sant’Avendrace (2), il colle di Castello (3), via Brenta (4) viale Merello (5) e via XX settembre (6).

53 Barreca 1986, pp. 36-37, 88-89. 54 Bondì 2014, p. 427.

55 Acquaro, Aubet, Fantar 1992, p. 105: il nome punico e romano di Karali è il calco di krl. Moscati 2000, pp.

187-188; Stiglitz 2002, p. 1129, nota n°3: il nome punico di Cagliari è testimoniato da alcune iscrizioni ritrovate ad Antas e pubblicate da Fantar in Acquaro et alii, 1969: ricerche puniche ad Antas, Roma 1969, pp. 47-93.

56 Moscati 2000, p. 187.

57 Meloni 1975, pp. 206-208; Barreca 1986, pp. 22-25 e 288; Acquaro, Aubet, Fantar 1993, p. 106; Moscati 2000,

p. 188; Stiglitz 2002, pp. 1129-1138; Mastino 2005, p. 29 e 32; Stiglitz 2009, p. 50.

58 Stiglitz 2002, p. 1134-1135.

59 Stiglitz 2002, pp. 1134-1135: da non sottovalutare che i fiumi costituivano un’importantissima via di

penetrazione verso le fertili pianure interne del Campidano. Stiglitz 2009, p. 44.

60 Stiglitz 2009, p. 45.

(22)

22 L’abitato punico si spostò leggermente verso Est rispetto a quello fenicio (fig. 2)62, seguendo

l’andamento della vallata che si estende tra il colle Tuvixeddu-Tuvumannu e la già citata laguna di Santa Gilla63 (dunque sempre nella parte occidentale dell’attuale abitato64): il nucleo della città bassa era

probabilmente situato dove ora si trova viale Sant’Avendrace, il suo porto si presuppone fosse nell’area dove è presente attualmente la stazione ferroviaria e parzialmente ricavato nello stagno di Santa Gilla, mentre l’acropoli si trovava probabilmente sul colle di Castello65.

É proprio dal quartiere di Castello che provengono le scarse, finora dubbie, testimonianze di strutture militari puniche della città. Difatti tale quartiere, che si sviluppa sulla parte sommitale dell’omonimo colle, mostra un sistema di mura e torri da attribuire alla dominazione pisana, le quali sembrano a tutti gli effetti impiantate su strutture difensive antiche. Proprio la Torre dell’Elefante 66 (fig. 3),

realizzata nel XIV secolo dai Pisani, pare impostarsi su dei blocchi pertinenti ad una cinta muraria (app. I, A.1.1) edificata con una tecnica di tipo preromano da datare tra IV e III secolo a.C.67. Ferruccio Barreca

ha messo dapprima in evidenza l’analogia tra la planimetria del quartiere cagliaritano di Castello con quella del sito fenicio-punico di Monte Sirai, di indubbia connotazione militare almeno a partire dal IV secolo. Già questo, a parere dello studioso, sembra un buon presupposto per sostenere che l’areale di Castello rappresentasse in antico l’Acropoli di Krly e che dunque fosse dotato di un circuito murario difensivo: a tal proposito egli sostiene che le strutture militari pisane si siano impostate sugli spianamenti punici in roccia e che siano state costruite col reimpiego dei blocchi squadrati e bugnati di cui si componevano quelle cartaginesi68. Anche Attilio Mastino reputa la torre di San Pancrazio, parte

62 Mastino 2005, p. 48.

63 Moscati 2000, p.61; 188; Stiglitz 2002, p. 1135. 64 Mastino 2005, p. 32.

65 Barreca 1986, pp. 66 e 288: la collocazione dell’acropoli sulla sommità del colle di castello, nonché la sua

conseguente lontananza dal porto cittadino sono spiegabili con la volontà da parte punica di voler sfruttare nel miglior modo possibile il vantaggio difensivo che la natura del territorio offriva. Acquaro, Aubet, Fantar 1993, p. 106; Stiglitz 2004, p. 65: l’autore sostiene che sussiste una distanza eccessiva tra l’antico porto e l’eventuale acropoli punica, il ché farebbe propendere per il rigettare la teoria secondo cui la città alta risiedesse proprio sul colle di Castello.

66 Barreca 1986, pp. 287-288; Acquaro, Aubet, Fantar 1993, pp. 106-107; Moscati 2000, pp. 188-189.

67 Acquaro 1988, pp. 52; Acquaro, Aubet, Fantar 1993, pp. 106-107; Moscati 2000, pp. 188-189; Montanero Vico

2012.

68 Barreca 1986, pp. 287-288.

Figura 3. Particolare del basamento della torre dell'Elefante. Sono ben visibili i filari composti da blocchi lapidei squadrati e bugnati (da Barreca 1986, p. 69).

(23)

23 integrante del circuito murario pisano del XIV secolo, come una grande struttura impostata su fondazioni di origine punica: tale basamento sarebbe costituito da “grossi blocchi calcarei in opera pseudoisodoma” (app. II, I.3.2.). Lo studioso inoltre prosegue affermando che non è un caso il fatto che solo le due torri collocate all’estremità occidentale del quartiere di Castello abbiano preservato resti fino ad oggi; difatti “l’apparato difensivo punico del versante meridionale, prospiciente il mare, venne sicuramente smantellato subito dopo la conquista romana della Sardegna”69. Lo studioso

Montanero Vico raffronta le torri di San Pancrazio e dell’Elefante con la Torre Maestra del Castello dei Malaspina di Bosa: tutte e tre le strutture furono disegnate dallo stesso architetto Giovanni Capula ad inizio XIV secolo e mostrano l’impiego di blocchi squadrati e bugnati di epoca sicuramente antecedente a quella medievale. Inoltre, lo studioso ha recentemente notato che nelle murature che delimitano Piazza Arsenale, accanto alla torre di San Pancrazio, sono stati impiegati blocchi di arenaria, alcuni dei quali bugnati70.

Lungo via Brenta Giovanni Tore segnala la scoperta di un muro con apparente andamento curvilineo (app. I, A.2.1.) costituito da blocchi di tufo giallino, alcuni dei quali bugnati, da ricondurre ad epoca punica sulla base del ritrovamento di materiali fittili ad esso associati, rimasti purtroppo inediti; inoltre si menziona il ritrovamento di “poderose strutture murarie in opera isodoma” (app. II, I.3.1.) in viale Merello71.

Sebbene questi rinvenimenti siano abbastanza suggestivi e consentano di avanzare alcune ipotesi sui sistemi di fortificazione della città, non esistono comunque elementi che permettono di accertare la loro esistenza e la loro articolazione72.

1.2.1.2.

Nora

La città di Nora73, la cui fondazione si fa risalire attorno all’VIII secolo a.C.74 (sebbene l’area fosse già

abitata da popolazioni nuragiche), nacque su una lingua di terra situata a 30 km a sud-ovest di Cagliari75. L’istmo si protende verso il mare con andamento nord-sud e va allargandosi all’estremità

meridionale formando due promontori: Sa punta e su Coloru ad ovest e la Punta di Coltellazzo ad est con la vicina isoletta omonima, congiunta in antico al promontorio (fig. 4)76.

69 Mastino 2005, p. 48. 70 Montanero Vico 2012.

71 Stiglitz 2004, p.65; Stiglitz 2009, p. 62: testo e nota 177 con riferimento a G. Tore, Segnalazione

danneggiamento manufatto antico in prossimità prolungamento via Brenta, Cagliari. 12.08.1989: Archivio della

Soprintendenza Archeologica per le province di Cagliari e Oristano.

72Stiglitz 2004, pp. 65-66; Stiglitz 2009, p. 62; Montanero Vico 2012.

73Acquaro 1988, pp. 57; Zucca 1992, p. 871 e Acquaro, Aubet, Fantar 1993, p. 109 riconoscono che la tradizione

antica, nello specifico Pausania, proclama Nora come la città più antica della Sardegna.

74 Meloni 1975, p. 227; Barreca 1986, pp. 310-312; Acquaro, Aubet, Fantar 1993, p.109; Moscati 2000, p. 208;

Mastino 2005, p. 32;

75 Moscati 2000, p. 208.

(24)

24 La risistemazione urbanistica attuata dai Romani e l’arretramento della linea di costa, che ha provocato la sommersione di parte dell’abitato, rendono sicuramente il sito di non facile lettura.

Partendo dalla Punta di Coltellazzo, Patroni77 dapprima individuò a inizio XX secolo i resti di tre

strutture quadrangolari che, sulla base dell’analisi della tecnica edilizia e dei materiali pervenuti, furono interpretate dallo studioso come torri (app. I, B.), di cui una realizzata in età punica. Barreca, nella seconda metà del secolo scorso individuò lacerti murari di tipo punico nel tratto meridionale dell’istmo in direzione del promontorio di Coltellazzo. Questi sono stati inizialmente interpretati come testimonianze dell’esistenza di una cinta a protezione dell’abitato, distinta ma comunque unita a quella che doveva proteggere l’acropoli situata sullo stesso promontorio78; lo studioso, indagando

l’altura del Coltellazzo e leggendo l’andamento del circuito murario dalle evidenze del terreno, sostenne che le mura dell’acropoli (app. I, A.1.1.) seguivano un andamento “a spirale” (app. I, A.2.2.), ovvero che “partivano da uno sbarramento dell’istmo posto ad ovest della torre più tarda di Sant’Efisio, seguivano a mezza costa il fianco nord dell’altura, poi piegavano verso Sud ed infine puntavano nuovamente verso lo sbarramento dell’istmo79. il paramento murario esterno venne costruito

mettendo in opera a secco blocchi lavici irregolari (app. II, I.1.), dotati di una lunghezza che oscillava tra gli 80 e 90 cm ciascuno80.

77 Patroni 1901, p. 376; Finocchi 2000, pp. 286-287.

78 Sarebbero due quindi, a parere degli studiosi, le cinte murarie di cui la città era provvista. Barreca 1986, pp.

310-312; Acquaro 1988, pp. 56-58.; Acquaro, Aubet Fantar 1993, p. 110.

79 Barreca 1986, p. 310.

80 Barreca 1986, p. 310; Finocchi 2000, p. 287.

(25)

25 Barreca riconobbe le torri già evidenziate da Patroni, nonché altre che si ergevano lungo il tracciato a cremagliera (app. I, A.2.3.) delle mura o al loro interno81. Moscati, discostandosi lievemente dalla teoria

di Barreca, propende per identificare tali strutture come resti di murature pertinenti alla cinta che circondava e proteggeva non l’acropoli, bensì l’abitato stesso82. Stefano Finocchi, durante le ricerche

archeologiche effettuate sull’altura di Coltellazzo tra il 1990 ed il 1998, edite nel 2000, asserisce di aver individuato in seguito alla pulizia dell’area, “un altro lacerto murario con andamento nord-est/Sud-ovest realizzato nella medesima tecnica costruttiva” la cui lettura porterebbe a pensare come questo muro e gli altri fino ad ora scoperti “costituiscano sostegno per veri e propri terrazzamenti la cui destinazione d’uso pone non pochi problemi”; inoltre, prendendo in considerazione la grande quantità di materiali ceramici rinvenuti sull’altura, Finocchi propende per rifiutare la supposta connotazione militare dell’area83. Questa ipotesi concorderebbe con quella proposta da Ida Oggiano nel 2000, la

quale è propensa ad attribuire all’areale in questione e alle strutture che ne fanno parte una connotazione esclusivamente cultuale; Oggiano difatti scrive che “molti sono i fattori che parlano a favore di un’interpretazione dell’area come sacra, principalmente la posizione topografica […] e le stesse caratteristiche costruttive che sembrano poco convincenti se riferite ad una fortificazione”84.

Per ultimo, David Montanero Vico si pone nel solco di Stefano Finocchi e Ida Oggiano, asserendo che sul promontorio del Coltellazzo le ispezioni da lui condotte non abbiano portato a riconoscere alcuna struttura che accerti l’esistenza di antiche fortificazioni: dal terreno affiora qualche blocco di arenaria, talvolta lavorato a bugnato, ma ciò accade per tutta l’estensione dell’insediamento85; inoltre alcuni

blocchi della medesima tipologia sono riscontrabili nelle apparecchiature murarie realizzate durante le epoche successive, come è ben visibile nel basamento del Tempio di Esculapio, situato in posizione svettante sulla Punta de su Coloru86.

Mastino sostiene che le fortificazioni puniche del IV secolo a.C., realizzate in arenaria locale, furono completamente smantellate subito dopo l’occupazione romana87.

La struttura conosciuta come “alto luogo di Tanit” venne realizzata in posizione privilegiata, sulla sommità della collina che si erge al centro dell’istmo e nel tempo è stata variamente interpretata. L’edificio, che tra l’altro si imposta su strutture nuragiche di epoca precedente, per alcuni parrebbe far parte di opere a carattere difensivo della città, costituendo una vera e propria fortezza all’interno

81 Patroni 1901, p. 376; Chiera 1978, p. 57; Barreca 1986, p. 310. 82 Moscati 2000, p. 210. 83 Finocchi 2000, pp. 288-289. 84 Oggiano 2000, pp. 213; Stiglitz 2004, pp. 84-85. 85 Montanero Vico 2012. 86 Montanero Vico 2012. 87 Mastino 2005, p. 49.

(26)

26 dell’abitato nel suo punto maggiormente elevato, come avviene per il Mastio di Monte Sirai88. Secondo

una nuova teoria, il complesso sarebbe piuttosto da identificare come polo cultuale. Quest’ultima interpretazione è stata recentemente accolta anche da Sandro Filippo Bondì (che inizialmente si era esposto in favore della prima ipotesi), in considerazione dei materiali ceramici rinvenuti durante le sue indagini89. Nuovi elementi di valutazione sulle fortificazioni delle città potrebbero infine provenire dalle

indagini avviate nel 2012 da Jacopo Bonetto e Andrea Raffaele Ghiotto dell’Università di Padova nell’area della Marina Militare, occupata dalle necropoli fenicia e punica e dall’abitato romano90.

1.2.1.3.

Bithia

La città di Bithia, localizzata a sud-ovest di Nora, venne fondata dai fenici presumibilmente tra il VIII e il VII secolo a.C.91 nell’area che gravitava attorno al promontorio chiamato Punta di Chia (fig. 5)92.

Figura 5. Rappresentazione del promontorio chiamato "punta di Chia" (da Gurguis 2017, p. 123).

Il primo sistema fortificato realizzato in questo territorio, di cui esistono tracce oltre lo stagno di Chia, ovvero sulle vicine colline di Tanca Spartivento, Monte Cogoni e Monte Settiballas, parrebbe da

88 Acquaro 1988, p. 58; Bondì 1998, p. 344; Bondì 2000, p. 244; Moscati 2000, p. 210: l’esempio di Nora non

costituirebbe un unicum nell’isola, ma trova riscontri anche in altre città fenicio-puniche della Sardegna, come a Sulki e Monte Sirai; Stiglitz 2004, p. 66

89 Stiglitz 2004, p. 83; Bonetto 2009, nota 724 p. 239; Montanero Vico 2012. 90 Bonetto Ghiotto 2013, p. 136.

91 Bartoloni 1997b, p. 81. 92 Stiglitz 2004, p. 66

(27)

27 attribuirsi all’epoca nuragica e non sembra che i Fenici e i Punici lo avessero sfruttato nelle epoche successive.93

Sul lato nord del promontorio Punta di Chia, Antonio Taramelli durante i suoi scavi mise in evidenza, oltre ad una serie di strutture di età romana, anche lacerti murari realizzati con grandi blocchi lapidei, probabilmente pertinenti ad una cinta muraria (app. I, A.)94. Sul versante sud sono stati ritrovati resti

di strutture realizzate con grossi blocchi squadrati di arenaria: si ipotizza anche in questo caso funzione militare degli edifici, ma da collocare cronologicamente ad un’epoca tarda.95

Nel VI secolo a.C., anche Bithia, come molti altri centri dell’isola, venne distrutta e abbandonata in seguito alla conquista cartaginese. Ciononostante, nel IV secolo a.C. la città rinacque: è proprio a questo periodo che si può attribuire la grande fioritura edilizia dell’insediamento, che venne dotato di un sistema di fortificazione96. Sabatino Moscati e Attilio Mastino ritengono che tale sistema di difesa

fosse costituito da una cinta muraria che cingeva l’abitato, il cui perimetro doveva misurare circa 5 chilometri, e da un insieme di apposite strutture dislocate sulle alture circostanti l’abitato97.

Smentiscono parzialmente questa considerazione le recenti attività di survey effettuate da Carlotta Bassoli, Fabio Nieddu, Stella Santamaria e Roberto Sirigu, pubblicate nel 2013: le ricerche svolte hanno permesso di notare che solo sul promontorio della torre di Chia, precisamente nel settore 3 corrispondente alle sue pendici settentrionali e occidentali (fig. 6), è presente “una struttura di grandi dimensioni, parzialmente conservata, da interpretare come parte di un sistema di fortificazione”; i blocchi con cui questo vano di 3.70x12.10 metri venne realizzato sono “megalitici” ed irregolari, messi in opera con l’aiuto di zeppe lapidee di medie e piccole dimensioni (app. II, I.1.)98. I ricercatori

sostengono che “alla possente struttura in una fase successiva si addossarono vari ambienti, i cui muri

93 Bartoloni 1997b, pp. 81-82.

94 Barreca 1986, p. 294; Bartoloni 1997b, p. 81; Moscati 2000, p. 228. 95 Moscati 2000, p. 228.

96 Bartoloni 1997b, pp. 82-83; Stiglitz 2004 p. 66. 97 Moscati 2000, pp. 226-239; Mastino 2005, p. 54.

98 Bassoli, Nieddu, Santamaria, Sirigu 2013, p. 289 e nota 18 p. 289.

Figura 7. In rosso, strutture con probabile funzione difensiva individuate sulla punta di Chia (Bassoli, Nieddu, Santamaria, Sirigu 2013, p. 297).

Figura 6. Area dell’ipotetico sistema di fortificazione (Bassoli, Nieddu, Santamaria, Sirigu 2013, p. 297).

(28)

28 furono realizzati con tecniche costruttive differenti e con blocchi di pietra locale di dimensioni minori”99.

Sempre sulla collina della Torre di Chia sono stati individuati sul versante settentrionale, orientale e meridionale numerosi tratti di muratura ascrivibili ad una ipotetica struttura fortificata di epoca punica, sebbene non sembra da scartare l’ipotesi che li vedrebbe correlati ad una funzione di terrazzamento100.

1.2.1.4.

Sulky

La città fenicia di Sulky, sulla quale si è impostata l’odierna cittadina di Sant’Antioco, fu fondata nell’VIII secolo a.C.101, precisamente tra il 780 e

760 a.C.102, sulla costa orientale dell’isoletta

omonima ed in prossimità dell’istmo che collega quest’ultima alla Sardegna (fig 8)103. Si riscontra

dunque la presenza di tutti quegli elementi ottimali che i fenici ricercavano per la

fondazione di una colonia: un’isoletta non lontano dalla costa; un promontorio o un istmo (naturale o artificiale) con cui raggiungere l’isoletta vicina; un doppio ambiente marino su cui la città si affacciava, con caratteristiche completamente diverse104. Sulky era dotata di due porti, di cui quello

99 Bassoli, Nieddu, Santamaria, Sirigu 2013, p. 289. 100 Bassoli, Nieddu, Santamaria, Sirigu 2013, p. 290, 297.

101 Barreca 1986, pp. 21-25 e 316; Bernardini 1997, p. 59; Moscati 2000, p. 240: la datazione si basa sulle

testimonianze ceramiche pervenute prevalentemente nell’area del tofet ma anche nelle parti indagate del Cronicario, corrispondente ad una piccola porzione dell’antico abitato; Bondì, Botto, Garbati, Oggiano 2009, p. 215.

102 Bartoloni 2008, p. 1595; Unali 2009-2010, p. 79.

103 Barreca 1986, pp. 21-25 e 316; Acquaro 1988, pp. 61-65; Acquaro, Aubet, Fantar 1993, pp. 111-113, Moscati

2000, pp. 240-263.

104 Barreca 1986; Acquaro 1988; Acquaro, Aubet, fantar1993; Moscati 2000, passim.

Figura 8. Foto aerea del settore sud-occidentale della Sardegna.

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29 settentrionale, che si apriva nello Stagno di Sant’Antico, godeva di acque poco profonde, mentre quello meridionale, da considerare quasi come un fiordo naturale, era protetto dalla sottile lingua di terra che termina con la Punta dell’Aliga. L’abitato antico si sviluppava lungo la fascia di costa compresa tra i porti e le alture interne dell’isoletta105.

La questione sulle fortificazioni puniche di Sulky è alquanto controversa poiché scarse sono le informazioni che si possono trarre dalle numericamente esigue pubblicazioni fatte fino ad oggi sull’argomento. Bartoloni nel 1971 pubblicò un lavoro specifico sulle strutture da lui considerate erette dai Cartaginesi allo scopo di difendere la città di Sulky. Egli individuò resti delle fortificazioni puniche nel versante settentrionale dell’odierno abitato e precisamente sull’altura del fortino (fig. 9 e 10), denominata così per la presenza di un forte sabaudo: lo studioso notò l’affioramento di un buon tratto delle mura, un nodulo di roccia dai lati sbozzati e un basamento di torre su cui si impostò nel XV secolo il forte sabaudo, parzialmente inglobato da alcune abitazioni contemporanee 106 . Per quanto

concerne le mura (app. I, A.1.1.), queste, conservatesi per 100 metri circa non consecutivi, seguivano il crinale della collina in direzione N-N-E, per poi svoltare in prossimità del suddetto nucleo roccioso (anch’esso oggetto di studio) ad angolo retto verso est e proseguire in discesa lungo il pendio dell’altura in direzione del mare (app. I, A.2.2). La supposta cinta era ad emplekton (app. II, L.), ovvero costituita da un doppio paramento murario, di cui la cortina interna venne eretta mediante rozzi cubi di pietra di circa 0.60 cm per lato, mentre la cortina esterna fu costruita utilizzando blocchi trachitici di notevoli dimensioni e di forma vagamente parallelepipeda (app. II, I.2.); infine, tra i due paramenti, eretti a secco, vi era un riempimento di detriti terrosi e scarti di cava. Bartoloni riporta un particolare che, a suo dire, caratterizza le costruzioni puniche dotate della medesima funzione: il paramento esterno della cinta risulta costruito al di sopra di una piattaforma trachitica, la quale strapiomba di circa 1 metro di altezza sul circostante livello di

105 Moscati 2000, p. 242. 106 Bartoloni 1971, pp. 147-154.

Figura 10. Pianta delle fortificazioni sull'altura del fortino (da Bartoloni 1971, p. 148).

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30 campagna; lo zoccolo di roccia viva su cui si impostavano le mura sembrerebbe costituire dunque una sorta di ramparo naturale, un sistema di difesa aggiuntivo107. Un altro dettaglio venne riportato dal

Bartoloni, ovvero l’individuazione di una stradina larga 1.50 m circa e costituita da un battuto di terra mista e raro cocciame; questa, che correva lungo il versante interno delle mura e che sembrò essere foderata sul lato opposto da un muro di controscarpa, venne interpretata come strada utile alle milizie per consentire il loro rapido spostamento108.

Sul versante settentrionale dell’altura del fortino affiora un agglomerato di roccia trachitica alto circa 7 metri, il quale mostra lungo il suo perimetro segni di taglio e di modellamento riconosciuti da Bartoloni come utili per l’alloggiamento di blocchi squadrati, per alcuni dei quali ne è ancora visibile la sagoma. Nel 1971 questo affioramento roccioso venne interpretato come nucleo del basamento di una torre (app. I, B.) punica che su esso si impostava; a conferma di questa ipotesi lo studioso notò che tra il roccione e il tratto di mura che si dirigevano verso di esso sussisteva un’apertura, ritenuta una postierla imbutiforme109.

A 70 metri circa a S dello spuntone trachitico vi è il forte Su Pisu, costruito nel XV secolo su una struttura antica, la quale a sua volta si impostò al di sopra di un nuraghe che venne completamente raso al suolo. La struttura in questione, definibile come mediana in termini cronologici e edilizi, era costituita da 2 corpi di fabbrica a pianta rettangolare ben distinti ma comunque uniti tramite un breve tratto murario in comune. Di quelle superstiti, l’assisa superiore è costituita da blocchi trachitici di considerevoli dimensioni. Uno di questi, posto nell’angolo Sud-occidentale ed orientato verso S-S-E diede l’impressione a Bartoloni di sporgersi verso la cinta muraria per permettere il collegamento con essa110.

Bartoloni nel 1971 suggerì per tutte queste strutture una funzione difensiva e una datazione non posteriore al IV secolo a.C.111. Ancora in anni recenti Piero Bartoloni112 conferma le proprie ipotesi,

sostenendo che nella prima età punica Sulky, come altri importanti centri della Sardegna, venne dotata di imponenti fortificazioni; questo incentivo urbanistico ed edilizio rientrava in un programma di più ampio respiro che la città africana mise in opera tra il 380 e il 370 a.C. allo scopo di dare alle popolazioni locali e all’altra grande potenza del Mediterraneo occidentale, ovvero Roma, un segno tangibile della sua supremazia sull’isola113. Del sistema fortificato punico sarebbero ravvisabili, oltre ai resti sull’altura

della fortezza di cui si è già parlato114, alcuni elementi presenti lungo il pendio est del colle del fortino

107 Bartoloni 1971, pp. 147-149 108 Bartoloni 1971, p. 147. 109 Artoloni 1971, pp. 149-150. 110 Bartoloni 1971, pp. 150-152. 111 Bartoloni 1971, p. 154.

112 Bartoloni 2008, pp. 1595-1605; Bartoloni 2008b, pp. 15-32; Bartoloni 2010, pp. 7-18.

113 Bartoloni 2008b, p. 22; Bondì, Botto, Garbati, Oggiano 2009, p. 217; Unali 2009-2010, p. 50: così come in

Sardegna, anche in Nord-Africa ed in Sicilia vi sono testimonianze concrete della volontà Cartaginese di difendere i centri più importanti dei territori posti sotto il suo controllo (a tal proposito, S. F. Bondì 1988).

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31 sabaudo, ove un grande fossato (app. I, E.), largo fino a 6 metri e profondo 5 metri, era stato scavato a protezione del suddetto tratto di cinta115.

Altri resti delle mura che cingevano l’abitato vennero individuati negli anni ’60 durante i lavori per la costruzione della scuola media “A. Mannai” (fig. 9): qui vennero riportati alla luce tre filari integri, che raggiungevano complessivamente un’altezza di 3 metri circa, costituiti da blocchi di granito perfettamente squadrati (app. II, I.3.). Secondo il pensiero di Bartoloni, questo settore delle fortificazioni puniche venne risparmiato perché a ridosso di esso si stanziò il primo nucleo del futuro insediamento romano, composto da mercatores italici116. Per quanto concerne gli altri settori delle

strutture difensive di Sulky, allo stato attuale delle ricerche pare che niente sia rimasto, poiché furono completamente smantellate subito dopo il 238 a.C. dai Romani117.

Un recente studio di Anna Maria Colavitti e Carlo Tronchetti, esito di campagne di scavo svoltesi presso l’area acropolare118, ha parzialmente smontato la teoria proposta da Bartoloni. Le analisi del

riempimento delle fosse di fondazione e dell’intercapedine tra i due paramenti della supposta cinta muraria hanno evidenziato in alcuni casi materiali databili ad un epoca non anteriore al II secolo a.C.. Oltre all’orizzonte cronologico, viene messa in discussione anche l’utilità dei suddetti tratti murari indagati, per i quali è stata proposta una funzione di terrazzamento, atta a regolarizzare la conformazione naturale del pendio: questa monumentalizzazione “in chiave scenografica” dell’area dovrebbe mettersi in relazione con la realizzazione di un grande edificio, probabilmente a carattere sacro eretto nell’area tra il II secolo a.C. e la prima età imperiale119. A tale contributo si aggiungerebbe

quello di Giovanni Azzena, il quale nel 2002 ha proposto di rivalutare le datazioni delle strutture definite fortificate della Sardegna fino ad allora attribuite ai Cartaginesi sulla base dell’analogia “blocco squadrato bugnato = fortificazione punica”120.

1.2.1.5.

Tharros

La città di Tharros, il cui nome è testimoniato da un cippo miliare romano, pare possa essere identificata con l’antica Qarthadasht, parola presente nella maggior parte delle iscrizioni puniche che provengono dall’area dell’Oristanese121. L’insediamento (fig.11), distante circa 20 km dall’odierna

Oristano, fu fondato dai fenici presumibilmente attorno al VIII secolo a.C. sul Capo San Marco,

115 Moscati 2000, p. 243; Bondì, Botto, Garbati, Oggiano 2009, p. 217.

116 Acquaro 1988, p. 62; Acquaro, Aubet, Fatar 1993, p. 112; Moscati 2000. p. 242; Bartoloni 2008b, pp. 23-27. 117 Bartoloni 2008, p. 1597; Bartoloni 2008b, p. 24; Bartoloni 2010, p. 9: il materiale di risulta proveniente dallo

smantellamento delle fortificazioni puniche, ovvero blocchi trachitici rossi squadrati e con faccia a vista decorata con bugnato rustico con listello risparmiato, venne reimpiegato nei basamenti degli edifici di epoca romana.

118 Colavitti, Tronchetti 2000, pp. 1321-1329: i settori indagati sono quello settentrionale dell’altura del forte,

delimitato a Nord dal banco roccioso di vulcanite metamorfizzata, e il pendio Sud-occidentale della medesima altura, nei pressi del vecchio edificio museale.

119 Colavitti, Tronchetti 2000, pp. 1324, 1329. 120 Azzena 2002, pp. 1099-1110.

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32 all’estremità meridionale del promontorio del Sinis, che chiude l’ampio golfo di Oristano lungo il suo lato occidentale. L’abitato si sviluppò seguendo l’andamento dell’istmo che collega il Capo all’isola, secondo una direttrice Sud-Nord122.

Esso era protetto da un sistema difensivo rimaneggiato e ampliato nei secoli, ma la cui strutturazione del V secolo a.C. mette chiaramente in luce la grande abilità degli ingegneri punici che qui, così come in Africa, riuscirono a realizzare un’opera poderosa e praticamente inespugnabile: difatti non vi sono tracce archeologiche di distruzione, dunque è ipotizzabile che nessuno fosse riuscito ad oltrepassare in maniera bellicosa tale recinto o quanto meno ad indebolirlo; inoltre è plausibile che i Romani, durante la loro opera di conquista dell’isola, fossero entrati nella città prendendone il possesso senza incontrare resistenza e quindi senza dover sfondare le strutture difensive di cui disponeva123.

Le difese della città, allo stato attuale delle conoscenze, erano prevalentemente concentrate presso la collina di “su muru mannu” (= “il grande muro”, toponimo sardo abbasta eloquente) nella parte più settentrionale dell’insediamento, chiaramente la più vulnerabile poiché rivolta verso l’entroterra124.

Qui si presuppone che esistessero tre linee difensive, di cui le prime due, quelle che si incontrano per prime lungo la risalita del colle, non sono chiaramente visibili ma la loro presenza è intuibile mediante individuazione nel terreno di allineamenti dunari e qualche blocco lapideo affiorante 125 . Tralasciando

quindi i settori che non sono stati metodicamente scavati, si analizza di seguito la terza linea fortificata (fig. 12), quella posta più a meridione e ad una quota altimetrica maggiore.

122 Barreca 1986, pp. 282-287; Acquaro 1988, p. 77; Acquaro, Aubet, Fantar 1993, p. 119; Moscati 2000, p.

291-292.

123 Barreca 1986, p. 79; Moscati 2000, p. 291-292. 124 Barreca 1986, p. 284; Stiglitz 2004, pp. 67-68. 125 Acquaro, Finzi 1986, p. 38;

Figura 12. Sezione schematica della terza linea fortificata in località Su muru mannu. Da sinistra a destra si notano la cortina urbana, il fossato e il terrapieno con i due muri di contenimento (da Acquaro, Finzi 1986, p. 26).

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