• Non ci sono risultati.

Si è da tempo superato, all’interno delle discipline antropologiche, il paradigma oggettivista delle scienze naturali, ad oggi dunque l’antropologia non è, o non dovrebbe essere, una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato (Geertz 1988: 11). L’antropologo ed il suo interlocutore si osservano a vicenda, sono due soggetti umani che si pongono in relazione fra loro, e gli umani non amano essere studiati, o osservati, come se fossero dei libri o dei fenomeni naturali (Portelli 2007: 79). L’antropologo, durante lo svolgimento della sua ricerca sul campo, vive ed osserva dei processi culturali dotati di senso, e cercando di comprenderli dovrebbe predisporsi a fornire una loro descrizione. Lo studioso infatti non intende riportare eventi esigui e puramente comportamentali, se guidato dalla teoria interpretativa si pone l’obiettivo di rappresentare il senso di ciò che gli individui fanno; ed il senso non si trova tanto negli atti in se stessi, quanto nel loro uso all’interno di un contesto significativo (Clemente 2013: 134).

A mio parere, l’utilizzo delle storie di vita in antropologia, può contribuire alla ricostruzione di una storia non astratta dalla realtà vissuta dalle persone, analizzare gli aspetti della vita quotidiana può aiutare a comprendere il senso delle attività umane, le quali spesso, in talune analisi, sembrano perderlo. Per ogni evento analizzato bisognerebbe chiedersi che significato ebbe quest’ultimo nella vita delle persone comuni (Samuel 1978: 105), ogni essere umano costituisce infatti la propria storia attribuendo un senso agli eventi che ha vissuto, ciò significa che non esiste una storia generale che include tutte le storie personali, ma che esistono differenti attribuzioni di senso agli eventi e che conseguentemente ciò produce dei racconti di vita differenti gli uni dagli altri (Fabietti, Matera 1999: 94). Gli interlocutori degli antropologi sono dei soggetti autori di racconti, di interpretazioni del mondo, in grado di conferire significati alla propria esperienza del vissuto (Rampazi 1991: 129), e basare un’analisi su di essi ritengo possa essere considerato un modo per arricchire la conoscenza antropologica. La conoscenza culturale e sociale, in particolare nel 1800, sino a fine 1900, ha spesso puntato ad individuare regole e leggi della vita collettiva, presentandosi come una scienza “dura”, oggettiva e con valenza generalizzante; la presa in considerazione delle storie di vita, delle biografie, per arrivare ad una conoscenza, si colloca sul versante della comprensione, proprio delle discipline storico- letterarie, delle scienze interpretative (Clemente 2013: 176), è una scelta relativamente nuova e può apportare, a mio parere, diversi contributi alla materia antropologica.

Ho deciso di svolgere la mia ricerca sul campo focalizzandomi su una storia di vita, basandomi sulla memoria della mia interlocutrice nel tentativo di avvicinarmi alla comprensione di un mondo, della storia di un mondo. Ogni individuo è dotato di memoria, la memoria è un utile strumento nei campi d’indagine della conoscenza, non solo, è un’attività primaria per la produzione di significati; il ricordare può delinearsi come uno sforzo di rielaborazione e trasmissione di significati del passato per il presente (Passerini 1988: 106). Ho voluto dedicarmi all’analisi di una biografia per cercare di arrivare a comprendere il senso che hanno avuto determinate vicende storiche e sociali sulla vita di una persona, volevo tentare di andare oltre la storia generale per arrivare ad una comprensione più soddisfacente dei fatti, con le parole di Paolo Jedlowski:

Ciò che gli storici del quotidiano cercano di fare è andare al di là dell’impersonalità delle strutture e dei processi sociali per cogliere la vita di esseri umani concreti e il modo in cui questi la comprendono. Chi si occupa del quotidiano non è interessato agli aneddoti, ma a come i grandi processi attraversano le vite dei singoli. […] è un tentativo di collegare ciò che è macroscopico al mondo microscopico (Jedlowski 2009: 49).

Una delle più importanti finalità delle storie di vita è forse quella di conferire un senso al vissuto, la memoria delle persone infatti non viene più intesa dagli studiosi, e antropologi,

una mediazione simbolica riguardante non tanto gli eventi in sé, quanto i loro significati (Casagrande 2015: 17). Per comprendere al meglio un evento, a mio parere, bisogna andare oltre le generalizzazioni, e l’antropologia, a differenza di alcuni modi di fare storia, ha la fortuna di poter contare sulle fonti orali, di poter interrogare le proprie fonti, le quali hanno la capacità di informare il proprio interlocutore, oltreché sui fatti, sul loro significato (Portelli 2007: 11). Probabilmente lo studio della storia individuale mette in risalto in modo più completo il manifestarsi delle istituzioni sociali non come entità, ma come luoghi di pratiche e di produzione di senso (Clemente 1991: 126). La ricerca sul campo, l’interazione con gli interlocutori, nel mio caso i lunghi colloqui con Luisa, forniscono degli elementi indispensabili per rendere comprensibili una serie di eventi, quantomeno per capire il senso che questi hanno avuto nella vita di una persona. L’immersione rende comprensibile un fatto, tenta di delineare un sistema di significati nel quale è stato possibile compiere un determinato atto, utilizzando una simile prospettiva antropologica comprendere significa strettamente comprendere, non vuol dire giustificare, legittimare o tollerare (Ligi 2011: 157). Gli studi umani dovrebbero quindi avere il compito di vedere il particolare collegato al suo contesto (Ligi 2011: 159), a mio parere raccogliere un vissuto può essere una modalità per avvicinarsi alla vita interpretata dalle persone, ciò che rende comprensibile il loro mondo è proprio il sentirlo raccontare direttamente da esse. Per queste motivazioni il

mio interesse, la mia voglia, il mio impegno, nel lavorare con una storia di vita, con le parole di Pietro Clemente:

Io amo l’antropologia che nasce dalle etnografie ‘singolari’, dalle storie di vita che l’antropologo ricolloca in contesti culturali specifici, ma con la consapevolezza che le singole storie rifanno continuamente i ‘contesti’ […] transitando piccoli mondi e diverse storie ho capito che l’antropologia culturale, almeno quella che piace a me, non studia le leggi generali delle culture ma il modo in cui, dentro le singole vite, una cultura viene appresa, giocata, interpretata, trasformata (Clemente 2013: 100).

Ritengo che l’analisi delle storie di vita permetta ad uno studioso di avvicinarsi alla comprensione di un mondo, soggettivo ma pur sempre immerso in uno collettivo, queste storie potrebbero essere viste come delle sfaccettature possibili di un universo comune, di una storia generale. Nonostante il fatto che una biografia non possa essere utilizzata come modello al fine di una generalizzazione ciò non significa che essa non possa essere veritiera, importante o rilevante, che non possa apportare anche un minimo contributo alla conoscenza antropologica. Ammettendo la loro singolarità, il loro carattere individuale, le biografie mettono anche in luce però alcuni aspetti generali, riguardanti la cultura e la società dell’interlocutore. Penso sia incontestabile il fatto che le persone ricordino aspetti

società impregnata di cultura, la quale plasma e compenetra i singoli. La gente ricorda ciò che gli è accaduto di più singolare tanto quanto ricorda gli aspetti più generali di una storia comune, condivisa dalla comunità. Volendo astrarre si potrebbero forse individuare due tipi di memoria nelle società, una memoria autobiografica, riguardante i singoli individui, ed una memoria storica collettiva, la quale abbraccerebbe tutte le persone che condivido il medesimo luogo di appartenenza, che vivrebbero, anche se in maniera differente, gli stessi accadimenti. La memoria autobiografica dovrebbe spesso giovarsi della memoria sociale, in quanto, in fin dei conti, una storia di vita fa comunque sempre parte di una storia generale; la storia generale però rappresenterebbe il passato in forma sintetica e schematica, quella individuale presenterebbe invece un quadro denso e dettato dalla continuità (Halbwachs 1987: 65). Se così fosse, ed io credo che lo sia, scrivere di una storia di vita diverrebbe strumento ed espressione di un processo vitale individuale, ma anche testimonianza della storia culturale di una società (Franceschi 2006: 37), in quanto l’individuo non può non essere segnato dalla sua cultura, dalla storia della sua comunità. Ciò non significa che l’individuale divenga baluardo del generale, ma semplicemente che è inevitabile che l’individuale consenta anche di guardare ad aspetti del generale.

[…] memoria sociale è l’insieme di ciò che si offre virtualmente a tutti i membri di una società come contenuto possibile della loro memoria. Essa è, insomma, l’insieme delle tracce del passato che permangono e si offrono all’interpretazione (Jedlowski 1989: 76).

È indubbio quindi che la memoria individuale rispecchi le appartenenze sociali dell’individuo (Cavalli 1991: 33), il quale di volta in volta deve ritirarsi dal collettivo per ritrovare la propria memoria, ed al tempo stesso vi può fare ritorno in quanto la storia generale, sociale, può restituirgli la propria identità (Sebastiani 1991: 47).

L’operazione di raccontarsi ricostruisce le tappe di un percorso alla continua ricerca di un equilibrio fra due polarità: quella che tende a mettere in evidenza un Io con una fisionomia ed una storia unica ed irripetibile, e quello che sottolinea l’appartenenza di questo Io ad un

noi, ad una entità collettiva con cui ci si identifica, ed entro la quale le differenze tendono ad

essere minimizzate (Rampazi 1991: 139).

Nel corso della mia ricerca a Cuba ho provato a scorgere questo intreccio, l’intreccio che si crea tra macro-storia e micro-storia, documentandomi sui libri per conoscere gli eventi e parlando con Luisa per capire cosa essi hanno significato per lei, che risonanza hanno avuto, se ne hanno avuta, sulla sua vita. La ricchezza della fonte orale sta nel fatto che può informare l’antropologo sia sui fatti storici che sugli aspetti della vita quotidiana e del privato, dai suoi racconti si evince la partecipazione del narratore alla storia e l’effetto che essa ha avuto su di esso (Portelli 2007: 9), i racconti degli eventi fanno apparire come memoria individuale e collettiva spesso s’intreccino. Le ricerche sulla vita quotidiana

rendendo un po' meno estranei gli accadimenti, facendo interagire storie piccole con la storia (Jedlowski 2009: 50), ed è proprio quello che io ho provato a fare, dando un nome ed un cognome, Luisa Rodriguez Morales, al mio lavoro. Penso che l’antropologia abbia bisogno di biografie in quanto esse permettono allo studioso di entrare in un mondo tramite il suo interlocutore, il quale avvia alla comprensione profonda delle cose. Le storie di vita arricchiscono i punti di vista su una società e sulla sua storia, aiutano l’antropologo a comprendere le cose, puntando ad una conoscenza più qualitativa che quantitativa, analizzando a fondo un vissuto piuttosto che toccarne molti restando in superficie. Con ciò io non ritengo che lavorare con le storie di vita sia l’unico modo, o il modo migliore, per fare antropologia, penso solamente che sia uno tra i vari modi; uno dei modi però da prendere in considerazione e da non sminuire per il semplice fatto che tratta l’individualità; ci si potrà anzi stupire, o almeno spero, di quanto un lavoro del genere possa essere utile e valido al fine di produrre un testo etnografico. Se l’antropologia, a seguito della svolta data dalla teoria interpretativa, si è posta come obiettivo quello di comprendere e di scovare significati, le biografie aiutano sicuramente in questo, facendo ricostruire all’etnografo dei modi possibili della relazione persona-mondo:

Si tratta di un genere di testi [le biografie] che rappresentano qualcosa che, prima di essere letterario è antropologico nel senso che aiuta a comprendere l’Altro, i mondi della vita diversi dal nostro (Clemente 2013: 154).

Nello specifico la mia ricerca sul campo è durata circa quattro mesi, sono arrivata a Cuba domenica 10 luglio 2016 e sono tornata in Italia domenica 13 novembre 2016. Giovedì 14 luglio, intorno alle ore 15.00, mi sono trasferita a casa di Belkis e Luisa. Sono stata accolta nella famiglia come fossi stata un membro di essa, ho partecipato attivamente a tutte le attività familiari, da quelle più occasionali, come il festeggiamento di un compleanno, a quelle della quotidianità, aiutando a far da mangiare, a stendere i panni, a fare la spesa, e via dicendo. Mi sono sempre trovata splendidamente a mio agio con tutta la famiglia a partire dai primi giorni, un’intesa particolare però è subito scattata con Luisa, la nonna di casa, con la quale passavo molto più tempo che con tutte le altre donne di casa. Belkis lavorava dalla mattina al tardo pomeriggio, sino alle 17.30 circa, Jenny studiava e lavorava, stava completando un master ed il fine settimana faceva la guida in un piccolo castello vicino casa, Laura aveva da poco terminato le scuole superiori, era in vacanza e andava spesso a casa di suo padre. Io passavo le mie giornate tra l’Oficina de Historia, ente al quale ero collegata per il visto cubano, e la casa, in compagnia di Luisa, la quale non perdeva occasione per chiacchierare con me. Inizialmente parlavamo del più e del meno, mi faceva tante domande sull’Italia, sulla mia famiglia, sul motivo per il quale io ero li, poi giorno dopo giorno iniziò ad aprirsi ed a raccontarsi sempre di più, mi parlava sempre più spesso di lei, della sua vita, del suo passato, delle sue preoccupazioni, di qualsiasi cosa. Qualsiasi momento era buono per raccontarmi qualche aneddoto del suo passato, erano

storie che nessuno in famiglia aveva il tempo di stare a sentire, sua figlia era troppo impegnata, le sue nipoti avevano altro da fare, e probabilmente nemmeno si interessavano troppo a ciò che la nonna aveva da dire. Luisa aveva tante cose da raccontare, ed io avevo il tempo, la voglia e l’interesse di starla a sentire, decisi così di proporle la mia idea, le chiesi se avessi potuto documentare la sua storia di vita per il mio progetto di tesi, ne fu entusiasta.

Ho svolto la mia ricerca stando strettamente a contatto con la mia interlocutrice, Luisa, ho condiviso con lei non solo i momenti delle interviste organizzate, svolte con l’uso del registratore, ma l’intera quotidianità. Si interagiva sempre, si viveva insieme, ci si aiutava a vicenda nelle faccende domestiche, moltissime tra le più importanti informazioni sono state ricavate a microfono spento, condividendo semplicemente la routine giornaliera. La metodologia della raccolta dati si è svolta giornalmente con la scrittura delle informazioni nel diario di campo, annotando accadimenti, discorsi, chiacchierate. Ho anche registrato delle interviste, che io preferirei chiamare colloqui, sia previamente accordati che sorti spontaneamente. Luisa mi ha anche fornito alcune foto di se stessa e della sua famiglia.

Oltreché documentare ogni cosa che mi veniva detta da Luisa, per svolgere questo lavoro improntato su storia di vita e storia generale, mi sono anche servita di fonti non

orali. Ho frequentato l’Oficina di Storia, ente storico dotato di archivi e biblioteche di Matanzas, per raccogliere materiali quali libri di storia, mappe della città, fotografie storiche, quotidiani, articoli, e via dicendo. Ho comprato inoltre in diverse librerie alcuni libri di storia, religione, poesia, letteratura, attualità. Tutte cose che mi sono servite per svolgere il mio progetto, per mettere in correlazione il mondo del macro (storia, società, cultura) con il mondo del micro (biografia di Luisa).

Nonostante la scelta di focalizzarmi sulla storia di vita di Luisa ho interagito anche con altre persone, per avere un campo più ampio di punti di vista, per capire meglio alcune tematiche. Ho svolto lunghi colloqui informativi con più interlocutori, concentrandomi per lo più però solo su persone che conoscevo e con le quali avevo contatti regolari. Ho infatti riportato in appendice non solo alcune interviste di Luisa (non molte, perché gli argomenti dei quali parlavamo erano pressapoco sempre i medesimi), ma anche due colloqui registrati avuti con Ercilio e Daylin, due persone con le quali ho avuto ripetuti contatti per tutta la durata della mia permanenza a Matanzas. Ho preferito relazionarmi con persone delle quali conoscevo abbastanza bene la storia, le idee, con le quali avevo uno stretto rapporto, piuttosto che raccogliere mille interviste di sconosciuti a casaccio per soli motivi di quantità.

Della famiglia ho documentato ovviamente i racconti di Luisa, non sempre registrati ma tutti annotati, in quanto spessissimo sorgevano spontanei durante attività condivise (che non mi pareva il caso di interrompere per introdurre il registratore), con sua figlia Belkis ho avuto molti scambi ma lei, sebbene mi abbia dato il suo consenso ad utilizzare il suo nome, e volendo le sue parole nella mia tesi, non ha mai voluto essere registrata. Stessa cosa le due ragazze, le nipoti di Luisa, Jenny e Laura, le quali hanno dato il loro consenso ad apparire nella tesi ma solo in minima parte, non volendo parteciparvi con interviste dirette o cose analoghe. Nella tesi quindi, oltre alle interviste presenti in appendice, e parti di esse presenti nel testo, vengono riportati frammenti di colloqui i quali sono stati (spesso interamente) annotati nei miei taccuini di campo.

Nel lavorare con Luisa ho sempre dato la priorità a ciò che lei voleva narrare, questo non significa che io non abbia mai fatto domande su aspetti che mi interessavano dei quali lei magari non parlava, ma che ho tentato di rispettare il più possibile il suo flusso narrativo, non focalizzandomi per forza su tematiche che lei non affrontava. Del resto quello che al ricercatore «interessa» sentire non sempre coincide necessariamente con ciò che il narratore ha voglia di raccontare (Portelli 2007: 76), quindi ho tentato il più possibile di non fissarmi su determinati aspetti, ma di aprirmi all’ascolto di ciò che Luisa voleva narrare. Inoltre vi erano alcuni temi da lei solamente accennati, come la morte del figlio o

la morte della sorella, dei quali era evidente però che non volesse parlare, non li voleva approfondire, ed io sinceramente non me la sono mai sentita di forzare la mano; erano tematiche delicate, impregnate di sofferenza, delle quali a mio parere bisognava avere rispetto, ed io quindi non vi ho voluto scavare a fondo.

Il frutto del mio lavoro è stato reso possibile solo ed esclusivamente grazie alla partecipazione attiva e costante di Luisa, anche se l’analisi è mia la storia è la sua, e non voglio che la cosa passi inosservata. Questo progetto di tesi è stato totalmente incentrato sulla comprensione, una comprensione ragionata, aperta, se si vuole anche emozionale ed empatica, è stato un lavoro che personalmente ho trovato meraviglioso, anche se a tratti non semplice, centrato sulla soggettività di una persona che mi esprimeva il suo mondo. Spero che all’interno della tesi non passi in secondo piano il fatto che tutto è stato reso possibile grazie ad una relazione reciproca tra due persone, le parole dell’antropologo Pietro Clemente non potrebbero qui risultare più adeguate:

Il testo che presentiamo, nato e prodotto attraverso un lungo dialogo, in una relazione personale ricca di scambi, è un esempio adeguato della cooperazione tra due protagonisti diversi, impegnati in diverse prestazioni intellettuali, finalizzate a un comune lavoro (Clemente 2013: 182).

Ritengo che questa ricerca sul campo abbia arricchito il mio bagaglio di esperienze personali, il che va anche oltre la scrittura della tesi, ma per quanto la riguarda, sul piano antropologico, spero che un’etnografia di questo tipo sia capace di riconoscere nella narrazione, nel caso specifico della mia interlocutrice, il prodursi di una conoscenza che va al di là delle vicende individuali e personali, e che possa essere ritenuta utile ai fini della conoscenza, dell’indagine sia storica che, soprattutto, antropologica.