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capacità di lettura decifrativa

Sulla base dei prerequisiti descritti, il bambino costruisce gradualmente le sue strategie di lettura giungendo a sviluppare le due vie su cui abbiamo visto fondar- si il processo di decodifica del normolettore adulto. I modelli evolutivi o stadiali consentono di prevedere il percorso di apprendimento del bambino secondo un ordine definito dall’esecuzione di specifiche prestazioni.

La lettura è un processo cognitivo ed una funzione psichica superiore e si apprende attraverso uno sviluppo che segue delle fasi evolutive. Questo processo di appren- dimento inizia già con il primo sviluppo del linguaggio, quando gradualmente il bambino passa dalle prime parole alla cosiddetta esplosione del vocabolario. Que- sto è possibile grazie a processi cognitivi (prerequisiti per lo sviluppo delle abilità di letto-scrittura) che gli consentono di sviluppare rappresentazioni fonologiche della propria lingua, delle quali il bambino non è consapevole ma che gli servi- ranno per imparare a leggere (Maschietto & Vio, 1998).

Uta Frith, psicologa inglese nel 1985 propose un modello stadiale di sviluppo delle abilità di lettura, in base al quale l’apprendimento avverrebbe secondo una sequenza di fasi, caratterizzate dall’acquisizione di nuove procedure e dal con- solidamento e automatizzazione delle competenze già precedentemente acquisite (Frith, 1985; Seymour, 1985; Orsolini et al., 2005).

Andiamo ora ad analizzare e a descrivere le varie fasi teorizzate da questo modello (Fig. 3.2):

Figura 3.2: Modello stadiale di sviluppo delle abilità di lettura (Frith, 1985)

1. FASE LOGOGRAFICA (dai 4 ai 6 anni): consiste nello sviluppo di un vocabolario visivo che riconosce un insieme limitato di parole. Il ricono- scimento delle parole avviene sulla base di indizi visivi salienti (lunghezza della parola, forma delle lettere iniziali, contesto percettivo) senza alcuna consapevolezza che nella stringa ci siano simboli del suono delle parole. Il riconoscimento della parola avviene sulla base di caratteristiche fisiche, grafiche e quindi si identifica una lettura di tipo visivo. In questa fase il bambino non è in grado di leggere le parole che non appartengono al suo vocabolario visivo (Frith, 1985).

2. FASE FONOLOGICA o ALFABETICA (dai primi mesi della scuola pri- maria fino agli 8 anni): la decodifica delle parole è basata sull’applicazione di regole di corrispondenza tra sequenze ortografiche e fonologiche, a livello sub-lessicale. Il bambino inizia a costruire lentamente il meccanismo di rico- dificazione fonologica, impara a segmentare correttamente la parola stimolo nelle lettere che la costituiscono e ad associare ad ogni lettera (grafema) il suono (fonema) che le corrisponde. Tutto questo avviene in diverse sottofasi sempre più avanzate (Frith, 1985):

(i) lettura per indici fonemici: viene utilizzato il suono associato solo ad alcune lettere della stringa per riuscire ad identificare la parola corrispondente (Frith, 1985).

(ii) lettura fonologica iniziale: la conversione ortografia-fonologica diviene sistematica e sequenziale, a livello di singola lettera o singolo grafema. La lettura della parola avviene perciò sulla base di una attribuzione di corrispondenza sequenziale tra grafema e fonema, con una procedura di decodifica analitico-sequenziale (Frith, 1985).

(iii) lettura fonologica avanzata: l’analisi delle parole diviene più rapida e corretta

3. FASE ORTOGRAFICA (dai 7 anni circa): la conversione lettera-suono non avviene più a livello di singoli grafemi ma a livello di unità ortografi- che più grandi del grafema, ma sempre sub-lessicali (gruppi consonantici, sillabe, morfemi). Il bambino impara ad eseguire segmentazioni corrette anche nella lettura di parole molto complesse, per cui acquisisce delle pro- cedure efficienti di segmentazione e di conversione grafema-fonema (Sartori, 1984), può utilizzare regole di conoscenza e di confronto basate sulle unità morfologiche che compongono le parole.

4. FASE LESSICALE (9-10 anni circa): la parola scritta viene riconosciuta in modo globale e la sua pronuncia recuperata direttamente, senza più bisogno di applicare regole di conversione ortografia-fonologia a livello sub-lessicale. Il bambino quindi si stacca dalla necessità di utilizzare i processi parziali e impara a lavorare su unità visive globali. Il riconoscimento delle parole scritte è molto più rapido, non più condizionato dalla lunghezza delle parole o dalla loro complessità ortografica e la lettura diviene fluida. In questa fase quindi il processo di lettura diviene automatico, il bambino ha sviluppato un suo magazzino lessicale (un magazzino di parole, regole) che gli permette di leggere le parole che incontra con più frequenza più velocemente e con un accesso diretto, mentre per quelle meno comuni impiega più tempo (Frith, 1985).

In realtà, il passaggio dalla fase fonologica a quella lessicale non è un fenomeno che, da un certo momento in poi, interessa la totalità delle parole scritte; piut- tosto, è specifico per le singole parole, in funzione del grado di familiarità che il lettore acquisisce con esse (Sartori, 1984). Gli studiosi sostengono infatti che il raggiungimento della fase lessicale avvenga gradualmente a partire dalla fase fonologica, attraverso meccanismi di feedback interni o esterni, grazie ai quali il bambino memorizza nel suo lessico ortografico la forma corretta delle parole che via via impara, consentendo così un’associazione diretta quando le incontra (Sartori, 1984).

Inoltre, nell’apprendimento della lettura, la maturazione tra i vari stadi iden- tificati da questo modello può essere condizionata anche dall’ordine con cui il materiale viene presentato al bambino: lettere, sillabe, parole, frasi e testo.

Si può mettere in correlazione questa teoria con il modello di lettura a due vie: in sostanza, la completa acquisizione delle prime fasi rende completa la moda- lità di lettura tramite la via fonologica. Mentre, il raggiungimento dell’ultima fase permette al bambino di utilizzare correttamente la via lessicale e di legge- re le parole conosciute senza bisogno di operare la conversione grafema-fonema (Cornoldi, 2007).

3.5

Modelli interpretativi della DE

Vediamo come tutti i concetti e i modelli visti finora possono andare a spie- gare la sintomatologia dei bambini con Dislessia Evolutiva.

Alla base della DE ci sarebbe un disturbo neuropsicologico multi-fattoriale, sotte- so da una varietà di possibili specifici deficit neuro-cognitivi, presenti isolatamente oppure in associazione a seconda dei casi (Cornoldi, 2007).

Ci possono essere diversi fattori neuropsicologici sottostanti la Dislessia Evolutiva: – Deficit di tipo fonologico e di elaborazione fonologica, che determinereb- bero difficoltà soprattutto nella rappresentazione, nel recupero e/o nell’u- tilizzo della componente sonora (fonologica appunto) del linguaggio (pho- nological processing). Questa ipotesi trova un ampio supporto dalla lettu- ra sulla continuità e comorbidità fra i disturbi del linguaggio e i disturbi dell’apprendimento (Casalini et al., in press).

– Deficit specifico a carico della via dorsale magnocellulare, uno dei due gran- di circuiti anatomo-funzionali del sistema visivo, responsabile del riconosci- mento delle informazioni visive legate alla posizione e al movimento delle forme alla periferia del campo visivo.

– Deficit di apprendimento implicito, di memoria procedurale e di automa- tizzazione, che rendono possibile un graduale miglioramento delle presta- zioni (in compiti motori, percettivi e cognitivi) con la pratica, in maniera inconsapevole (Cornoldi, 2007).

Nei bambini dislessici il processo si altera a qualche livello: l’espressività del di- sturbo può variare, interessando in diversa misura i differenti aspetti implicati nel processo di lettura, da quelli di transcodifica fonologica a quelli legati alla rappresentazione ortografica-lessicale. Questo concetto è rappresentato grafica- mente nel classico modello ‘a due vie’ derivato dalla neuropsicologia cognitiva dell’adulto (Cornoldi, 2007).

Seymour nel 1985 utilizza un modello stadiale molto simile a quello teorizzato dalla psicologa Uta Firth per riclassificare le Dislessie Evolutive sulla base del mancato raggiungimento dei vari stadi di apprendimento della lettura (Seymour, 1985). Secondo questo autore si possono osservare tre tipologie di Dislessia Evo- lutiva: DE fonologica, DE morfologica-lessicale e DE mista.

Nella DE Fonologica il bambino ha maggior difficoltà nel leggere le non-parole (stringhe di lettere senza senso) rispetto alle parole frequenti e a quelle che co- stituiscono eccezioni di pronuncia o di accentazione. Questi sintomi sarebbero la conseguenza di un arresto dello sviluppo nel processo di apprendimento della lettura e precisamente a livello del passaggio dallo stadio alfabetico a quello orto- grafico. In altre parole, lo sviluppo della lettura nel bambino con DE fonologica rimarrebbe fermo a livello della conversione grafema-fonema delle singole lettere, non riuscendo a raggiungere la fase in cui tali regole vengono applicate a gruppi di lettere corrispondenti a sillabe, affissi e morfemi (Seymour, 1985).

Nella DE morfologica-lessicale i sintomi caratteristici sono la sostanziale ineffi- cienza della lettura di parole contenenti eccezioni di pronuncia o accentate in modo irregolare, mentre vengono lette bene le non-parole. Secondo il modello di apprendimento della lettura di Frith, un deficit di questo tipo dovrebbe essere il risultato di un blocco dello sviluppo a livello dello stadio ortografico, per cui il bambino non ha problemi a compiere le conversioni grafema-fonema, ma non ha costruito il vocabolario lessicale necessario ad automatizzare la lettura (Seymour, 1985).

La DE mista è quella che si può osservare più frequentemente. In essa sono pre- senti sintomi tipici di entrambe le categorie precedenti. Secondo il modello di apprendimento precedentemente presentato, questa DE sarebbe il frutto di un arresto alle prime fasi dello stadio alfabetico dello sviluppo (Seymour, 1985).

Infine, nonostante le numerosissime ricerche non c’è al momento attuale un so- stanziale accordo sul ‘core deficit’ della dislessia e sulla causa o sulle cause che la determinano. Al momento attuale è difficile correlare i deficit selettivi riportati in letteratura al quadro complesso del disturbo funzionale presente nella dislessia ed individuare un unico difetto (‘core deficit’) che spieghi l’ampia espressività dei sintomi (Cornoldi, 2007).

CAPITOLO

4

La Teleriabilitazione nei DSA

Nel corso degli anni l’avvento del digitale in campo sanitario ha spinto alcuni organi istituzionali a ricercare una definizione adeguata alla cosiddetta “e-Health” (American Telemedicine Association, 2016). La telemedicina, ovvero la “cura del paziente a distanza”, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) im- plica la somministrazione di servizi assistenziali mediante l’uso di tecnologie legate all’informatica e alle telecomunicazioni, al fine di generare un effetto benefico sulla salute dei cittadini (Strehle & Shabde, 2006). Le tecnologie impiegate quotidia- namente da un numero ingente di persone a livello mondiale (come computer, tablet o smartphones) stanno diventando una componente importante nel campo della salute digitale (Matamala-Gomez et al., 2020).

Nell’era della salute digitale, la telemedicina offre nuove possibilità per suppor- tare e promuovere le cure mediche e l’assistenza sanitaria a distanza applicabili in molte branche delle scienze mediche, consentendo di erogare prestazioni senza che i pazienti debbano recarsi nel luogo di cura e spesso riducendo così i costi assistenziali (Leite et al., 2020).

È possibile identificare uno dei maggiori campi di applicazione della telemedicina nella pratica della teleriabilitazione, che secondo l’ATA (Associazione Americana di Telemedicina) è una forma di riabilitazione specializzata che usa strumenti basati su computer e telecomunicazioni per facilitare l’accesso ai servizi sanitari (ATA, 2017).

Al giorno d’oggi la teleriabilitazione viene considerata come una disciplina emer- sa dall’ambito più generale della tele-assistenza, ed il suo elemento principale di distinzione risiede nella necessità di creare rapporti e relazioni terapeutiche du- rature ed intense con il paziente e i familiari, nel loro contesto di vita quotidiano (Pramuka & Van Roosmalen, 2009).

4.1

Le origini della telemedicina

La nascita della telemedicina vede la luce alla fine degli anni Cinquanta negli Stati Uniti ed i primi esperimenti in campo sanitario che impiegano le telecomu- nicazioni risalgono agli anni Sessanta; con questi studi per la prima volta si tenta di monitorare a distanza segnali vitali umani ed animali (Papi et al., 2000). Agli inizi degli anni Settanta sempre nel territorio americano si vede l’intervento pub- blico del National Center for Health Service Research, che promuove e finanzia ricerche volte ad assicurare una migliore assistenza sanitaria a comunità site in aree rurali (Papi et al., 2000). In una terza fase dello sviluppo della telemedicina (fase che inizia nel 1974), la telemedicina viene intesa come integrazione di sistemi e reti di telecomunicazioni, applicata nel campo dei servizi sanitari con lo scopo di migliorarne la qualità, l’accessibilità e l’efficienza dell’assistenza, contenendone allo stesso tempo i costi economici (Papi et al., 2000).

Nel 1993, negli Stati Uniti, viene fondata l’American Telemedicine Association (ATA), un’associazione senza scopo di lucro che ha il fine di promuovere e svilup- pare programmi di ricerca e sperimentazione di apparati e servizi di telemedicina (Papi et al., 2000).

Nel 2016 il Dipartimento della Sanità negli Stati Uniti riportava che più del 60% delle istituzioni sanitarie e circa il 40-50% degli ospedali usava varie forme di telemedicina per gestire l’assistenza ai pazienti (Tuckson, Edmunds & Hodgkins, 2017).

Per quanto riguarda la situazione europea, nel 2008 è stata discussa una co- municazione emanata dal parlamento Europeo COM(2008)689 che sviluppa la tematica della telemedicina a beneficio dei pazienti, dei sistemi sanitari e della società. Questa comunicazione è finalizzata a sostenere gli Stati membri nella rea- lizzazione di servizi di telemedicina su larga scala, attraverso specifiche iniziative come: creare fiducia nei servizi di telemedicina e favorirne l’accettazione, appor- tare chiarezza giuridica, risolvere i problemi tecnici ed agevolarne lo sviluppo nel mercato europeo e mondiale (Comunicazione della Commissione al parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale Europeo e al Comitato delle Regioni sulla Telemedicina a beneficio dei pazienti, dei sistemi sanitari e della società, 2008).

In molti stati Europei, la telemedicina è ampiamente diffusa e in alcuni casi so- stenuta da interventi normativi e da progetti a livello nazionale. In paesi come la Svezia, la Norvegia e la Spagna negli ultimi 15 anni si è focalizzata l’attenzione sull’e-Health con alcune linee di azione condivise tra cui lo sviluppo di sistemi e

servizi di telemedicina (Ministero della Salute, 2011). In particolare, in Svezia la telemedicina è molto diffusa: nel 2008 era in uso in oltre 100 tipologie di appli- cazioni e in oltre il 75% degli ospedali (Ministero della Salute, 2011).

Per quanto riguarda lo scenario italiano, le esperienze di telemedicina a livello nazionale, regionale e locale sono molteplici e molti dei progetti iniziati già negli anni Novanta sono tutt’oggi in atto con ovvi rinnovamenti tecnologici. Nel 2010 è stato istituito in seno al Consiglio Superiore di Sanità (CSS), un Tavolo di Lavoro per la Telemedicina, cui partecipano, componenti ed esperti del CSS, Direttori Generali e Funzionari del Ministero. Il Tavolo di Lavoro si è posto come obiettivo quello di creare i presupposti abilitanti alla diffusione di servizi di telemedicina concretamente integrati nella pratica clinica, con cui fornire risposte efficaci ai modificati bisogni di salute dei cittadini (Ministero della Salute, 2011).