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I primi studi organici sul ruolo dei comportamenti stereotipizzati nelle disabilità co- gnitive possono essere ascritti al pionieristico contributo di Berkson e Davenport (1962), nel quale veniva ipotizzata la loro natura autostimolatoria. Nello studio erano considerati i comportamenti ripetitivi di 71 soggetti con gravi disabilità cognitive e Disturbi dello spet- tro Autistico. Il 70% dei soggetti considerati presentava movimenti stereotipizzati e ripetiti- vi che risultavano significativamente correlati alla autostimolazione ed al punteggio di QI. I comportamenti di ordine ripetitivo e/o autolesionistico erano più frequenti nei soggetti con gravi disabilità intellettive (Berkson e Davenport, 1962). Gli autori ipotizzarono una differenziazione tra i comportamenti autolesionistici e quelli ripetitivi, sottolineando come questi ultimi rappresentassero un ostacolo all’adattamento del soggetto, anche in assenza dei danni prodotti dall’autolesionismo. In relazione allo studio considerato, fu ipotizzato che le funzioni dei comportamenti disadattivi fossero riconducibili alla gratificazione sen- soriale.

Sino ai tardi anni Sessanta i comportamenti stereotipizzati nelle disabilità intellettive venivano considerati come comportamenti disturbanti e gli obiettivi della ricerca coinci- devano con la diminuzione delle stereotipie comportamentali (Chebli, Martin e Lanovaz, 2016). Solo a partire dagli anni Settanta è registrabile un’inversione di tendenza in relazio- ne al tentativo di comprendere le funzioni di tali comportamenti disadattivi.

Lo studio di Stevenson e Richman (1978), in questa prospettiva, risulta prototipico per lo sviluppo dell’ipotesi comunicativa del comportamento disadattivo. Partendo dall’os- servazione di una maggiore incidenza dei comportamenti disadattivi nei bambini che mostravano elevate compromissioni delle competenze comunicative, gli autori avanzaro- no l’ipotesi in base alla quale il comportamento stereotipizzato avrebbe avuto funzioni comunicative.

La forte correlazione tra i comportamenti disadattivi ed il ritardo nello sviluppo del lin- guaggio espressivo indusse il gruppo di ricerca coordinato da Carr (Carr e Durand, 1985) a valutare le opportunità di un training di comunicazione funzionale per la diminuzione dei comportamenti disadattivi nelle gravi disabilità intellettive.

Lo studio, condotto su 4 allievi con gravi disabilità cognitive e comunicative, era ca- ratterizzato da una valutazione funzionale iniziale effettuata allo scopo di identificare le funzioni dei comportamenti disadattivi, rappresentati da grida, stereotipie e aggressività. Due degli allievi osservati presentavano comportamenti disadattivi quando veniva loro ri- chiesto il coinvolgimento in situazioni di apprendimento; la funzione del comportamento era quella di evitare un compito sgradito. I comportamenti disadattivi di un altro allievo comparivano, invece, quando diminuivano i livelli di attenzione del suo insegnante; la funzione, in questo caso, era quella di richiedere l’attenzione dell’insegnante.

Quando i quattro allievi vennero sottoposti ad un breve training di comunicazione funzionale, i loro comportamenti disadattivi diminuirono in modo significativo. Secondo l’ipotesi comunicativa, il comportamento disadattivo avrebbe quindi funzioni comunicati- ve e sarebbe caratterizzato dallo scopo di influenzare l’interlocutore per ottenere l’accesso ad oggetti o attività desiderate, oppure per richiedere l’eliminazione di un fattore di disa- gio (Carr, 2016).

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orientati all’apprendimento di codici comunicativi alternativi, quali quelli basati sulla Co- municazione Aumentativa Alternativa (Beukelman e Mirenda, 2013; Ganz, 2015) e sulla Comunicazione per scambio di immagini (PECS, Bondy e Frost, 1994). L’apprendimento della possibilità di influenzare l’ambiente attraverso l’indicazione di simboli stilizzati eser- cita effetti significativi sulla diminuzione dei comportamenti stereotipizzati nei disturbi dello Spettro Autistico (Whalen, 2009; Fisher, Piazza e Roane, 2011; Ganz, 2015).

Tra i fattori ambientali in grado di favorire la generazione delle stereotipie dovrebbero essere considerate anche le ipotesi che individuano nella deprivazione sociale e affettiva un possibile elemento eziologico dei comportamenti ripetitivi. Comportamenti di tale ordine sono infatti presenti negli animali allevati in contesti con minimi livelli di stimola- zione ambientale (Langen, Kas, Staal, Van Engeland e Durston, 2011). Sono inoltre note le prototipiche osservazioni di Spitz (1945) sui bambini ospitalizzati. La deprivazione sociale e affettiva sembra in grado di indurre comportamenti stereotipizzati anche nei bambini a sviluppo tipico (Langen et al., 2011; Chebli, Martin e Lanovaz, 2016).

Di analoga rilevanza si configurano le ipotesi che individuano nei mediatori neurochimi- ci i fattori eziologici delle stereotipie motorie. I farmaci dopaminergici possono aumentare in modo significativo la frequenza dei comportamenti stereotipizzati negli animali ed il dato viene confermato dal ruolo determinante dei farmaci agonisti, che invece limitano la fre- quenza delle stereotipie (Langen et al., 2011). Non mancano ipotesi che si basano sul coin- volgimento dei circuiti dopaminergici nella determinazione delle stereotipie nelle alterazioni dello Spettro Autistico (Mahone, Crocetti e Token 2016; Chebli, Martin e Lanovaz, 2016).

Anche le alterazioni neurofisiologiche rivestono un ruolo sempre più centrale nella individuazione delle cause delle stereotipie, motorie e verbali, nei Disturbi dello Spettro Autistico. Le alterazioni del volume del globus pallidus (Hegeman, Hong, Hernandez e Chan, 2016) e dei lobi del cervelletto (D’Mello, Crocetti, Mostofsky e Stoodley, 2015) sem- brano correlate ai comportamenti ripetitivi tipici del disturbo.

Uno tra i modelli interpretativi di maggiore rilevanza, direttamente collegato agli inter- venti educativi evidence based più efficaci per la diminuzione dei comportamenti ripetitivi nei Disturbi dello Spettro Autistico, risulta comunque quello rappresentato dalla Applied Behavior Analysis- ABA (Lovaas, 1987). L’approccio dell’Analisi Funzionale del Comporta- mento, derivato dalla teoria del condizionamento operante di Skinner, favorisce la com- prensione del ruolo esercitato dalle stereotipie attraverso la considerazione del ruolo del rinforzo da esse fornito al soggetto.

Secondo l’approccio ABA, il comportamento disadattivo viene mantenuto nel reper- torio comportamentale dell’allievo e risulta resistente ai tentativi di estinzione proprio a causa del rinforzo automatico e dalle sue conseguenze sull’ambiente sociale (Fisher, Piaz- za e Roane, 2011; Specht et al., 2016). I comportamenti stereotipizzati tipici degli allievi con Disturbi dello Spettro Autistico, quindi, potrebbero essere interpretati in base alle loro conseguenze sul contesto sociale, nei termini di richiesta dell’attenzione degli interlocutori in relazione alle loro necessità (Lovaas, 1993; Boyd et al., 2012; Wilke et al., 2012; DiGen- naro Reed, Hirst e Hyman, 2012).

L’approccio ABA, in questa prospettiva, non si configura come uno specifico modello di intervento, ma piuttosto come un approccio di ricerca orientato alla individuazione dei fattori che motivano i comportamenti (Lovaas, 1987; 1993). L’analisi preliminare delle funzioni di un comportamento disadattivo permette di individuare i suoi obiettivi e di

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sostituirlo con repertori più adattivi, fondati sullo sviluppo delle competenze di richiesta ambientale socialmente condivise.

L’identificazione delle funzioni del comportamento disadattivo è determinante per la sua sostituzione. Per questo motivo, in ogni intervento risulta necessaria un’analisi prelimi- nare per l’individuazione del contesto in cui si verifica l’evento e degli eventuali interlocu- tori (Whalen, 2009). Le più recenti meta-analisi indicano come l’approccio ABA presenti i massimi livelli di efficacia nella diminuzione dei comportamenti stereotipizzati tipici dello Spettro Autistico (Boyd, McDonough e Bodfish, 2012; Mulligan et al., 2014; Chebli, Martin e Lanovaz, 2016).

Per questo motivo sono stati sviluppati modelli di intervento educativo specificamente orientati alla diminuzione delle stereotipie motorie o verbali fondati sull’insegnamento delle competenze di richiesta, sull’analisi degli eventi antecedenti e delle conseguenze di un comportamento (Whalen, 2009).