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Down Syndrome (CS-DS) e il Prudhoe Cognitive Function Test – Short Form (PCFT-Short Form)

Carlo Dalmonego1, Elisa De Bastiani2, Elisabeth Weger2, Annachiara Marangoni2, Corinne

Bertoncini1, Manuela Bosetti1, Beatrice Angela Menapace1, Alessandro Mura1, Ulrico Mantesso2,

Luc Pieter De Vreese2,3, Tiziano Gomiero2

1. Cooperativa Laboratorio Sociale, Trento 2. Progetto DAD di ANFFAS TRENTINO, Trento 3. FONDAZIONE BONI, Suzzara (MN)

Abstract

Nel presente studio sono stati messi a confronto due strumenti di misurazione del funzionamento cognitivo nelle persone con Disabilità Intellettiva (DI): il Proudhoe Cognitive Function Test – I (Tyrer et al., 2010) ed il Cognitive Scale for Down Syndrome (Startin et al., 2016b) nelle loro versioni italiane sottoposte a validazione e si è usato come strumento di ulteriore confronto l’AFAST (De Vreese et al., 2015) in relazione al declino funzionale.

L’obiettivo è confrontare l’affidabilità e la validità degli strumenti su un campione italiano e verificare la loro appropriatezza in relazione con uno strumento che monitora il declino funzionale.

I 139 partecipanti sono persone con disabilità intellettiva (DI) che usufruiscono dei servizi di Anffas Trentino Onlus e della Cooperativa “Laboratorio Sociale” di Trento. L’età media del campione è di 55 anni, il 38,8% di sesso femminile mentre sul totale del campione il 30,2% ha una diagnosi di Sindrome di Down (SD). Le persone che presentano un Disturbo Neurocognitivo (NCD) sono 14 (10,1%), distribuito in numero uguale tra SD e le altre forme di DI e hanno evidenziato che il dato risulta indipendentemente dalla gravità della DI precedente alla rilevazione del disturbo.

Le correlazioni (r di Pearson), sia per il campione totale, che per i due sottogruppi di Disabilità Intellettiva (SD; non-SD) risultano altamente significative, confermando la validità concorrente degli strumenti e della loro relazione con il declino funzionale.

I punteggi totali medi delle persone con un NCD sono significativamente inferiori rispetto alle persone senza NCD in entrambi i reattivi. Questa differenza rimane significativa anche dopo aver aggiunto la variabile “età” come covariata.

I primi risultati hanno confermato la validità e l'affidabilità degli strumenti italiani in linea con quelle già ottenute nelle loro versioni originali. Le correlazioni mostrano inoltre come essi siano mutualmente utilizzabili, garantendo quindi la possibilità di testare una popolazione molto più ampia proprio perché si tratta nel primo caso di un test diretto, mentre nel secondo caso di un'intervista ad un informant.

Per contattare gli autori scrivere a:

Carlo Dalmonego, Cooperativa Laboratorio Sociale, Via Unterveger, 6 - Trento E-mail: dalmonego@laboratoriosociale.it

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Introduzione

Come definito in letteratura (APA, 2013), i deficit delle funzioni cognitive rappresenta- no uno dei criteri necessari alla formulazione della diagnosi di disabilità intellettiva (DI). Fin dagli albori della loro storia la psicologia e la psichiatria hanno sempre collegato la condizione di disabilità intellettiva con un funzionamento cognitivo deficitario ponendolo come criterio diagnostico fondamentale. Nel corso degli ultimi 40 anni importanti rivolu- zioni culturali, ancor prima che scientifiche, hanno scosso la società e con essa la visione dell’uomo trasformando i concetti di salute e di malattia. Tra i cambiamenti più rilevanti nell’ambito della disabilità intellettiva occorre ricordare la riscoperta del ruolo fondamen- tale che gioca il contesto attraverso l’introduzione del costrutto di comportamento adattivo (Doll, 1935; Nihira, 1999) e l’enfasi sempre maggiore rivolta alla Qualità di Vita (Schalock, et al., 2002). L’attenzione della ricerca a questi nuovi campi d’indagine e le controversie riguardanti il costrutto stesso d’intelligenza generale (Cianciolo e Sternberg, 2004), han- no gradualmente fatto perdere interesse nella misurazione del funzionamento intellettivo nelle persone con DI.

Un decisivo passo avanti per approfondire il funzionamento cognitivo è stato fatto in ambito neuropsicologico. La valutazione neuropsicologica è andata via via affermandosi, garantendo al rigore scientifico e metodologico l’utilità operativa, fornendo dati utili a molti interventi riabilitativi e aiutando a valutare le capacità cognitive del soggetto in uno specifico momento e contesto (Serino e Di Santantonio, 2013). Dagli studi presenti in letteratura siamo però consapevoli che in ambito neuropsicologico gli strumenti validati nella popolazione a sviluppo tipico perdono di affidabilità con il diminuire del livello di funzionamento della persona, anche a causa dei deficit motori e/o sensoriali che sono spesso associati alla DI.

L’enfasi sul comportamento adattivo – sostegni, costrutto della qualità di vita da un lato, e le oggettive difficoltà di valutazione del funzionamento intellettivo, appena descrit- te dall’altro – spiegano in parte le grandi lacune presenti sia in letteratura, che nei servizi quando si parla di valutazione del funzionamento intellettivo. Questo dato purtroppo stri- de con uno dei presupposti su cui si basa la presa in carico di persone con DI in base al quale, nella conoscenza della Persona con Disabilità, è fondamentale indagare il funziona- mento intellettivo per avere un quadro esaustivo in fase di valutazione (Dalmonego, 2016). In ambito clinico le ripercussioni negative derivanti da questa lacuna, sono molteplici soprattutto di fronte ad un evento critico come l’insorgere del decadimento cognitivo (De Vreese et al., 2014).

La letteratura ha evidenziato come l’allungamento dell’aspettativa di vita delle persone con DI, abbia fatto emergere in tutta la sua drammaticità il maggiore rischio di demenza rispetto alla popolazione generale (Zigman, 2013), soprattutto per alcune condizioni come la Sindrome di Down (De Vreese et al., 2014). Purtroppo la diagnosi di demenza nelle per- sone con disabilità intellettiva è particolarmente difficile per diversi motivi. In primo luogo il declino delle abilità cognitive, funzionali e di adattamento, è più veloce nelle persone con DI rispetto alle persone a sviluppo tipico (Burt et al., 2005).

Il diverso funzionamento mentale delle persone con DI, inoltre, può portare a sintomatolo- gie differenti rispetto alla popolazione generale; i deficit cognitivi possono nascondere alcuni sintomi ed enfatizzarne altri (De Bastiani et al., 2014), rendendo i profili molto contraddittori.

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A queste difficoltà si aggiungono quelle di tipo strumentale. I test di screening cogni- tivo utilizzati di routine nella popolazione generale, per esempio, Mini-Mental State Exa- mination (Folstein, Folstein, e McHugh, 1975), non sono adatti alle persone con DI per il

rischio di un frequente floor effect1 e per la difficoltà di standardizzare un punteggio soglia

a causa della grande variabilità interindividuale nelle abilità cognitive e di comunicazione premorbose (Deb e Braganza, 1999). Questi ed altri motivi hanno spinto molti specialisti a rinunciare all’utilizzo di reattivi adeguati. Tuttavia l’abbandono degli strumenti di scre- ening cognitivo diretto, comporta una perdita di informazioni affidabili e preziose anche in virtù della considerazione che non tutte le persone con DI presentano deficit della comunicazione così severi da non poter essere testate. Al fine di una corretta valutazione del grado e della progressione del deterioramento cognitivo, sarebbe preferibile verificare direttamente, tutte le volte e qualora fosse possibile, le abilità cognitive della persona (Burt e Alyward, 2000; Haveman, et al., 2009).

In altri casi vengono utilizzati test indiretti consistenti in interviste semistrutturate o questionari somministrati ad un informant che spesso coincide con il principale caregiver della persona; ma, anche in questo caso, strumenti realizzati per la popolazione a sviluppo tipico si sono dimostrati inadeguati se applicati alle persone con DI.

L’area di passaggio tra l’età adulta e la terza età ha messo in luce cambiamenti pro- blematici che hanno costretto i clinici ed i ricercatori a superare la carenza di strumenti e, negli ultimi 10 anni, sono stati standardizzati diversi strumenti specifici di misurazione delle funzioni cognitive nella persona con DI adulta e anziana. Nella Tabella 1 sono indi- cati alcuni strumenti sia diretti che indiretti presenti in letteratura, utilizzati sia per scopi di ricerca sia in ambito clinico.

Tabella 1. i principali strumenti di misurazione delle funzioni cognitive nella persona con Di adulta e anziana

Strumento References

DMR, Dementia Questionnaire for person with ID Evenhuis, Kengren e Eurling, 2004 (Versione italiana in De Vreese, 2012)

Dementia Scale for Down Syndrome Gedye, 1995

Dementia screening questionnaire for individuals with intellectual

disabilities – DSQIID Deb, Hore, Prior e Bhaunik, 2007

Rapid Assessment for Developmental Disabilities – RAAD Walsh et al., 2015

Proudhoe Cognitive Function Test Margallo-Lana et al., 2003; Tyrer et al., 2010 CAMCOG-DS, parte del The Cambridge Examination for Mental

Disorders of Older People with Downs Syndrome and Others with

Intellectual Disabilities - CAMDEXDS Ball et al., 2004 Neuropsychological assessment of dementia in adults with

intellectual disability – NAID Crayton, Oliver, Holland, Bradbury e Hall, 1998 Adams et al., 2008 Lon Down’s Adult Cognitive Assessment Startin et al., 2016

Test of Severe Impairment–Modified – TSI Mulryan et al., 2009 Arizona Cognitive Test Battery for Down Syndrome Edgin et al., 2010

Le osservazioni precedenti hanno evidenziato come chiunque lavori con persone che presentano disturbi del neurosviluppo e che manifestano una disabilità intellettiva severa e grave, sa che nessun test reattivo che si possa utilizzare sarà mai in grado di tracciare 1 Il floor effect tradotto letteralmente con “effetto pavimento” si riferisce alla situazione in cui i punteggi non

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un profilo cognitivo preciso ed esaustivo come si auspicherebbe invece da uno screening neuropsicologico; l’aumento della compromissione cognitiva, infatti, è direttamente pro- porzionale alla difficoltà di testare direttamente una persona e diventa molto più com- plesso utilizzare anche i reattivi indiretti che utilizzano un informant. Per questo diventa ancora più rilevante la preparazione del professionista che somministra lo strumento e la scelta di uno strumento che sia adeguato alla persona e ne rispetti i tempi.

Nel presente articolo si vogliono presentare alcuni risultati preliminari relativi a due strumenti di misurazione del funzionamento cognitivo nelle persone con DI: il Proudhoe Cognitive Function Test – Short form (Tyrer et al., 2010) ed il Cognitive Scale for Down Syndrome (Startin, Rodger, Fodor-Wynne, Hamburg e Strydom, 2016).