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SICUREZZA E FLESSIBILITÀ DEL LAVORO: L’AMBIVALENZA DEL WELFARE AGRICOLO

3.2 Il modello europeo di flexicurity

L’analisi delle dinamiche attraverso le quali il concetto di flexicurity è appar- so nell’agenda politica europea e ha proseguito il suo percorso in direzione di una sua possibile istituzionalizzazione si rivela piuttosto complessa. Le difficoltà con- nesse al tentativo di definirne i contorni traggono la propria origine dal fatto che la flexicurity si pone alla confluenza della politica economica, della politica del lavoro

e della politica sociale, ossia tre macro aree di politiche pubbliche. La flexicurity rappresenta, quindi, un potenziale ponte concettuale e pratico nella governance europea dell’occupazione, con un marcato accento sull’approccio integrato. La sua fondamentale novità risiede appunto nel tentativo di riformulare la governance dell’occupazione, esplicitamente imperniata sull’accettazione della volatilità delle attività produttive nell’ambito del mercato interno e della pressante competizione globale (Pancaldi, 2008).

La flexicurity è un concetto frequentemente utilizzato per descrivere la stra- tegia che cerca di conciliare la crescita della flessibilità sul mercato del lavoro con l’incremento della sicurezza sociale e dell’occupazione dei lavoratori. Essa nasce nell’ambito del dibattito sulle politiche di riforma del mercato del lavoro per ri- spondere alle spinte verso la de-regolazione, in contrasto col modello di welfare europeo. L’interesse verso la flessibilità dell’impresa emerge, infatti, negli anni ottanta con l’entrata in crisi del modello di organizzazione fordista, insieme al de- clino dello stato sociale keynesiano.

Seppure declinata in maniera differente, secondo la specificità dei rispettivi approcci, la letteratura economico-organizzativa in materia di lavoro ha costitu- ito il terreno più fertile ai fini dell’attecchimento della prospettiva della flexicu- rity (Zappalà, 2012). In particolare, i contributi provenienti dalla specializzazione flessibile di Piore e Sabel (1984) puntano ad evidenziare come, all’evolversi delle condizioni di mercato, i processi di adattamento dell’impresa diventano inevitabili. Su un altro versante, con un approccio diverso al tema, si collocano gli studi John Atkinson (1985) sulla flexible firm, che vede una strutturazione binaria di tipo core/periphery dell’attività d’impresa. In essa coesisterebbero un core group di lavoratori, con contratto di lavoro a tempo pieno e di durata indeterminata, e un peripheral group, la cui caratteristica determinante è quella di essere gestiti attraverso strategie ispirate alla flessibilità.

Un altro ambito teorico di rilevante interesse per il tema, cui lo stesso Atkin- son si era ispirato, è quello attribuibile a Doeringer e Piore (1971), secondo i quali i mercati interni del lavoro genererebbero maggiore efficienza per l’impresa. Il mer- cato del lavoro interno comunica con quello esterno grazie all’indennità di disoc- cupazione, dove i lavoratori licenziati vengono temporaneamente assistiti dall’u- nemployment benefit system, per poi essere nuovamente impiegati nell’impresa nelle fasi di ripresa del ciclo economico.

Anche le teorie dell’impresa basate sulla conoscenza hanno prodotto una vasta letteratura economico-organizzativa che si è occupata delle connessioni fra i vari tipi di flessibilità e la capacità dell’impresa di innovarsi costantemente tramite

uno sviluppo delle risorse e delle capabilities (Penrose, 1959; Richardson, 1972). Secondo tale approccio, vi sarebbe un’evidente correlazione negativa fra utilizzo della flessibilità numerica in entrata e sviluppo dei processi di innovazione. Un elevato turnover delle risorse e/o una deregolamentazione dei rapporti di lavoro con un termine finale inciderebbero negativamente sulla capacità dell’azienda di innovare i propri prodotti e/o servizi, poiché appunto tale turnover produrrebbe una svalutazione del capitale cognitivo dell’azienda medesima.

La popolarità attuale del concetto di flexicurity nella sua teorizzazione deve molto però al quadro concettuale dei ‘mercati del lavoro di transizione’ (transitio- nal labour markets) elaborato dalla fine degli anni ’90 da Günter Schmid e Ber- nard Gazier come riformulazione dei sistemi di welfare di fronte all’aumento del- la disoccupazione strutturale e della deregolamentazione (Schmid, 2011; Gazier 2002; Esping Andersen, Regini, 2000). Partendo dall’assunto che il lavoro a tempo indeterminato non sia più l’unica opzione possibile, i mercati del lavoro di transi- zione enfatizzano una promozione ex-ante della mobilità occupazionale attraverso la revisione dei sistemi di welfare come “sicurezza nelle transizioni”, in termini di diritti e servizi sociali d’accesso garantito. Secondo tale approccio teorico, in una società in cui il lavoro subordinato non è più capace di proteggere i lavoratori dai rischi connessi alla perdita del lavoro, i transitional labour markets rappresen- tano meccanismi sociali istituzionalizzati in grado di accompagnare e sostenere i lavoratori durante tutto il loro percorso lavorativo. Nei mercati del lavoro di transi- zione, partendo dalla flessibilità dei rapporti di lavoro come condizione essenziale dell’attuale realtà socio-economica, l’attenzione si focalizza sull’aggiornamento dei tradizionali sistemi di sicurezza sociale. Il punto cruciale è proprio il ruolo chia- ve assunto della reti di sicurezza come stimolo e supporto alla mobilità, generata tanto dal contesto produttivo quanto da esigenze individuali (Schmid, 2011).

Vista la teoria, qual è la realtà proposta dall’agenda flexicurity nell’UE? Le politiche europee per la flexicurity si muovono entro il contesto delineato da tre tappe principali: la Strategia europea per l’occupazione (SEO), avviata nel 1997 pa- rallelamente all’approvazione del Trattato di Amsterdam; la Strategia di Lisbona, fissata nel 2000 per una “economia basata sulla conoscenza” e per la “moder- nizzazione” del modello sociale europeo; infine, gli orientamenti integrati per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale previsti dalla Strategia Europa 2020.

Dalla fine degli anni Novanta, in particolare, le politiche comunitarie per l’occupazione si basano su quattro assi portanti: libertà d’impresa e pari oppor- tunità, che appartengono alla teoria e alle pratiche della tradizione liberale mo- derna; ad esse si sono aggiunte occupabilità e adattabilità che connotano invece,

più specificamente, gli sviluppi di tale tradizione nella prospettiva neoliberale in una economia globalizzata. Tale prospettiva ha accolto il contributo dei Job Stu- dy dell’OCSE del 1994, in cui si sottolineava l’importanza della flessibilità nell’or- ganizzazione dell’impresa e la necessità di adottare strategie di deregulation del mercato del lavoro.

La nozione di “occupabilità” indica la necessità di proteggere non il posto di lavoro ma la capacità lavorativa individuale, intesa come capacità competitiva che consente all’individuo di trovare un nuovo posto di lavoro, entro un percorso fon- dato su più “transizioni lavorative”. Il ruolo cruciale viene giocato dalle possibilità di riuscire ad adattarsi, di competere con successo e dalle opportunità di trovare un nuovo lavoro. La nozione di “adattabilità” indica, in tale ambito, la capacità in- dividuale di adattarsi a esigenze economico-produttive mutevoli, e quindi la pos- sibilità di affrontare con successo la competizione. Per queste ragioni le politiche di formazione costituiscono la parte essenziale delle politiche per l’occupazione (Possenti, 2012). Il cosiddetto lifelong learning è promosso in connessione stretta e strumentale con l’obiettivo della “occupabilità”, al punto che le politiche di fle- xicurity sono definite anche in termini di “strategie integrate di apprendimento lungo tutto l’arco della vita per assicurare la continua adattabilità e occupabilità dei lavoratori” (Commissione Europea, 2007, p.6).

Nell’ambito di tale riflessione sulla possibilità di coniugare flessibilità e si- curezza nel mercato del lavoro, la flexicurity è stata utilizzata per individuare una specifica combinazione di policy che contiene in sé gli elementi di un nuovo mo- dello di regolazione europea che tende a sostituire gli strumenti hard del diritto con strumenti di regolazione soft. Nel dibattito che è immediatamente seguito alla pubblicazione del Libro Verde “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo” e, più marcatamente nel periodo successivo alla crisi economica del 2008, il concetto di flexicurity si è andato stemperando tanto da in- dicare una strategia politica per la riforma dei diritti del lavoro nazionali, piuttosto che un modello regolativo (Zoppoli, 2012; Delfino, 2009; Madsen, 2007).

Ciò significa che la flexicurity dovrebbe essere diversamente declinata dagli stati membri secondo le diverse peculiarità dei sistemi di welfare, dando luogo a una pluralità di esperienze nazionali. Declinata in un senso così ampio, essa non è altro che una prospettiva, una lente attraverso la quale esaminare diversi modelli regolativi, di cui si può valutare l’impatto nell’ordinamento italiano e sul mercato del lavoro.

Nel dibattito internazionale, malgrado la “primogenitura” dei Paesi Bassi11,

il termine flexicurity è stato progressivamente associato al modello danese nel- la particolare configurazione del cosiddetto “triangolo d’oro”. Esso si basa su tre pilastri: una scarsa tutela della stabilità del rapporto di lavoro; un sostanzioso sostegno al reddito del lavoratore in caso di disoccupazione; efficienti servizi per l’impiego volti alla formazione e alla ricollocazione professionale del lavoratore.

Per quanto riguarda il primo pilastro, la flessibilità viene garantita alle im- prese sia in entrata sia in uscita. Non esistono vincoli di nessun tipo alla stipu- lazione del contratto a termine e del licenziamento individuale che è soggetto a brevi termini di preavviso e al pagamento di un’indennità per i dipendenti con una elevata anzianità. Quanto al secondo pilastro, risulta molto significativa la sicurez- za economica offerta al lavoratore in caso di disoccupazione. Essa si articola in in- dennità erogate da un sistema assicurativo privato, sulla base di Fondi ad adesione individuale volontaria – in realtà alimentati in larga parte da contributi statali – e in provvidenze economiche a carico del sistema pubblico di sicurezza sociale. Quanto al terzo pilastro, esso è costituito dal sistema pubblico di assistenza al lavora- tore finalizzato al reimpiego e alla formazione, collegato al diritto del lavoratore ad usufruire di benefici economici (assicurativi o erogati dal sistema di sicurezza sociale) con l’accettazione di politiche attive per l’impiego, quali offerte di forma- zione, riqualificazione, training on the job. L’introduzione di misure di workfare ha abbassato drasticamente un tasso di disoccupazione che aveva raggiunto livelli considerevoli. L’instabilità dell’impiego non ha peraltro comportato un abbassa- mento del tasso di sindacalizzazione: i Fondi assicurativi, infatti, sono amministrati dai sindacati – c.d. “sistema Ghent” – sebbene l’accesso sia aperto, in virtù di una semplice adesione al Fondo, tanto ai lavoratori iscritti, quanto a quelli non iscritti (Leonardi, 2005; Carinci, 2012).

In definitiva, il concetto di flexicurity conserva una sostanziale indetermina- tezza dei contenuti di policy e, quindi, la necessità di un ancoraggio a casi specifi- ci. Il suo carattere polisemico può rappresentare un sistema socio-istituzionale o modello sociale di riferimento; un processo in cui giocano un ruolo differente e con obiettivi diversi le norme, le istituzioni e gli attori coinvolti; uno strumento euristico per l’analisi del mercato del lavoro europeo (Artiles, 2011).

11 In effetti, nei Paesi Bassi si sviluppò intorno alla metà degli anni novanta il dibattito sulla flexicurity esplicitata poi nella legge “sulla Flessibilità e sulla Sicurezza” approvata nel 1998 (Wilthagen 1998). La riforma introdusse una serie di garanzie per i lavoratori a tempo determinato semplificando l’utilizzo dei contratti non standard e del par-time, che ha fatto della flessibilità dell’orario di lavoro un pilastro del modello olandese.