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Competitività dell’impresa e tutela dei lavoratori: obiettivi compatibili in agricoltura?

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Academic year: 2021

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COMPETITIVITÀ DELL’IMPRESA E

TUTELA DEI LAVORATORI: OBIETTIVI

COMPATIBILI IN AGRICOLTURA?

Atti del seminario svoltosi a Roma, l’8 maggio 2013

collana SISTEMA DELLA CONOSCENZA. Quaderni

L’area Sistema della conoscenza in agricoltura sviluppa e realizza attività di studio e sup-porto alle amministrazioni centrali e regionali su tre filoni principali: il sistema ricerca nelle sue componenti principali e in relazione ai livelli istituzionali che lo promuovono (europeo, nazionale, regionale); i servizi di sviluppo regionali con particolare riferimento agli interventi previsti dalle politiche europee; gli aspetti sociali e culturali dell’agricol-tura quali fattori per lo sviluppo di nuovi percorsi produttivi e di attività di servizio alla collettività.

Le iniziative di ricerca e consulenza vengono realizzate secondo un approccio olistico e relazionale che prende in considerazione l’apporto di tutte le componenti classiche del sistema della conoscenza (ricerca, servizi di assistenza e consulenza, formazione, tessuto imprenditoriale e territoriale) e coniuga il tema dell’innovazione quale obiettivo trasversale da perseguire per il miglioramento del sistema agricolo e rurale.

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COMPETITIVITÀ DELL’IMPRESA E

TUTELA DEI LAVORATORI: OBIETTIVI

COMPATIBILI IN AGRICOLTURA?

Atti del seminario svoltosi a Roma,

l’8 maggio 2013

a cura di

Maria Carmela Macrì

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Atti del seminario di studi organizzato dall’INEA a Roma, l’8 maggio 2013

Il seminario e gli atti sono stati realizzati nell’ambito del progetto “Promozione del-la cultura contadina” finanziato dal MiPAAF (Decreto n. 0029277 del 27/12/2010) del-la cui responsabilità è affidata a Francesca Giarè e Sabrina Giuca

Il volume è stato curato da Maria Carmela Macrì Si ringrazia Lucia Tudini per le preziose osservazioni Segreteria di redazione: Roberta Capretti

Coordinamento editoriale: Benedetto Venuto

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INDICE

Introduzione 5 Maria Carmela Macri

Capitolo 1

Capitale umano e sviluppo dei territori rurali: il caso della Sardegna 11 Roberto Furesi e Fabio A. Madau

1.1 Introduzione 11

1.2 Divari di sviluppo tra aree rurali e urbane 14

1.3 Classificazione delle aree rurali in Sardegna 16

1.4 Il modello di analisi 18

1.5 Risultati e discussione 21

1.6 Misure per il potenziamento del capitale umano 25

1.7 Conclusioni 29

Riferimenti bibliografici 30

Capitolo 2

Investimento in capitale umano e competitività dell’impresa agricola.

Dalla teoria all’indagine empirica 35

Pietro Pulina

2.1 Introduzione 35

2.2 Capitale umano e impresa agricola familiare 36

2.2.1 Capitale umano e conoscenza 36

2.2.2 Capitale umano e agricoltura 38

2.2.3 Capitale umano e famiglia agricola 39

2.3 Una mappatura dei modelli di gestione delle imprese familiari italiane 41

2.4 L’indagine sul campo 44

2.4.1 La rilevazione diretta 44

2.4.2 Il focus group 49

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Riferimenti bibliografici Capitolo 3

Sicurezza e flessibilità del lavoro: l’ambivalenza del welfare agricolo 56 Giuseppina Carrà, Gabriella Vindigni

3.1 Introduzione 55

3.2 Il modello europeo di flexicurity 56

3.3 Le forme di flessibilità in agricoltura 61

3.4 Gli ammortizzatori sociali 67

3.5 Politiche attive e ruolo della bilateralità in agricoltura 72

3.6 Considerazioni conclusive 75

Riferimenti bibliografici 77

Capitolo 4

Politiche di emersione ed inclusione sociale: le attività ed i progetti

del Mipaaf 83

Giuseppe Sallemi

4.1 Introduzione 83

4.2 S.O.F.I.I.A e altri progetti finanziati con i fondi per l’integrazione 87

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INTRODUZIONE

Maria Carmela Macri1

Lo sviluppo aziendale e la crescita economica sono processi all’interno dei quali la risorsa umana ha un ruolo fondamentale. Occorre dunque riflettere sulla relazione tra il lavoro e i fattori di contesto e personali che ne stimolano la sua qualificazione e la competitività delle aziende e del settore. Nelle economie avan-zate questo vale anche, e forse a maggior ragione, per il settore primario cui si chiede di garantire una serie di beni pubblici difficilmente contabilizzabili tramite gli indicatori economici convenzionali (protezione dell’ambiente e del territorio, tutela dell’identità e del patrimonio culturale) mentre crescono le pressioni sul lato dei costi e della competizione internazionale.

Per questo motivo, nel maggio 2013 l’INEA, nell’ambito del progetto “Pro-mozione della cultura contadina”, ha realizzato un seminario sul tema Compe-titività dell’impresa e tutela dei lavoratori: obiettivi compatibili in agricoltura? al quale hanno partecipato esperti e operatori del settore. Il seminario aveva l’obiet-tivo di riproporre la centralità del lavoro come fattore produtl’obiet-tivo di tipo “cogniti-vo” che implica, anche quando è manuale, l’impiego di conoscenze acquisite più che di energia fisica (Rullani, 2008)2. Il perseguimento di un’elevata qualità delle

produzioni e dei processi produttivi, la gestione di relazioni aziendali più comples-se, infatti, richiedono competenze professionali e imprenditoriali più sofisticate di quanto avveniva in passato. Di contro l’incentivo all’investimento in capitale umano in termini di remunerazione attesa nonché, più in generale, di condizioni di lavoro offerte dal settore (di cui la discontinuità è un elemento cruciale), può essere in-sufficiente. In particolare nelle aree meno dinamiche gli individui e le loro famiglie – che ancora costituiscono la spina dorsale dell’agricoltura italiana – preferiscono investire in formazione con la prospettiva di occupazione in altri settori o, addirit-tura, in altri territori. In questi casi l’offerta pubblica di formazione rischia di rima-nere un intervento sterile se non accompagnata da misure finalizzate a migliorare le opportunità del contesto. L’agricoltura italiana non è uniforme sia per ragioni

1 Ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA)

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pedo-climatiche che ne condizionano le vocazioni colturali, sia per le diverse ca-ratteristiche aziendali, sia perché l’ambito in cui si inserisce – le infrastrutture disponibili, il clima di fiducia – non è neutrale per la riuscita e la produttività del settore. Pertanto ci sono comparti altamente redditizi e territori dove il primario si integra con la fase della trasformazione, andando a sostenere la rappresentazione dell’italianità che permea l’immaginario internazionale e aree dove l’agricoltura evoca il degrado ambientale, lo sfruttamento delle risorse umane e naturali e l’ar-retratezza culturale e tecnologica. Gli indicatori sviluppati difficilmente riescono a rappresentare questa eterogeneità ma, per quanto impreciso, un indicatore cer-tamente rilevante delle condizioni del mercato del lavoro è l’incidenza del lavoro non regolare. Secondo i dati di contabilità nazionale dell’Istat, nel 2012 il tasso di irregolarità per gli occupati in agricoltura era pari al 36%, mentre nella media dell’economia era il 10%. La stima in relazione alle unità di lavoro, seppur più contenuta, è tuttavia pesante: pari rispettivamente al 24,3% e al 12,1%. Questa grandezza riflette una gamma ampia di fenomeni che vanno da rapporti di lavoro totalmente non dichiarati a quelli formalmente regolari, dove però le ore dichia-rate non coincidono – in più o in meno – con le effettive, per ragioni di evasione contributiva e previdenziale o per permettere ai lavoratori (spesso familiari) di ac-cedere a benefici assistenziali. Ci sono poi le situazioni di estremo disagio che cozzano inesorabilmente con la collocazione dell’agricoltura italiana nell’empireo dei migliori produttori agroalimentari al mondo, al punto di suscitare numerosi tentativi di imitazione, nonché un vasto mercato della contraffazione. Eventi come i disordini scoppiati a più riprese a Rosarno hanno messo in luce situazioni di de-grado tanto inaccettabili da apparire inverosimili, ma confermate dalle inchieste e dagli arresti per il reato di “sfruttamento e riduzione in schiavitù” che seguirono. Si tratta di casi estremi, ma emblematici di una contraddizione tra un sistema produttivo moderno inserito in un contesto economico avanzato e l’inadeguatezza delle condizioni che offre.

In ogni caso la diffusione del lavoro non regolare segnala la mancanza di certezza e quindi la fragilità del lavoratore in quanto per definizione sogget-to debole della contrattazione. Sorprende dunque che l’irregolarità possa essere tollerata, percepita come inevitabile, addirittura giustificata con il costo ritenuto insopportabile per un settore schiacciato dalla concorrenza internazionale da un lato e da crescenti prezzi dei mezzi tecnici dall’altro. L’impossibilità di riconoscere le dovute tutele, prima tra tutte un’adeguata remunerazione, viene fatta discen-dere dalla scarsa capacità reddituale dell’impresa come se questa fosse un dato definito esclusivamente in via esogena e il lavoro, soprattutto se poco qualificato,

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l’unico fattore su cui scaricare le pressioni di una concorrenza internazionale spie-tata. Per recuperare competitività si continua a chiedere al lavoro una capacità di adattamento e di adeguamento che prescinde dalle problematiche sociali che questo determina. Si tratta di una strategia controproducente perché non crea le condizioni per uno sviluppo duraturo anzi spiazza le imprese che invece investono nella qualificazione e riorganizzazione delle risorse, nella valorizzazione delle pro-duzioni, nello sviluppo di nuovi prodotti e mercati. Inoltre, le condizioni lavorative offerte dal settore lo rendono poco appetibile, scoraggiando la partecipazione delle professionalità migliori e ostacolando la dotazione appropriata di capitale umano. Si rischia dunque di creare un circolo vizioso che fa avvitare il settore intorno a un’economia di basso profilo che non può perseguire gli obiettivi di qualità, sicu-rezza, identità culturale, tutela ambientale che costituiscono l’essenza distintiva dell’agricoltura comunitaria.

Il seminario, di cui sono qui raccolti i contributi, è stato un’occasione di con-fronto e di riflessione su ciò che condiziona l’accumulazione di capitale umano e le interazioni con il contesto economico e lo sviluppo rurale. Allo stesso tempo va considerata la necessità di modificare il paradigma normativo che vede la tutela dell’occupazione come obiettivo prioritario, a vantaggio di modelli che salvaguar-dino la capacità del tessuto economico di creare domanda e offerta di lavoro in quantità e qualità appropriate tenendo in considerazione le esigenze di flessibilità delle imprese moderne.

Tra i cambiamenti intervenuti nell’agricoltura che meritano particolare con-siderazione c’è la presenza degli stranieri che, a dispetto della loro importanza, spesso sono costretti al margine del sistema mortificando le loro potenzialità pro-fessionali e la loro imprenditorialità; per questi, sebbene in modo ancora insuffi-ciente, si comincia a immaginare, finalmente, strumenti specifici.

Le relazioni sono presentate nell’ordine degli interventi al seminario. I primi due capitoli mostrano i risultati di un’analisi quantitativa relativa alla Sardegna che presenta la specificità di un territorio scarsamente popolato, con pochi poli urbani, dove risultano particolarmente accentuate le carenze tipiche delle aree rurali in termini di dotazione di infrastrutture, divario di reddito e di stock di ca-pitale umano e sociale che si esprime anche nella minore attenzione alla qualità dell’ambiente e alla salute dei cittadini.

In definitiva si appalesa l’esistenza di un circolo vizioso che rende difficile un’uscita spontanea dallo stato di arretratezza. In questi contesti è urgente un intervento finalizzato al potenziamento del capitale umano e sociale che agisca sia sul lato della domanda che dell’offerta. Infatti non sembra sufficiente

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accre-scere in quantità e qualità l’offerta di formazione scolastica e universitaria poiché, in mancanza di un contesto che presenti prospettive positive di collocazione, si rischia di alimentare il flusso di emigrazione intellettuale verso aree più promet-tenti del Paese o verso l’estero. Pertanto una politica efficace di potenziamento del capitale umano deve essere inserita in una strategia finalizzata a creare condizioni generali favorevoli e un clima di fiducia.

Il secondo capitolo affronta le tematiche dell’investimento in formazione come strategia della famiglia agricola. La dimensione familiare della struttura aziendale condiziona le scelte imprenditoriali sotto diversi aspetti già a partire dall’obiettivo canonico della massimizzazione del profitto che viene mitigato da altre esigenze come quelle organizzative, di stabilità finanziaria e tutela patrimo-niale. Allo stesso modo le caratteristiche specifiche delle risorse disponibili pos-sono modificare positivamente i rapporti di convenienza: la presenza di relazioni fiduciarie tende ad abbattere i costi di transazione e la natura mutualistica con-sente l’opportunità di ricorrere maggiormente a fonti di finanziamento interne al nucleo. La mescolanza di motivazioni e ambizioni dei componenti familiari con gli interessi aziendali è evidente e si riflette sulle scelte imprenditoriali in particola-re su quelle di lungo periodo che incidono sui percorsi di sviluppo della famiglia stessa. L’analisi empirica realizzata attraverso un’indagine campionaria condotta all’interno del distretto di Arborea ha messo in evidenza come non sempre gli in-teressi dell’azienda coincidano con quelli dei componenti della famiglia, cosicché l’investimento in formazione può non essere finalizzato allo sviluppo dell’azienda, ma mira alla collocazione in altri ambiti settoriali se non anche territoriali.

Il mercato del lavoro agricolo è caratterizzato da un’elevata esigenza di fles-sibilità connessa alle caratteristiche specifiche del settore, alcune insopprimibili, come la stagionalità, altre di tipo strutturale come la polverizzazione aziendale che determina la necessità da parte degli addetti di adottare strategie di pluriattività per ottenere une reddito sufficiente. In questo settore dunque servono strumenti di regolazione specifici che vengono letti nel terzo capitolo all’interno del modello della “flexicurity” che vorrebbe bilanciare le esigenze aziendali con le garanzie di tutela sociale. Il modello è finalizzato a conservare non l’occupazione in sé ma la “occupabilità” degli individui e si fonda su tre pilastri: basso livello di tutela della stabilità del rapporto di lavoro per lasciare massima libertà alle aziende in materia di assunzione e licenziamento; indennità di disoccupazione; assistenza al lavora-tore per il reimpiego. Il modello funziona se applicato nella sua integrità, altrimen-ti rischia di mettere il lavoratore in una grave condizione di fragilità che non giova nemmeno alla competitività del settore, soprattutto in un contesto, come quello

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italiano, dove l’inserimento degli immigrati ha consentito un ribasso delle condi-zioni economiche e delle tutele. A questo proposito, nell’ultimo intervento sono esposte alcune iniziative del Ministero delle politiche agricole finalizzate all’emer-sione del lavoro nero e all’incluall’emer-sione sociale rivolte specificamente ai lavoratori stranieri. Gli stranieri sono infatti una risorsa importante per l’agricoltura italiana, sia come lavoratori dipendenti sia come imprenditori. Per i primi sono state messe in campo azioni di informazione circa i diritti dei lavoratori ma anche di formazio-ne precedente alla partenza per qualificare il lavoratore ancorché per un’attività stagionale. Inoltre sono stati avviati progetti di sostegno alla creazione di impresa per stimolare l’imprenditorialità in agricoltura degli stranieri a vantaggio degli in-dividui e del rinnovamento del settore.

L’intervento pubblico qualificato, nella forma della regolazione e del soste-gno laddove risponda a un interesse collettivo (European Commission, 2013)3, è

certamente importante, ma se si vuole rimanere competitivi in un mondo dove i bisogni da soddisfare sono sempre più di tipo immateriale, è necessario che il set-tore in prima persona investa in dotazioni strutturali e organizzative, in formazione e qualificazione e, soprattutto, garantisca alle risorse umane il giusto riconosci-mento e l’adeguata valorizzazione.

3 European Commission, The Common Agricultural Policy after 2013. Your ideas matter, disponibile sul sito della Commissione http://ec.europa.eu/agriculture/cap-post-2013/debate/report/summa-ry-report_en.pdf

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C

apitolo

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CAPITALE UMANO E SVILUPPO DEI TERRITORI

RURALI: IL CASO DELLA SARDEGNA

di Roberto Furesi e Fabio A. Madau 4

1.1 Introduzione

Le zone rurali sono oggetto da tempo di cospicui interventi finanziari pro-mossi dall’Unione Europea (UE) al fine di sostenerne lo sviluppo e ridurne il divario che le separa dal resto del territorio comunitario. In merito è sufficiente ricordare che soltanto nel corrente periodo di programmazione (2007-2013) le politiche di sviluppo rurale sono state finanziate per una cifra che supera i 96 miliardi di Euro (Commissione Europea, 2013).

Nonostante il continuo impegno dell’UE, l’obiettivo di colmare il divario che separa sul piano economico le zone rurali da quelle urbane rimane a tutt’oggi lar-gamente irrealizzato. Basti in proposito ricordare che lo scarto in termini di reddito pro-capite risulta, sulla base dei dati forniti dall’OECD (2013) per il 2009, di quasi 10 mila dollari a favore della popolazione che vive nei territori urbani (Fig. 1.1). Tale disparità riflette il ritardo nella crescita economica nel quale ancora versano i territori rurali europei, anche se tali aree non sono affatto omogenee per velocità di crescita e tipologie di sviluppo (Veneri e Ruiz, 2013). Non vi è dubbio che tra i fattori che più influiscono nella crescita e nel tipo di sviluppo economico vi sia la prossimità delle aree rurali con quelle urbane e metropolitane, in virtù della possibilità che le prime possano beneficiare della maggiore capacità delle aree

4 Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio (DipNeT) Università degli Studi di Sassari. Il presente lavoro rappresenta una sintesi del contributo, curato dagli stessi autori, dal titolo: Duali-smo rurale-urbano e ruolo del capitale umano in Sardegna, inserito come capitolo nel volume: Idda L. e Pulina P. (a cura di), Impresa agricola, capitale umano e mercato del lavoro, Milano, Franco Angeli, 2011.

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urbane nell’attrarre capitali e persone (Brezzi et al., 2011). Riguardo a quest ulti-mo aspetto, si fa presente che la popolazione nei territori rurali è cresciuta negli ultimi anni ad un tasso inferiore rispetto a quello riscontrato dalla popolazione nelle aree urbane (OECD, 2013). Da tempo, oramai, si è fatta pressante l’esigenza di attenuare questo disequilibrio e favorire processi di sviluppo in grado di colma-re il gap economico, sociale e infrastrutturale tra acolma-ree a diversa intensità demo-grafica, abitativa e produttiva, pur nella consapevolezza che tale processo debba avvenire entro i binari della salvaguardia e della valorizzazione delle peculiarità tipiche del mondo rurale e delle singole comunità locali (Falck, 1996). Presupposto essenziale affinché si possano promuovere adeguate misure di politica economica e innescare efficaci processi di sviluppo rurale è la conoscenza delle determinanti che stanno alla base delle disparità di crescita tra aree urbane e rurali. Plurimi e variegati per tipologia sono i fattori ai quali la letteratura economica ascrive un ruolo cruciale nel condizionare la crescita economica o, più in generale, lo sviluppo di un territorio e tra questi una posizione di preminenza è senz’altro riconosciuta al capitale umano (Ecosoc, 2001).

Figura 1.1 - Reddito pro-capite per tipologia territoriale – UE-27 (US $ a prezzi costanti al 2005)

Fonte: ns. elaborazioni di dati OECD (2013) 20.000 22.500 25.000 27.500 30.000 32.500 35.000 37.500 2000 2001 2005 2006 2009

Aree urbane Aree intermedie Aree rurali

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Secondo i più, l’accumulazione di conoscenze – non solo attraverso la di-mensione più peculiare del capitale umano che è l’educazione formale – è un fat-tore esplicativo della produttività del lavoro e, nel contempo, produce numerose esternalità positive (Schultz, 1963; Becker, 1964; Lucas, 1988).

Riguardo il primo aspetto e con una prospettiva di osservazione limitata alle dinamiche intra e inter-imprenditoriali, la presenza di lavoratori più formati professionalmente e di imprenditori più preparati sotto il profilo tecnico ed or-ganizzativo consente di ovviare con più facilità al limite fisiologico dei rendimenti decrescenti derivanti dall’accumulazione del capitale fisico. Inoltre – a parità di al-tre condizioni – maggiori competenze si riflettono in salari più remunerativi e più ampie capacità creative e di accesso alla tecnologia e all’innovazione. Per quanto attiene invece al secondo aspetto, al crescere del livello del capitale umano au-mentano le possibilità di trasferire conoscenze nella popolazione che gravita nel territorio di riferimento e di creare un ambiente dinamico, virtuoso e favorevole all’accumulazione delle conoscenze.

Ne consegue che il capitale umano funge, nelle imprese, da leva per au-mentare la produttività e instaurare rendimenti crescenti e, nella società, da sti-molo per uno sviluppo economico e sociale duraturo nel tempo.

Sulla scorta di queste considerazioni, la presente nota si pone l’obiettivo di individuare le principali cause alla base delle differenze nello sviluppo economico tra aree rurali e urbane in Sardegna e il ruolo giocato dal capitale umano nel con-dizionare i processi di crescita nelle due aree.

L’interesse verso la Sardegna si spiega con il fatto che questa regione non fa eccezione dal contesto generale, ma allo stesso tempo presenta peculiarità assai spiccate – prime tra tutte la presenza di pochissimi poli urbani e un territorio in larga parte scarsamente popolato – che hanno contribuito nel corso del tempo a che le emergenze nelle aree rurali siano più acuite rispetto a quanto mediamente si rinviene nelle altre realtà europee. Tra queste, la scarsa dotazione infrastrut-turale delle aree interne e, a causa della poca diffusione di poli urbani, la scarsa capacità delle aree rurali di beneficiare degli effetti economici e demografici deri-vanti dallo sviluppo cittadino. Sul piano demografico, per esempio, basti pensare che in soli quarant’anni, dal 1961 al 2001, la percentuale di residenti nei comuni con oltre 10 mila abitanti – non tutti ovviamente assimilabili a vere e proprie aree urbane, ma invero poco numerosi nell’isola – è aumentata da poco più del 38% ad oltre il 52% (ISTAT, 1966; ISTAT, 2006).

Sotto il profilo economico e sociale, i dati più preoccupanti concernono il reddito pro-capite, che seppur sia piuttosto basso nel suo complesso, mostra un

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differenziale, in media, di quasi 4mila euro tra aree urbane e rurali (MEF, 2013) e la presenza di un divario piuttosto marcato in termini di stock di capitale umano, in quanto gli abitanti dei comuni rurali si caratterizzano per un livello medio di istruzione più basso rispetto a coloro che risiedono nei comuni urbani (Istat, 2013). Pertanto, lo studio costituisce un tentativo di approfondire la natura e l’enti-tà della relazione tra capitale umano – considerato con esclusivo riferimento alla componente educativo-formativa – e sviluppo economico – misurato attraverso un unico indicatore, vale a dire il reddito pro-capite, distintamente nei comuni urbani ed in quelli rurali. A tal fine, si è scelto di impiegare un modello econometrico interpretativo riconducibile alla proposta metodologica di Mincer (1974) e assai utilizzato in letteratura. I risultati consentono di esprimere una valutazione riguar-do al ruolo detenuto dal capitale umano nello spiegare le differenze di sviluppo economico tra le due tipologie territoriali in Sardegna e la sua importanza rispetto ad altri fattori ritenuti esplicativi della crescita reddituale.

1.2 Divari di sviluppo tra aree rurali e urbane

Come accade in tutte le aree interessate da un avanzato grado di sviluppo, anche in Sardegna i territori rurali si sono storicamente rivelati meno pronti e ca-paci di quelli urbani nel cogliere le opportunità di progresso economico. I fattori che possono spiegare questa diversa sensibilità sono molteplici. Ad esempio, non sono ininfluenti le minori dotazioni infrastrutturali di cui sono normalmente prov-viste le campagne rispetto alle zone urbanizzate e, dunque, i mancati benefici di cui le infrastrutture sono portatrici, sia in termini strettamente economici (aumen-to della produttività dei fat(aumen-tori, accesso alle nuove tecnologie ecc.) che con riguar-do al miglioramento delle condizioni sociali della collettività (Ahmed e Donovan, 1992). Rilevanti sono alche le differenze che sussistono tra aree rurali e urbane in ordine alla propensione all’imprenditorialità dei loro residenti, che si mostra soli-tamente più accentuata nelle città (Kulawczuk, 1988). Di grande peso è poi il ruolo del capitale sociale, anche se, da questo punto di vista, può accadere che le aree urbane si rivelino meno attrezzate delle campagne (Debertin, 1996).

Uno dei fattori che più di altri recita un ruolo determinante nel favorire lo sviluppo economico è poi rappresentato dal capitale umano (Lucas, 1993) e, in par-ticolare, dalla componente di questo costituita dall’istruzione scolastica. Ad essa infatti si devono gran parte delle conoscenze, competenze e metodologie cui le persone ricorrono per la risoluzione dei problemi (Becker, 1964; Shultz, 1963;

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Bi-shop, 1989) e per migliorare la loro posizione economica, tanto da potersi affer-mare l’esistenza una relazione strettissima tra livello di formazione scolastica e reddito dei cittadini (Sianesi e Van Reenen, 2002).

Gli effetti positivi prodotti dall’istruzione riguardano tanto i singoli indivi-dui che il complesso della società. Una maggiore istruzione consente un migliore apprendimento dei processi produttivi, una maggiore predisposizione alla risolu-zione dei problemi e un più facile accesso alle nuove tecnologie, tutti aspetti, que-sti, che accrescono la produttività e la remunerazione del lavoro. Una più elevata istruzione genera altresì numerose e significative esternalità positive. I lavoratori più istruiti possono, ad esempio, stimolare i colleghi meno dotati a raggiungere gradi superiori di efficienza, così come concorrono ad innalzare il livello tecno-logico della loro impresa attraverso una più intensa propensione al confronto di idee e l’apertura verso nuove tecnologie; né va trascurata la maggiore attitudine degli imprenditori ad innovare qualora dispongano di dipendenti adeguatamente preparati a valorizzare le nuove tecniche. Sul piano sociale, invece, un’istruzione superiore aumenta l’attenzione alla qualità dell’ambiente e della salute, rende la società più sicura, rafforza il senso di partecipazione degli individui alla vita comu-ne e consolida il grado di coesiocomu-ne.

La possibilità di conseguire questi vantaggi è alla base della scelta indivi-duale di accrescere il proprio livello di istruzione sopportando i sacrifici che ciò comporta in termini di mancati redditi e benefici immediati. La prospettiva di go-dere delle esternalità collegate all’istruzione spiega altresì il supporto con cui i governi finanziano la creazione e il funzionamento delle istituzioni scolastiche ed universitarie.

Nel caso specifico degli investimenti in istruzione nelle aree rurali occorre tuttavia non sottacere alcuni aspetti contraddittori. I singoli cittadini, infatti, sono dissuasi dall’investire in istruzione perché nelle zone rurali i relativi rendimenti (redditi futuri) sono relativamente bassi; d’altra parte, i rendimenti sono bassi per-ché le carenze formative della popolazione deprimono l’insediamento di attività più remunerative (Goetz e Rupasingha, 2004). Le autorità pubbliche, a loro volta, non potenziano, come dovrebbero, l’impegno per accrescere il livello di istruzione nelle aree rurali perché scoraggiate dal fatto che, molto probabilmente, le persone ivi formatesi abbandoneranno successivamente il territorio di origine per lavorare o completare gli studi altrove. Il pericolo che si abbia un elevato “brain drain” e che perciò la collettività possa subire il duplice danno dovuto alla sottrazione di capi-tale umano e alla perdita delle risorse impiegate nella sua accumulazione – dei cui benefici si avvantaggeranno le aree di immigrazione – può dunque indurre ad

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un minore impegno pubblico in tema di potenziamento dell’istruzione nelle zone rurali. D’altra parte, il rischio che su questo fronte si inneschi un pericoloso di-simpegno è accentuato dal fatto che i decisori politici non sempre dispongono di ampi e corretti riscontri oggettivi riguardo al ruolo che il capitale umano può reci-tare nella crescita economica di un territorio. Ciò vale in modo particolare per la Sardegna, dove queste tematiche non risulta siano state, fino a questo momento, specificamente approfondite.

1.3 Classificazione delle aree rurali in Sardegna

L’individuazione e la classificazione delle aree secondo la direttrice urbano-rurale è per sua natura operazione complessa, dal momento che manca una defi-nizione univoca di spazio urbano e spazio rurale e che il carattere rurale o urbano di un territorio difficilmente può prescindere dalle specificità stesse del contesto di riferimento e dalla scala territoriale adottata. A tal riguardo, diverse ed etero-genee sono le metodologie di classificazione proposte, a loro volta ancorate a ben specifici paradigmi concettuali. Per un approfondimento sulle questioni di ordine definitorio, concettuale e metodologico circa l’individuazione delle aree rurali in Italia si rimanda, per ragioni di spazio, alla vasta e articolata letteratura specia-lizzata (Somogyi, 1959; Merlo e Zuccherini, 1992; Brunori, 1994; Saraceno, 1994; Franceschetti, 1995; Blanc, 1997; Storti, 2000; Basile e Cecchi, 2001; Esposti e Sotte, 2002; Angeli et al., 2002; Franco et al., 2004, Anania e Tenuta, 2008).

Tra le classificazioni ad ampia scala territoriale e diffusa applicazione è bene però ricordare quelle proposte dall’OECD (2006) e dal Mipaf (2007), quest’ultima all’interno del Piano Strategico Nazionale (PSN) per l’attuale corso di programma-zione (2007-2013). Entrambe hanno individuato le aree rurali in Sardegna, pur con criteri e parametri di classificazione tra loro differenti. Ambedue, comunque, addi-vengono all’individuazione di un territorio interamente o quasi interamente rurale nella regione oggetto d’indagine. Nella fattispecie, l’OECD (2006), – sulla base dei due parametri di classificazione adottati, vale a dire la densità demografica e pre-senza di insediamenti urbani, – classifica l’intero territorio sardo come “prevalen-temente rurale”, mentre il Mipaaf (2007) – il quale introduce tra i parametri anche l’altimetria e l’incidenza della superficie agricola su quella complessiva – individua solo il 2% della superficie regionale come “urbana”, mentre il resto è da conside-rarsi rurale, pur a diverso grado di intensità.

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che la Sardegna sia da considerare territorio rurale pressoché per la sua interez-za. La regione Sardegna si estende su una superficie superiore ai 25mila Km2 e conta una popolazione di un milione e 675 mila abitanti (ISTAT, 2011). La densità abitativa è pertanto pari a circa 70 ab/Km2, dato che colloca l’isola al terz’ultimo posto in Italia dopo la Val d’Aosta (39 ab/Km2) e la Basilicata (59 ab/Km2). Viep-più, se si guarda alla distribuzione della popolazione sul territorio, si constata che circa il 22% dei residenti (circa 400mila abitanti) si concentra nell’area metropoli-tana che gravita su Cagliari; area che nel suo insieme assomma solamente il 2% dell’intera superficie regionale (è la medesima area classificata come “polo urba-no” dal Mipaaf, 2007). Ne consegue che, al netto di questa porzione di territorio, la densità abitativa si riduce a soli 55 ab/Km2, il ché è già di per sé indicativo di una diffusa ruralità, così come lo è il fatto che l’agricoltura occupa una vasta superficie nell’isola.

Tuttavia, si è dell’opinione che la realtà sia più complessa di quanto appaia sul piano macroscopico e che ambedue le classificazioni illustrate non colgano appieno l’eterogeneità del territorio sardo. Gli indicatori proposti non spiegano, infatti, in misura adeguata le differenze significative che si riscontrano nel ter-ritorio isolano sul piano economico, produttivo e sociale. La soglia relativa alla densità abitativa (150 ab/Km2) pare indicata per un utilizzo su vasta scala territo-riale e poco pertinente a classificare territori quale quello sardo caratterizzati da scarsa densità, ma nei quali si rilevano disparità profonde tra aree sotto il profilo economico, abitativo e sociale e dello stock di capitale umano. Relativamente al parametro costituito dalla superficie agricola e considerato il carattere prevalen-temente estensivo dell’agricoltura sarda, inoltre, l’impiego a fini classificatori apre al rischio di sopravalutare la reale importanza economica e sociale del settore nel territorio.

Tenuto conto di questi limiti e dell’obiettivo del lavoro, si è scelto di classifi-care il territorio regionale secondo i parametri della densità demografica e dell’in-cidenza degli occupati agricoli sugli occupati totali (parametro che in Sardegna esprime meglio il senso della “rilevanza agricola” rispetto al dato della superficie). L’unità di indagine adottata è il comune, opzione peraltro assai diffusa sia nella letteratura nazionale che in quella internazionale. Si è consapevoli che i due pa-rametri selezionati non riassumono la complessità intrinseca alla definizione di ruralità. Pur tuttavia, essi riprendono i principali criteri seguiti sul tema (densità demografica e peso dell’agricoltura).

Al fine di evidenziare l’eterogeneità su scala regionale e di poter disporre di una raffigurazione del territorio sufficientemente articolata (quattro categorie)

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e con una base di Comuni rurali e non rurali ben rappresentata, per ambedue i parametri si è scelta una soglia discriminatoria pari al valore mediano. Si tratta, pertanto, di una classificazione che non si basa su parametri e valori “assoluti”, bensì su criteri di riferimento “relativi” che sono costruiti a partire dalle caratteri-stiche specifiche della Sardegna e tengono conto esclusivamente delle differenze intra-regionali.

La Tabella 1.1 riporta i valori soglia dei due parametri, le quattro categorie di classificazione individuate e il numero di Comuni classificati per ogni categoria (su un totale di 377 Comuni in cui è suddivisa amministrativamente la Sardegna). Tab. 1.1 - Distribuzione dei Comuni della Sardegna per grado di ruralità.

Categoria n. %

Comuni urbani 136 36,1 Comuni profondamente rurali 134 35,5 Comuni rurali (alto livello di occupazione agricola) 55 14,6 Comuni rurali (bassa densità demografica) 52 13,8

TOTALE 377 100,0

Fonte: ns. elaborazioni

L’incidenza dei Comuni “urbani” e di quelli “profondamente rurali” è pres-soché la medesima (circa il 36%), mentre la restante quota è distribuita in maniera quasi omogenea tra i Comuni nei quali una sola delle dimensioni è da ritenersi “rurale”, vale a dire la densità abitativa (14% circa) o il peso degli occupati agricoli sugli occupati totali (14,6%). Riguardo a queste due ultime categorie, si tratta di Comuni che possiamo considerare “rurali intermedi”. Pertanto, i Comuni “rurali” nel loro insieme ammontano a circa il 64% dell’intera costellazione di Comuni del-la Sardegna (241 comuni rurali e 136 urbani).

1.4 Il modello di analisi

Gli effetti del capitale umano sullo sviluppo dei territori regionali sono sta-ti valutasta-ti inquadrandoli nel contesto teorico proposto da Mincer (1974), il quale prevede che la funzione di guadagno degli individui sia collegata al loro grado di istruzione, sia nella sua espressione formale rappresentata dallo stock di cono-scenze costituito lungo un determinato percorso scolastico (education), sia nella

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sua componente informale rappresentata dall’insieme di saperi, competenze e abilità correlati all’esperienza lavorativa (experience).

La funzione di guadagno è costruita regredendo, a livello di comune, il red-dito pro-capite del 2008 rispetto ad un set di variabili includente indicatori relativi sia al capitale umano che ad altri aspetti di tipo demografico, economico e sociale. Le variabili indipendenti sono riferite ad epoche antecedenti a quella del reddito pro-capite onde evitare fenomeni di endogeneità statistica dei regressori e riflet-tere al meglio l’idea che il processo di accumulazione di conoscenze produca, al pari di qualunque altro investimento, i propri rendimenti (incrementi di reddito) in modo non immediato ma procrastinato nel tempo.

La forma funzionale del modello è la seguente: 1.4 Il modello di analisi

Gli effetti del capitale umano sullo sviluppo dei territori regionali sono stati valutati inquadrandoli nel contesto teorico proposto da Mincer (1974), il quale prevede che la funzione di guadagno degli individui sia collegata al loro grado di istruzione, sia nella sua espressione formale rappresentata dallo stock di conoscenze costituito lungo un determinato percorso scolastico (education), sia nella sua componente informale rappresentata dall’insieme di saperi, competenze e abilità correlati all’esperienza lavorativa (experience).

La funzione di guadagno è costruita regredendo, a livello di comune, il reddito pro-capite del 2008 rispetto ad un set di variabili includente indicatori relativi sia al capitale umano che ad altri aspetti di tipo demografico, economico e sociale. Le variabili indipendenti sono riferite ad epoche antecedenti a quella del reddito pro-capite onde evitare fenomeni di endogeneità statistica dei regressori e riflettere al meglio l'idea che il processo di accumulazione di conoscenze produca, al pari di qualunque altro investimento, i propri rendimenti (incrementi di reddito) in modo non immediato ma procrastinato nel tempo.

La forma funzionale del modello è la seguente:

i = 1, 2….N

dove Yi rappresenta la variabile dipendente per l’i-esima osservazione (comune), xi rappresenta il

vettore (1 per K) delle variabili indipendenti, ß è il vettore (1 per K) dei parametri associati a ciascuna variabile indipendente ed ei costituisce il termine di errore della funzione.

In tabella 1.2 sono riportate le variabili impiegate nel modello e alcune statistiche descrittive suddivise per le due popolazioni di Comuni a cui esso è stato applicato.

La variabile dipendente (Yi) è rappresentata dal “reddito medio pro-capite” comunale relativo

all'anno 2008. Il reddito è quello che scaturisce dalle dichiarazioni effettuate ai fini dell’applicazione dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (Irpef) ed è tratto dal sito Comuni-italiani.it (2011) che elabora tale dato sulla base di valori forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

dove Yi rappresenta la variabile dipendente per l’i-esima osservazione (co-mune), Xi rappresenta il vettore (1 per K) delle variabili indipendenti, ß è il vettore (1 per K) dei parametri associati a ciascuna variabile indipendente ed ei costituisce il termine di errore della funzione.

In tabella 1.2 sono riportate le variabili impiegate nel modello e alcune sta-tistiche descrittive suddivise per le due popolazioni di Comuni a cui esso è stato applicato.

La variabile dipendente (Yi) è rappresentata dal “reddito medio pro-capite” comunale relativo all’anno 2008. Il reddito è quello che scaturisce dalle dichiara-zioni effettuate ai fini dell’applicazione dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fi-siche (Irpef) ed è tratto dal sito Comuni-italiani.it (2011) che elabora tale dato sulla base di valori forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Lo stock di conoscenze acquisite tramite l’istruzione è espresso attraverso la quantità di cittadini di età superiore ad anni 19 provvisti di un diploma di scuola secondaria di secondo grado (X1). Il dato è desunto dal Censimento della popola-zione residente e delle abitazioni (ISTAT, 2006) e risulta riferito all’anno 2001. Per cercare di tener conto anche della “qualità” dell’istruzione, il modello prevede l’im-piego delle variabili “dimensioni medie delle classi” (X2) e “dispersione scolastica” (X3), entrambe riferite al 2001 e desunte dal quattordicesimo Censimento della popolazione (ISTAT, 2006). La componente informale dell’istruzione (experience) è rappresentata nel modello attraverso una variabile proxy costituita dalla “età degli individui”, che nel nostro caso è espressa come età media comunale riferita al 2002 (ISTAT, 2011) espressa sia in forma lineare (X4) che in quella quadratica (X5).

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Tab.1.2 - Statistiche descrittive per le variabili del modello econometrico

Variabile Comuni rurali Comuni urbani Media c.v. Media c.v. Reddito pro-capite (€/residente) Y 6.672 0,178 7.954 0.202 Incidenza diplomati (19-52 anni) (%) X1 18,9 0,242 24,3 0,283 N. alunni / classi scuola primaria X2 11,4 0,499 15,5 0,320 Abbandono scolastico (%) X3 13,1 0,323 12,8 0,269 Età media della popolazione X4 42,8 0,067 40,0 0,058 Età media della popolazione 2 X5 1.839 0,137 1.608 0,019 Densità abitativa (ab/Km2) X6 34,0 0,812 150,4 2,216 Occupati agricoli / occupati totali (%) X7 19,1 0,397 8,1 0,500 Tasso di attività lavorativa (%) X8 41,4 0,124 45,6 0,101 Tasso disoccupazione (%) X9 21,7 0,311 22,6 0,237 Addetti pubblico / addetti privato (%) X10 14,6 0,832 8,8 0,924 Indice spostamento quotidiano (%) X11 36,0 0,140 41,0 0,124 SLL rurale X12 - - - -SLL disoccupazione X13 +5,8 4,720 -7,9 2,815

Fonte: n.s. elaborazioni su dati ISTAT (2006; 2007; 2009) e www. Comuni-italiani.it (2011)

Tra le variabili non riferite al capitale umano si sono considerate la “densi-tà demografica” (X6), la “incidenza degli occupati agricoli” (X7) e alcuni indicatori legati al mercato del lavoro. Con riferimento a questi ultimi si è ipotizzato che la funzione di guadagno sia spiegata dal “tasso di attività lavorativa” (X8), dal “tasso di disoccupazione” (X9) e dal “peso degli addetti nell’amministrazione pubblica” (X10) rispetto al totale. Per i primi due, ci si aspetta di rilevare un effetto positivo del tasso di attività lavorativa e una relazione inversa tra tasso di disoccupazione e reddito; relativamente al terzo fattore, invece, la scelta di introdurre una variabile indipendente che riflette l’incidenza del lavoro pubblico trova riscontro in altri studi che hanno valutato il ruolo del capitale umano nelle aree rurali (Goetz e Rupasing-ha, 2004). A causa di differenze salariali tra chi è impiegato nel settore pubblico e chi in quello privato, del fatto che spesso l’amministrazione pubblica è concentrata nei centri principali, del ruolo che talvolta ha il settore pubblico nel generare un indotto economico anche nel settore privato, è possibile che tale variabile riesca a spiegare eventuali differenze di reddito tra territori diversi e, nella fattispecie, tra aree rurali e urbane. Anche le tre variabili connesse con il lavoro sono state rica-vate dai dati riportati nel quattordicesimo Censimento della popolazione (ISTAT, 2006), per cui sono da riferire all’anno 2001.

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Un fattore che condiziona i redditi di una comunità è il grado di apertura della stessa nei confronti del territorio. Sempre attingendo alla base informativa censuaria (ISTAT, 2006), è stata inserita una variabile che indica la percentuale di “persone che quotidianamente si spostano dal comune di residenza per motivi di lavoro e/o di studio” (X11).

Infine, si è tenuto in considerazione l’ambiente in cui ciascun comune gravi-ta, e in particolare la dinamicità dell’intero territorio rispetto al mercato del lavoro e la prossimità a centri abitati di maggiori dimensioni e capaci di fungere da polo di attrazione per i comuni più piccoli e svantaggiati. A tal fine ci si è riferiti al Sistema Locale del lavoro (SLL) prevedendo due variabili: l’appartenenza di un comune ad un “SLL rurale” (X12) e la “dinamica del tasso di disoccupazione del SLL” (X13) di ri-ferimento. La prima è una variabile dummy che assume valore pari ad uno nel caso in cui il comune osservato insista su un SLL dove il centro abitato più importante (in termini di abitanti) è un comune urbano ed è invece pari a zero nel caso in cui è rurale. La seconda variabile esprime il tasso di disoccupazione su un periodo di quattro anni (dal 2004 al 2008) – calcolato sulla base dei dati forniti da ISTAT (2007; 2009) – ed è, come detto, riferita anch’essa al SLL.

1.5 Risultati e discussione

Il modello è stato applicato separatamente al gruppo dei Comuni rurali e a quello dei Comuni urbani. Le elaborazioni sono state effettuate avvalendosi del software statistico SPSS 12.0.

I risultati evidenziano per entrambi i gruppi di comuni una forte correlazione tra le due variabili riferite all’esperienza (“Età media dei residenti” ed “Età2”) e un

elevato livello di multicollinearità. Per questo motivo il modello è stato rivaluta-to impiegando la sola variabile “Età media”. I risultati (coefficienti standardizzati) sono riportati nelle tabelle 1.3 e 1.4.

L’adattamento del modello di regressione ai dati risulta significativo in am-bedue i gruppi, con capacità di adattamento superiore nei Comuni urbani (R2

cor-retto = 0,660 vs R2 corretto = 0,402 nei Comuni rurali). E’ evidente che il modello

trascura alcuni fattori esplicativi i differenti valori di reddito, quali, ad esempio, quelli attinenti al capitale sociale, anche se deve aggiungersi che l’R2 corretto

sti-mato non differisce granché da quello rilevato in altre ricerche sul tema (Goetz e Rupasingha, 2004).

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di-plomati” e “tasso di abbandono della scuola dell’obbligo” – risultano significati-ve in entrambi i gruppi di Comuni, mentre non è tale la “dimensione media delle classi”. Il segno della prima variabile è positivo e il valore del coefficiente piuttosto elevato (rispettivamente 0,399 e 0,432 per i Comuni rurali ed urbani). Anzi, in en-trambi i tipi di territorio il peso dei diplomati risulta il fattore che maggiormente incide sulle differenze di reddito tra i Comuni, con una prevalenza apprezzabil-mente maggiore nei territori urbani rispetto a quelli rurali. Si tratta di un’infor-mazione certamente importante, che suggerisce un ruolo centrale dell’istruzione nel favorire lo sviluppo economico. Al di là del valore assoluto riportato da questo parametro, se si guarda al rapporto tra esso e gli altri parametri associati alle va-riabili significative, si nota che tale rilevanza appare più marcata nei Comuni rurali. In altri termini, i risultati stimati indicano che il ruolo esercitato dall’istruzione nel condizionare lo sviluppo delle Comunità locali è relativamente più importante nei territori rurali.

Tab. 1.3 - Risultati del modello econometrico – comuni rurali

Variabile Coefficiente st. t Sign. (p)

Costante α - -2,051 0,048 *** Incidenza diplomati ß 1 0,399 6,287 0,000 *** Abbandono scolastico ß 2 -0,263 -3,529 0,148 * N. alunni / classi ß 3 0,016 0,238 0,812 Età media ß 4 0,177 1,914 0,057 ** Età media 2 ß 5 - - -Densità abitativa ß 6 -0,150 -2,838 0,005 *** % Occupati agricoli ß 7 -0,226 -4,228 0,000 *** Tasso di attività ß 8 0,107 1,271 0,205 Tasso disoccupazione ß 9 -0,115 -1,715 0,088 ** % Addetti pubblico ß 10 0,038 0,579 0,563 Indice spostamento ß 11 0,310 3,183 0,002 *** SLL rurale ß 12 -0,019 -0,376 0,708 SLL disoccupazione ß 13 -0,061 -1,114 0,267 R2 0,432 R2 corretto 0,402 Variazione di F (sign.) 0,000 N. osservazioni = 241

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La variabile “tasso di abbandono scolastico”, mostra invece un segno nega-tivo in ambedue i gruppi, a dimostrare un effetto depressivo dell’abbandono scola-stico sui redditi percepiti dalla popolazione.

L’altra variabile relativa alla dotazione di capitale umano, la “età media dei residenti”, appare significativa esclusivamente nei comuni rurali. Il segno positivo (0,177) indica che il reddito pro-capite in questi comuni tende a crescere all’au-mentare dell’età dei residenti. Si può dedurre, quindi, che l’esperienza costituisce un fattore di sviluppo nelle comunità rurali, anche se – dato che il modello ha escluso la variabile “Età2” – non si è in grado di verificare se questo fattore

mani-festi un effetto negativo dopo una certa età.

Riguardo agli altri regressori del modello si nota che la “densità abitativa” e la “incidenza degli occupati in agricoltura” mostrano valori significativi in entram-bi i gruppi. Il valore del coefficiente suggerisce che nei territori rurali la densità demografica, quando è relativamente alta, si ripercuote negativamente sulle ca-pacità del territorio di generare reddito. Questo potrebbe spiegarsi considerando proprio l’indicatore scelto per misurare la ricchezza locale. Il reddito pro-capite nelle aree economicamente svantaggiate e destinatarie di sostanziosi contributi pubblici finalizzati a colmare il ritardo di sviluppo, tende sovente a crescere con la diminuzione della densità, poiché l’effetto di tali contributi si distribuisce su un numero relativamente esiguo di persone. Il livello di presenza dell’agricoltura, non evidenzia, come detto, un effetto favorevole sui redditi, ma anzi sussiste una rela-zione inversa tra l’incidenza degli occupati in agricoltura in un dato anno e i redditi dichiarati dalla popolazione dopo oltre un lustro. Se da un lato, questo risultato può essere atteso – in quanto nelle economie sviluppate il peso economico dell’a-gricoltura sta progressivamente decrescendo – dall’altro, non vi è dubbio che que-sta informazione muova ad una più ampia riflessione circa il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo economico delle aree rurali. Infatti, se si riconosce che l’agricoltura è una componente costitutiva delle zone rurali ne deriva che lo sviluppo di queste risulterebbe in parte compromesso o limitato proprio dal ruolo detenuto dal setto-re primario. Si tratta ovviamente di un’evidenza empirica che necessita di essesetto-re corroborata da altri studi, ma che, almeno con riferimento alla Sardegna, può for-nire un’informazione utile per i policy makers.

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Tab. 1.4 - Risultati del modello econometrico – comuni urbani

Variabile Coefficiente st. t Sign. (p)

Costante α - 1,785 0,095 ** Incidenza diplomati ß 1 0,432 5,021 0,000 *** Abbandono scolastico ß 2 -0,455 -2,478 0,015 *** N. alunni / classi ß 3 0,075 1,100 0,274 Età media ß 4 0,079 0,942 0,348 Età media 2 ß 5 - - -Densità abitativa ß 6 0,096 1,658 0,100 ** % Occupati agricoli ß 7 -0,206 -3,127 0,002 *** Tasso di attività ß 8 0,430 4,008 0,000 *** Tasso disoccupazione ß 9 -0,215 -2,782 0,006 *** % Addetti pubblico ß 10 0,050 0,846 0,846 Indice spostamento ß 11 -0,186 -1,490 0,139 * SLL rurale ß 12 -0,043 -0,787 0,433 SLL disoccupazione ß 13 0,030 0,572 0,568 R2 0,691 R2 corretto 0,660 Variazione di F (sign.) 0,000 N. osservazioni = 136

*** significatività per α = 5% ** significatività per α = 10% * significatività per α = 15 %

Relativamente alle variabili esplicative dell’occupazione, il “peso degli occu-pati nel settore pubblico” non risulta significativo in ambedue i gruppi, al contrario di quanto riscontrato per il “tasso di disoccupazione”, mentre il “tasso di attività” mostra significatività statistica solo nei comuni urbani, dove si rivela addirittura il secondo fattore in ordine di magnitudo (0,430). Per quanto riguarda nello specifico il tasso di disoccupazione, esso contribuisce negativamente sia nei comuni rurali (-0,115) che in quelli urbani (-0,215) alla determinazione del reddito pro-capite negli anni successivi alla rilevazione del dato.

Per concludere, le variabili riferite ai SLL non si rivelano significativamente esplicative dei redditi in ambedue le popolazioni; lo è invece – seppur con segno contrastante – la variabile “indice di spostamento quotidiano” della popolazione in altri comuni. In particolare, nei comuni rurali il segno e la magnitudo stimati per questo indicatore (0,310) mostrano come il cosiddetto “pendolarismo” eserciti un’influenza decisamente favorevole sui redditi della popolazione, e ciò

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probabil-mente a causa dell’innescarsi di un circolo virtuoso di relazioni economiche e so-ciali inter-comunali.

1.6 Misure per il potenziamento del capitale umano

I risultati ricavati dal presente studio permettono di affermare che il gap di capitale umano che separa le aree rurali da quelle urbane ha un ruolo determi-nante nel produrre il differenziale di reddito tra l’uno e l’altro tipo di territorio. Il ripianamento di questo differenziale non può dunque prescindere da interventi che accrescano la dotazione di capitale umano. Tradizionalmente, questi interventi mirano a potenziare l’offerta di conoscenza ed il sistema, in primis quello scolasti-co, che presiede alla sua formazione. Alle azioni sul fronte dell’offerta di capitale umano devono essere tuttavia affiancate quelle sul lato della domanda (Franzini e Raitano, 2005), al fine di interrompere quella sorta di circolo vizioso che vede, da un lato, gli individui scegliere bassi standard educativi laddove manca un siste-ma produttivo capace di valorizzare il fattore conoscenza e, dall’altro, le imprese human-capital-intensive desistere dall’investire in territori contrassegnati da un modesto livello formativo.

Con riferimento alla Sardegna le iniziative sul fronte della domanda di capi-tale umano sono rese particolarmente complesse dal fatto che il tessuto produtti-vo è formato da imprese piuttosto piccole che, in quanto tali, non sempre mostra-no un’adeguata propensione ad inmostra-novare e ad utilizzare competenze qualificate. A questo si aggiunga che tali imprese sono per lo più di tipo familiare, per cui mancano o scarseggiano figure manageriali e tecniche formate. Non si deve infine dimenticare che le imprese sarde sovente operano in settori maturi e a basso tas-so di innovazione tecnologica (Barca, 1999; Cipollone e Visco, 2007).

Precisate queste difficoltà di fondo, si possono comunque individuare alcuni obiettivi verso cui indirizzare le misure a favore della domanda di capitale umano.

Il primo tra questi consiste nel favorire la formazione di imprese ad alto con-tenuto di capitale umano attraverso appropriati sistemi di accountability (Federici e Ferrante, 2006). I programmi comunitari di sviluppo rurale, ad esempio, dovreb-bero sostenere con più forza le imprese capaci di dimostrare oggettivamente il possesso di un elevato patrimonio formativo in capo al proprio management e al proprio personale.

Un secondo piano di intervento dovrebbe riguardare il potenziamento delle dimensioni aziendali, quale pre-condizione per accrescerne l’inclinazione ad

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inve-stire in tecnologia e conoscenza. Un’attenta politica di incentivi fiscali e di agevo-lazioni creditizie, unitamente alla predisposizione di strumenti finanziari creati ad hoc possono costituire utili strumenti per raggiungere il suddetto scopo.

Altro aspetto sul quale è richiesta una azione incisiva riguarda la necessità di creare condizioni di maggior concorrenza economica nella aree rurali e, con essa, una più forte spinta all’innovazione. A tale proposito appare indubbio che ogni forma di sostegno all’agricoltura che risulti, come in passato, sostanzialmen-te indipendensostanzialmen-te dagli andamenti di mercato finisca per deprimere la propensione delle imprese ad investire per accrescere la propria competitività, mentre sono da auspicare forme di sussidio che puntino a coniugare l’esercizio delle funzioni so-ciali assolte dall’agricoltura (tutela ambientale, gestione del paesaggio, sviluppo delle aree rurali ecc.) con il confronto sul mercato, che continua ad avere un ruolo preminente nell’incentivare le imprese ad investire. Analoghe considerazioni pos-sono farsi riguardo all’abbattimento delle barriere all’entrata di nuove aziende in tutti i settori attivi nei territori rurali, al deciso contrasto ad ogni tipo di accordo collusivo tra imprese finalizzato a conferire loro un ingiustificato potere contrat-tuale nei confronti di acquirenti e venditori, alla drastica semplificazione di ordine amministrativo e burocratico, tutti obiettivi che, se raggiunti, potrebbero far cre-scere la concorrenza e, con questa, l’investimento in conoscenza.

Non andrebbero inoltre trascurate misure – rientranti prevalentemente nella sfera della politica fiscale – volte ad incentivare gli investimenti delle imprese nel campo della ricerca e in quello della formazione delle risorse umane. Dal pri-mo punto di vista, non si può non rilevare l’inerzia che pri-mostrano le aziende attive nel mondo rurale quando chiamate a promuovere le innovazioni tecnologiche che potrebbero rendere più efficienti i loro processi produttivi o aiutarle a creare nuovi prodotti o anche a migliorare quelli già esistenti. Inerzia che si ritrova quando si esamina l’impegno in tema di formazione, manageriale e tecnica, che appare per lo più carente e prevaricato da un approccio al sapere incentrato soprattutto sul learning by doing se non addirittura su un diffuso empirismo.

Da ultimo si ritiene possano rivelarsi assai utili le azioni pubbliche volte a sensibilizzare le imprese verso la realizzazioni di prodotti contraddistinti da ele-vata qualità e buona specificità, alle quali sono inevitabilmente sottesi processi produttivi improntati su risorse umane ben qualificate e orientati al miglioramento continuo del prodotto e delle conoscenze. Occorre impegnarsi affinché sia rimossa l’idea che la competitività possa guadagnarsi, almeno nei contesti in cui è inserita la Sardegna, facendo leva su un basso costo del lavoro (Franzini e Raitano, 2005). Viceversa serve operare a che le imprese comprendano che solo puntando su alti

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standard qualitativi delle produzioni e, dunque, sul rafforzamento degli asset in-tangibili costruiti su pacchetti di conoscenza e formazione di elevato livello e di aggiornamento continuo, è possibile raggiungere risultati soddisfacenti e duraturi.

In ordine ai possibili interventi sul versante dell’offerta di capitale umano non può non sottolinearsi il forte coinvolgimento che, rispetto ad essi, devono ave-re il sistema scolastico e universitario. D’altra parte, gli investimenti pubblici in formazione possono esser resi complicati dalle condizioni non favorevoli dell’isola. In specie nelle zone rurali, i costi unitari di questi investimenti possono crescere considerevolmente in relazione alla bassa densità abitativa, alla scarsa infrastrut-turazione e ad un certo isolamento geografico, con la conseguenza di rafforzare il rischio che gli stessi risultino economicamente e socialmente insostenibili.

In tale contesto, un primo obiettivo che dovrebbe darsi il decisore politico consiste nell’innalzare il grado di partecipazione della popolazione alla “forma-zione di base”. Al riguardo serve ricordare che la Sardegna presenta una situa-zione assai grave. Si pensi al riguardo che, al 2010, ben il 54,0% dei sardi con età compresa tra i 25 e i 64 anni è munito del solo titolo di scuola media secondaria inferiore, mentre in Italia il dato si ferma al 44,8% e nell’UE-27 scende addirit-tura al 27,3% (Eurostat, 2011). Lo scenario non muta in misura significativa se il confronto riguarda i cittadini – sempre nella medesima fascia di età compresa tra 25 e 64 anni – provvisti del diploma di scuola secondaria di secondo grado, che in Sardegna si rilevano essere il 33,6% del totale contro il 40,4% dell’Italia e il 46,8% dell’UE27 (Eurostat, 2011).

Le politiche di stampo strettamente formativo devono accompagnarsi ad interventi volti a migliorare l’ambiente familiare e le potenzialità di affermazione delle giovani generazioni in campo socio-educativo (Heckmann, 2000). Alcuni in-dicatori tradizionalmente utilizzati per rappresentare il livello di disagio familiare mostrano, per la Sardegna, una situazione non certo ottimale. Nel periodo 2003-2009, ad esempio, i nuclei familiari mono-genitore sono passati da 20 mila a 25 mila unità, mentre l’incidenza delle famiglie collocate sotto la soglia di povertà è cresciuta, tra il 2004 e il 2009, dal 15,4% al 21,4% del totale (ISTAT, 2010). Visto il ruolo cruciale che l’ambiente familiare recita nel determinare la quantità e la qualità di conoscenze acquisite dagli individui, in special modo quelle assunte nei primissimi anni della loro esistenza, è indispensabile che siano approntate ade-guate politiche di aiuto alle famiglie più in difficoltà sul piano economico, sociale e culturale (Cegolon, 2009). D’altra parte è dimostrato che le azioni a sostegno

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dell’apprendimento si rivelano tanto più efficaci quanto più sono precoci5 . È perciò

utile che le politiche formative siano particolarmente incisive proprio nelle prime fasi del percorso scolastico, posto che nessun intervento di recupero attuato negli anni successivi potrà eguagliarle in efficacia ed efficienza.

Agli impegni sul fronte della formazione di base e di sostegno alle famiglie meno dotate di un solido background economico-culturale, deve necessariamen-te affiancarsi uno sforzo altrettanto innecessariamen-tenso volto a migliorare negli individui la dotazione di conoscenze di grado avanzato. Nelle aree rurali, tuttavia, la scelta, tanto individuale quanto collettiva, di potenziare l’alta formazione si rivela spesso problematica. Serve in proposito ricordare che, come già evidenziato, questi ter-ritori vivono, più di altri, il «dilemma di base» che vede gli individui investire poco in conoscenza perché scoraggiati dalle modeste aspettative di reddito, che a loro volta sono basse perché le imprese skills intensive sono dissuase dall’interveni-re in queste adall’interveni-ree causa la cadall’interveni-renza di lavoratori qualificati (Goetz e Rupasingha, 2004). Così come è utile rammentare che tale dilemma può essere sciolto soltanto promuovendo una simultanea azione di progresso dell’offerta e della domanda di capitale umano (Franzini e Raitano, 2005). La complessità della scelta suddetta è altresì determinata dal fatto che un alto livello di formazione – universitario o post-universitario – si abbina solitamente ad un elevato grado di specializzazione, per cui si pone il problema di verificare la congruità di tale specializzazione con le caratteristiche delle zone rurali e con i percorsi di sviluppo che nelle stesse si intende seguire. Vi è in altri termini il rischio che la domanda di capitale umano qualificato espressa dalle zone rurali – che verosimilmente ricercano alte com-petenze nei loro settori trainanti (agricoltura, agro-industria, piccola industria manifatturiera, turismo, ecc.) o in alcuni ambiti strategici per il loro sviluppo (co-municazioni, sistemi relazionali tra imprese, marketing, ecc ) – non riesca ad in-tercettare pienamente l’offerta che origina dal sistema educativo. Infine, occorre rammentare le implicazioni negative che può avere lo scarso popolamento delle aree rurali sull’economicità dell’investimento in alti standard scolastico-univer-sitari. Come spesso accade anche per altri interventi di natura pubblica, questi investimenti presentano costi medi per fruitore molto alti, tanto che gli stessi sono sovente giudicati non convenienti. Di ciò occorre essere consapevoli, onde evitare

5 Lo sviluppo delle abilità cognitive di un individuo, che Heckmann (1995) riassume nel quoziente di intelligenza, si promuove soprattutto nei primissimi anni dell’infanzia, mentre per quello delle abilità non-cognitive (spirito di adattamento, propensione alla socializzazione, capacità di concen-trazione, pianificazione ed organizzazione dello studio, determinazione, senso di responsabilità, ecc.) si rivela proficuo soprattutto il periodo dell’adolescenza (Dahl, 2004).

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che, come già accaduto in passato, siano promosse e realizzate iniziative dalla efficacia e dalla economicità quanto meno dubbie6 . La doverosa attenzione ai

pa-rametri di convenienza economica, lungi dal rifiutare a priori l’utilità degli investi-menti in alta formazione, impone altresì la ricerca di soluzioni (sistemi telematici per la formazione a distanza, borse di studio per studenti fuori sede, sostegno alla mobilità, ecc.) ideate e confezionate in modo tale che gli abitanti delle aree rurali possano fruire efficacemente di un sistema formativo qualificato, anche se questo non dovesse risultare ubicato nel loro territorio di residenza.

1.7 Conclusioni

La ricerca ha permesso di evidenziare come la diversa dotazione di capi-tale umano sia in grado di spiegare una parte non irrilevante del differenziale di crescita che separa le aree rurali da quelle urbane della Sardegna. Nelle prime rispetto alle seconde, l’investimento in formazione appare, tuttavia, un po’ meno redditizio, pur mantenendosi, comunque, in posizione preminente tra le determi-nanti la crescita economica di un territorio.

Questo induce ad una prima generale conclusione: la spinta all’accumu-lazione di capitale umano è più forte nelle aree urbane che non in quelle rurali, dove i rendimenti si riducono per effetto, evidentemente, di alcune caratteristiche negative presenti nel territorio. Da questa conclusione ne deriva che l’impegno per colmare il gap di sviluppo tra campagna e città agendo sul fronte del capitale umano abbisogna di interventi specificamente progettati con riguardo alle pecu-liarità delle zone rurali, e ciò con riferimento tanto alle politiche formative quanto alle azioni indirizzate alle strutture economiche che dovranno utilizzare questo capitale.

La seconda conclusione generale deriva dal rilevare che la presenza di una forte componente agricola rappresenta uno dei vincoli che più limitano la crescita delle aree rurali. La ricerca dimostra, difatti, che più è marcato il peso dell’agri-coltura in un dato territorio più il suo reddito tende a progredire lentamente. Ne scaturisce, pertanto, una situazione paradossale, per la quale l’attività agricola è, ad un tempo, il perno del sistema economico delle aree rurali ma anche il fattore che più ne limita la crescita.

Entrambe le precedenti conclusioni conducono all’ultima considerazione di

6 Il riferimento non può non andare all’esperienza non sempre pienamente positiva dei corsi univer-sitari attivati presso le cosiddette sedi decentrate.

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sintesi del lavoro, ovvero all’urgenza di approntare una politica per le aree rurali che sia realmente forgiata sulle caratteristiche di questi territori e che ponga il rafforzamento del capitale umano al centro della sua azione. Troppo spesso le po-litiche di sviluppo rurale si fondano su iniziative poco legate alle peculiarità delle aree su cui intervengono o che, tutt’al più, si limitano a riprodurre pedissequa-mente interventi e modelli pre-esistenti e poco innovativi. La conseguenza è che l’integrazione tra agricoltura e altre attività economiche, che dovrebbe costituire uno degli assi portanti lo sviluppo di queste aree, rimane spesso blanda, con l’ef-fetto, dunque, di perpetuare il paradosso di un’agricoltura che è, nel contempo, fulcro e freno dello sviluppo rurale. Tali politiche, inoltre, non sempre assegnano al capitale umano l’attenzione che imporrebbe il suo ruolo propulsivo sulla crescita. Ciò vale, peraltro, per la stessa politica scolastica-educativa (la cui proposta for-mativa non appare sempre adeguata alle istanze di sviluppo delle aree rurali), così come per ogni altro ambito di policy – fiscale, creditizio, ecc. – capace di incidere su questa particolare forma di capitale, che viene invece lasciato spesso inattivo. L’alto valore strategico del capitale umano, ribadito anche dal presente studio, può viceversa essere pienamente sfruttato se si accresce l’impegno verso la sua accu-mulazione – con apposite politiche scolastiche, ma anche di supporto alle famiglie e agli studenti – e se si cura, in pari tempo e con atteggiamento volto a sviluppare tutte le possibili sinergie, ogni aspetto atto a migliorare la domanda di questo ca-pitale da parte delle imprese.

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Figura

Figura 1.1 - Reddito pro-capite per tipologia territoriale – UE-27 (US $ a prezzi  costanti al 2005)
Tab. 1.3 - Risultati del modello econometrico – comuni rurali
Tab. 1.4 - Risultati del modello econometrico – comuni urbani
Tabella 2.1 – Regressione logistica
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