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Capitolo 5. La Croce Rossa Italiana da organo autonomo ad “ancella” dello Stato Una disamina dalla sua fondazione alla prima guerra mondiale

5.1. La nascita della Croce Rossa Italiana e il predominante ruolo maschile

La Croce Rossa Italiana fu istituita a Milano1 il 15 giugno 1864, da parte del dott. Cesare Castiglioni, con il nome di “Associazione italiana di soccorso pei soldati feriti e malati in tempo di guerra”. Il Comitato milanese, vista la sua caratteristica promotrice, fu riconosciuto come quello centrale, fino al 1875, anno in cui «[…] Milano [cedette] a Roma la centralità

1 Il fatto che la Croce Rossa Italiana sia nata in territorio lombardo e abbia avuto la sua centralità a Milano

non è certamente un caso. L’idea di Dunant di creare un organismo che fosse in grado di sopperire alle deficienze e alle mancanze della sanità militare, sopraggiunse nel corso della II guerra d’indipendenza italiana, precisamente in concomitanza allo svolgimento delle battaglie di Solferino e San Martino, il 24 giugno 1859. Egli, rimasto turbato dall’impreparazione della sanità militare e sbalordito dalla tempestività e dalla funzionalità delle donne di Castiglione delle Stiviere, materializzò la sua idea ne Un souvenir de Solférino, nel 1861. Il volume riscosse un successo inaspettato, al punto tale da trovare parere favorevole tra 4 fondamentali personalità: il giurista Gustave Moynier, il generale Guillaume Henri Dufour, il chirurgo Theodore Maunoir e il

dell’Associazione […] [divenendo] in tal modo il “nostro Comitato Centrale”» [Cipolla, 2013: 70].

La nascita del Comitato milanese, ovverosia quella dell’Associazione italiana per antonomasia, si realizzò poco dopo la 1a Conferenza di Ginevra del 26 ottobre 18632, alla quale presero parte 36 Stati europei – tra cui anche l’Italia. Nel corso di quell’assemblea si discusse rispetto alla creazione di specifiche associazioni di soccorso, in ogni realtà nazionale, le quali avrebbero coadiuvato il lavoro di assistenza sanitaria militare. Il senso di quell’incontro riguardava anche l’individuazione e la predisposizione di precetti in grado di regolare l’operato delle singole Società di soccorso e una collaborazione tra di esse. Si avanzò inoltre la volontà di garantire ai comitati che sarebbero sorti, una protezione a livello politico e governativo, con il fine di favorire la realizzazione del lavoro. Si auspicò, in tempo di guerra, il riconoscimento di uno stato di neutralità alle ambulanze e agli ospedali militari, nonché al personale ufficiale sanitario, agli infermieri volontari, ai feriti e agli abitanti che prestavano soccorso, affinché quell’assistenza potesse realizzarsi senza correre il rischio di essere coinvolti nelle battaglie e presi di mira come nemici da abbattere.

Volendo risolvere il problema di stabilire sul campo della carità una relazione tra il civile e il militare […] [si] tracciò, a grandi tratti, l’ordinamento futuro delle Società di soccorso, i loro rapporti ed i loro lavori. [Si] ammise che ciascun paese avesse una Società propria, autonoma, libera di formarsi a suo talento; che però unica fosse la direzione in ogni paese, necessaria per conseguire maggiore efficacia; che un unico comitato centrale avesse il predominio su tutti i rami di servizio del territorio; che, quand’anche si moltiplicassero le fonti delle ricchezze col formarsi [di] diverse Società, tutte dovessero concorrere ad arricchire il fondo comune […] che le Società di soccorso dovessero stringersi rispettivamente coi loro governi; assicurarsi che essi avrebbero in caso di necessità aggradito i loro servigi; che il lavoro delle Società si dividesse in due periodi, di preparazione in tempo di pace, e di esecuzione in tempo di guerra; che in tempo di pace si reclutassero e si istruissero infermieri volontari e si preparassero locali, d’accordo colle autorità militari, per ricoverare feriti; che i comitati dei diversi paesi potessero mettersi d’accordo coi comitati delle potenze neutro per un lavoro comune col soccorrere i feriti; che sulla domanda delle autorità militari si potessero spedire infermieri sui campi di battaglia; che il personale volontario infermiere dietro gli eserciti dovesse essere mantenuto a spese dei comitati; che i comitati dei diversi paesi potessero riunirsi in congresso internazionale per comunicarsi reciprocamente le loro esperienze, e convenire sui miglioramenti da adottarsi nell’interesse dell’istituzione; che lo scambio delle comunicazioni tra i comitati centrali delle diverse nazioni dovesse farsi per il tramite del comitato internazionale di Ginevra; che gli infermieri avessero un bracciale bianco con una croce rossa comune a tutti i paesi […] [Relazione della Commissione sulla Proposta di Legge, 1884: 6-7; Archivio di Stato di Bologna].

Il principio di neutralità, annunciato nel corso della Conferenza di Ginevra del 1863 e stabilito con la Convenzione di Ginevra, il 22 agosto 1864, ha gettato le basi per la nascita del DIU (Diritto Internazionale Umanitario) e legiferato gli interventi umanitari, manifestatesi in

2 La Conferenza di Ginevra del 1863 fu organizzata dal cosiddetto “Comitato dei cinque”, costituito da

Dunant, Moynier, Appia, Dufour e Maunoir. Essi erano accomunati dalla volontà di creare, nelle varie realtà nazionali che avrebbero preso parte all’assemblea, un organismo in grado di coadiuvare il lavoro assistenziale della sanità militare, umanizzando le atrocità della guerra con un intervento tempestivo e massimizzante.

tempo di guerra. Lo studioso Focarelli [2013] non attribuisce alla Convenzione di Ginevra un carattere “rivoluzionario”, principalmente perché sostiene che parte di quei principi furono già affrontati da altri trattati3. Tuttavia, egli gli riconosce grande importanza, perché, contrariamente agli accordi tra gli Stati, stabilitesi negli anni precedenti, in quel caso si sancì il perentorio rispetto dei dieci articoli in esso contenuti4. Se nel passato si realizzavano patti “bilaterali, stipulati di volta in volta dai comandanti militari”, con la Convenzione di Ginevra si assistette a un mantenimento multilaterale di accordi, con il fine di garantire un loro rispetto e una loro attuazione da parte delle singole realtà nazionali, in ogni guerra futura.

Fu in quel periodo che l’Associazione medica italiana – presieduta dal dott. Cesare Castiglioni e concentrata sulla volontà di «[…] valorizzare la scienza; di migliorare la salute del povero; di riformare la sanità e le sue professioni; di difendere gli interessi; di esprimere sentimenti di “amor vero ed efficacia verso il prossimo […]» [Cipolla, 2013: 25] – appoggiò l’idea dunantiana di formare una società di Croce Rossa, tipicamente italiana. Essa fu avvalorata dal Re d’Italia Vittorio Emanuele II, divenendone “Socio Protettore”; mentre l’erede al trono, Umberto, ne fu Presidente onorario. Il dott. Castiglioni, così come riportato nel “Rendiconto morale ed economico” [1866], organizzò l’Associazione in apposite sezioni, ognuna delle quali adempiva a specifiche mansioni5: la Ia sezione si occupava dell’iscrizione dei soci e del rendimento economico da loro derivato; la IIa sezione era destinata al procacciamento di materiali e risorse necessarie all’assistenza; la IIIa sezione era dedita al mantenimento e alla conservazione dei beni raccolti; mentre la IVa sezione predisponeva l’individuazione e il reclutamento del personale medico e l’istruzione e la formazione di quello infermieristico.

Il Presidente dell’Associazione6 osservava mansioni gestionali ed organizzative, nonché decideva le modalità d’azione più congrue alle situazioni presenti. La distribuzione del personale al suo interno seguiva un ordine ben preciso: la quarta sezione era gestita e

3 Per un maggiore approfondimento si rimanda a Focarelli C. (2013), “Il diritto internazionale umanitario e la

Croce Rossa dal 1859 al 1914”, in Cipolla C., Vanni V. (a cura di), Storia della Croce Rossa Italiana dalla

nascita al 1914. I. Saggi, FrancoAngeli, Milano.

4 Gli articoli contenuti nella Convenzione di Ginevra del 1864, identificati come la base del Diritto

Internazionale Umanitario, stabiliscono la neutralità delle ambulanze e degli ospedali militari nella cura dei feriti e dei soggetti malati, nonché quella del personale al loro interno, dei feriti e degli abitanti che prestano soccorso (artt. 1-3, artt. 5 e 6); fissano inoltre la necessità di impiegare un tratto distintivo, come una croce rossa su uno sfondo bianco e un braccialetto rappresentante lo stesso simbolo, alla base delle autombulanze e degli ospedali e indosso al personale addetto (art. 7).

5 La strutturazione interna dell’Associazione fu stabilita con il Regolamento del Comitato milanese,

approvato l’11 dicembre 1864.

6 Con il dott. Castiglioni come presidente, furono proclamati il dott. Antonio Tarchini-Bonfanti e il dott.

organizzata esclusivamente da uomini medici, chirurghi e farmacisti; mentre le altre tre sezioni prevedevano al loro interno uomini e donne di alto rango, i quali si avvicinavano all’organizzazione volontariamente, perché spinti dai medesimi principi alla base. L’Associazione fu dunque caratterizzata, sin dall’inizio, dall’esistenza contemporanea di due anime: quella della professionalità medico-infermieristica e quella filantropica del volontariato. Malgrado il Regolamento proclamasse un’apertura a “tutte le classi sociali”, in realtà l’ingresso fu concesso solo dietro versamento di una specifica somma in denaro. In questo caso dunque si comprende che, nonostante la proiezione all’uguaglianza, nella concretezza della realtà, chi voleva fornire un lavoro volontario doveva provvedere al proprio sostentamento autonomamente, con la consapevolezza di non ricevere nulla in cambio. Inoltre, la richiesta del versamento di specifiche somme in denaro precludeva la possibilità di ingresso alle persone più povere. Ad ogni modo, però, così come emerge dalla lettura del Regolamento, tra le varie tipologie di soci, venivano contemplati anche quelli “contribuenti”, i quali, contrariamente ai soci effettivi, erano considerati come tali se, invece di versare somme in denaro, offrivano all’Associazione doni necessari o si prestavano all’assistenza gratuita.

Estendendo il ragionamento e volgendo l’attenzione sulle differenze di ruolo tra uomini e donne, ciò a cui si assiste coincide perfettamente con l’idea dominante dell’epoca. Se, infatti, gli uomini potevano prendere parte, in base alle competenze in loro possesso, alle quattro sezioni di cui l’Associazione si componeva, nel caso delle donne non si riscontrava lo stesso. Queste ultime, specialmente nei riguardi dell’assistenza a feriti e ammalati e all’intervento sul campo, erano completamente escluse. Le loro abilità erano esclusivamente richieste nelle prime tre sezioni, precludendo completamente la possibilità di ingresso nella quarta. Difatti, così come si evince dalla lettura del “Rendiconto morale ed economico” [1866], il dott. Castiglioni esplicitò un aperto diniego al riguardo, a causa soprattutto della forte emotività femminile e delle terribili conseguenze che le atrocità della guerra avrebbero avuto su di loro. Avanzò una spiegazione di protezione e di dominante considerazione della donna come “gentil sesso” o “sesso debole”, perché le riteneva differenti rispetto agli uomini e, in quanto tali, maggiormente esposte a vulnerabilità. La preclusione dell’intervento femminile non avrebbe dei rimandi nella loro incapacità, ma nei riguardi di un’idea diffusa sulla loro debolezza e fragilità.

Non posso […] né debbo passare sotto silenzio, come, né sul campo, né presso gli ospedali temporanei non ammettevansi le prestazioni direttamente ai feriti o malati, per parte delle Signore […] Rammentando i grandi encomii profusi […] dalle nostre eroine […] parrebbe […] ingiusto il proposito […] non è dubbio, che

tratte pure che siano collo spirito dell’eminente sacrificio di sé alle opere pietose […] non ne ammettano esse medesime le troppo sentimentali conseguenze […] [Associazione Italiana di Soccorso ai Militari feriti e malati in tempo di guerra, 1866: 22].

In questo modo, dunque, l’operato delle donne si limitava a mansioni di mera esecuzione e al procacciamento di risorse e materiali necessari, al cospetto della tipica operatività che si sarebbe realizzata sul campo7.

[…] l’opera preziosa della donna deve essere riservata alla direzione dei guardaroba, delle cucine, del servizio infermieristico, della distribuzione dei medicinali, sempre sotto l’alta direzione dei capi dei Servizi sanitari, in modo da evitare che questo lavoro diventi pernicioso […] l’assistenza ai letti dei feriti, alle medicazioni, ai servizi personali ed alle cure infermieristiche da dare ai feriti […] [hanno] degli effetti collaterali negativi […] [Cipolla, 2013: 27].

Si teme che l’affabilità e la gentilezza delle donne possano inficiare negativamente sulla buona salute dei degenti e sulla loro ripresa nel prendere parte alle battaglie. Quest’aspetto è stato ulteriormente confermato dallo studioso Ardissone [2013], il quale, notando una predominanza femminile nelle prime tre sezioni, dimostra l’elevata corrispondenza tra ruolo della donna e contesto sociale e culturale dell’Italia dell’epoca. La studiosa Belzer [2010], ad esempio, nella considerazione dell’assetto socioculturale italiano antecedente il primo conflitto mondiale, adotta l’espressione “donna brava”. Ella sostiene che nella società italiana

prewar si strutturasse un ideale di femminilità proiettato all’obbedienza della moglie e alle

sue restrizioni nei riguardi della vita domestica e delle conseguenti responsabilità: «[…] the idealized Italian woman from this era occupied “a space outside history”. Her life was sequestered, and her exposure to the public was limited […]» [Belzer, 2010: 3].

Pertanto, la possibilità che le donne fossero meramente relegate “dietro le quinte” e svolgessero mansioni protese all’esclusivo procacciamento delle risorse e dei beni necessari, combaciavano perfettamente con gli assunti e i precetti socioculturali dominanti all’epoca.