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Natura e caratteri del provvedimento

Un esame analitico del fallimento provocato dall'esattore per mancato pagamento dell'imposta sui profitti di guerra richiede la conoscenza integrale di due articoli e di un passo della Relazione che il Ministro delle Finanze, on. Meda, faceva precedere al Decreto Luogotenenziale 1° ottobre 1917, n. 1562.

Il fallimento fiscale veniva appunto istituito dapprima con questo decreto, che all'articolo 4 così disponeva: «Chiunque abbia realizzato redditi soggetti alla imposta e sovraimposta di guerra ai sensi del-l'articolo 1 del Testo Unico 14 giugno 1917, n. 971, è considerato com-merciante o mediatore (1), ancorché non eserciti od abbia esercitato abitualmente la professione. Ove egli si renda moroso al pagamento della imposta e sovraimposta, l'esattore, previa autorizzazione dell'Inten-dente di Finanza, chiederà al Tribunale la dichiarazione di fallimento ai termini dell'art. 687 del Codice di Commercio ritenendosi, in forza del presente decreto, parificato ai debiti di commercio il debito della imposta e sovraimposta sui profitti di guerra ». Tale articolo fu però ben presto sostituito dall'articolo 1 del Decreto Luogotenenziale 29 novembre 1917, n. 1934, riprodotto poi, con insignificanti modifica-zioni di adattamento, nel Testo Unico 9 giugno 1918, n. 857 (art. 31), tuttora in vigore, che suona così : « Chiunque realizzi od abbia realiz-zato redditi soggetti all'imposta e sovrimposta di guerra ai sensi dell'art. 1 del Testo Unico 14 giugno 1917, n. 971, è considerato com-merciante o mediatore anche agli effetti degli articoli 16 e seguenti, 21 e seguenti, 33 e seguenti del Codice di Commercio, quand'anche non eserciti o non abbia esercitata abitualmente la professione.

« Ove egli si renda moroso al pagamento dell' imposta e sovrimposta di cui sopra, il Tribunale, su ricorso dell'esattore, previamente

auto-(1) È giuridicamente scorretto distinguere il mediatore dal commerciante, poiché se un tale è mediatore vuol dire che egli esercita per professione abituale atti di mediazione commerciale, e che quindi è un commerciante. La parola « mediatore » presuppone il riferimento implicito all'art. 8 Codice Commercio : perchè quindi far apparire una speciale figura giuridica del mediatore, diversa da quolla del com-merciante ?

— S t

-rizzato dall'Intendente di Finanza, pronuncierà la dichiarazione di fallimento a termini dell'art. 687 del Codice di Commercio, ritenendosi in forza del presente decreto legislativo che il debitore moroso della imposta e sovrimposta di guerra, sia in istato di cessazione dei pagamenti ».

Converrà rilevare subito le differenze dei due testi : una prima volta il legislatore, autorizzando l'esattore ad instare per la dichiarazione di fallimento del contribuente moroso, ha lasciato al Tribunale la facoltà della dichiarazione stessa, seguendo evidentemente la teoria del Bonelli e ritenendo quindi che il creditore non può far fallire il suo debitore soltanto perchè non fu pagato, non essendo sufficiente questo fatto a mettere in essere la cessazione dei pagamenti. Si è allora stabilito che l'esattore, previa autorizzazione dell' Intendente, chiederà al Tribu-nale la dichiarazione di fallimento e si è deferito al giudice l'esame della costituzione patrimoniale del contribuente moroso, ammettendosi la dichiarazione di fallimento solo quando da detto esame fosse emersa la « impotenza » del patrimonio del debitore a far fronte alle proprie obbligazioni.

Una seconda volta invece, ad appena due mesi di distanza, il legisla-tore, con l'art. 1 del Decreto Luogotenenziale 29 novembre 1917, n. 1934, dimostrando di seguire la teoria del Bolaffio, dichiarando « in istato

di cessazione dei pagamenti » il contribuente moroso e ammettendo perciò che « cessazione dei pagamenti » significhi « inadempimento » e che, ad istanza dell'esattore il Tribunale pronuncierà la dichiara-zione di fallimento, ha fatto obbligo al Tribunale della dichiaradichiara-zione stessa appena si ravvisino i due elementi richiesti : morosità del contri-buente e autorizzazione dell'Intendente. Diversamente non si può argomentare, poiché altrimenti non si comprenderebbe il motivo della modificazione: il legislatore, considerato che nei mesi di ottobre e novembre 1917 furono dichiarati due soli fallimenti per mancato pagamento dell'imposta sui profitti, visto insomma che il mezzo non era bastato al fine, inasprì la disposizione disponendo appunto che, su ricorso dell'esattore autorizzato, il Tribunale deve pronunciare la dichiarazione di fallimento.

Comunque, il provvedimento è di una gravità impressionante. È risaputo che, in Italia, due dei « presupposti legali del fallimento sono: un commerciante; il carattere commerciale delle obbligazioni insoddisfatte. Come si può quindi giustificare una norma di tal genere? Ecco quanto è detto nella Relazione al Decreto Luogotenenziale 1° ottobre 1917, n. 1562: « Non esiste, a dir vero, giurisprudenza circa la natura del debito di imposta, se cioè sia civile o commerciale, nè, a quanto consta, la dottrina ha comunque sollevata la questione : nella pratica però si è ritenuto trattarsi di debito civile. Tuttavia, in mancanza di un preciso principio di diritto affermato in questo senso, nulla toglie che, in vista delle superiori ragioni che giustificano 1* intero

credito di per sè eccezionale, non si possa considerare come commer-ciante il contribuente e come debito commerciale il suo debito verso 10 Stato: ciò peraltro mira non solo a rendere più facile la riscos-sione dell'imposta ma anche a punire, in certo modo, il debitore, mettendolo in condizione di non poter più liberamente esplicare la sua attività di commerciante, industriale o mediatore, allorché, con mezzi o raggiri illeciti, abbia cercato di sottrarsi all'adempimento dei suoi doveri verso l'erario. Il provvedimento è senza dubbio grave, ma è necessario, e merita di essere adottato, anche perchè ha un valore morale preventivo non trascurabile, in quanto si spera renderà meno frequenti i tentativi di evasione di fronte alla minaccia di una proce-dura fallimentare ».

Non è quindi che il legislatore abbia comunque inteso, seguendo 11 principio adottato da non poche legislazioni straniere, di estendere il fallimento ai non commercianti, benché allora il concorso differi-rebbe dal fallimento; niente di tutto ciò: il legislatore fa rientrare il fallimento fiscale nella ordinaria sfera del fallimento : egli non vuole considerato il non commerciante perchè, anche se non esercita atti di commercio o, se pur li esercita, non lo fa per professione abituale, lo presume commerciante per il solo fatto di avere realizzato redditi soggetti all'imposta e sovrimposta di guerra.

Ma neppure questa presunziohe, già di per sè giuridicamente enorme, sarebbe bastata : il nostro Codice di Commercio richiede che il carat-tere della obbligazione insoddisfatta sia commerciale. Disposizione questa che autorevoli scrittori hanno giudicato tutt'altro che razionale : ' ma anche qui il legislatore tributario non s'è curato affatto, neppure nella Relazione, di dimostrare la opportunità, ai fini fiscali, di derogare a tale requisito richiesto dal Codice, e ha senz'altro dichiarato commer-ciale il debito d'imposta. Nella Relazione al decreto 1° ottobre 1917 però, pur ammettendosi che la pratica esclude che il debito d'imposta sia commerciale, si pone in dubbio la natura del debito stesso ; si afferma che la giurisprudenza non s'è mai pronunciata in proposito : e su ciò non possiamo non convenire, perchè riteniamo che la giurisprudenza non s'è mai pronunciata perchè mai a nessuno è saltato in testa di mettere in dubbio che il debito d'imposta sia di natura civile! È prin-cipio cosi incontroverso che a sentirne dubitare fa l'effetto di una excmatio non petita.

Neanche però quest'altro strappo alle norme fondamentali del diritto avrebbe potuto spiegare giuridicamente la disposizione, poiché l'arti-colo 687 del Codice di Commercio dispone che può chiedere la dichia-razione di fallimento del commerciante suo debitore •* ogni creditore per causa di commercio ». Ora, ammesso pure che il contribuente si possa considerare quale commerciante per il solo fatto di aver realiz-zato redditi soggetti all'imposta e sovrimposta di guerra; ammesso pure che il debito d'imposta si possa ritenere di natura commerciale,

non ci si verrà anche a sostenere che lo Stato, e per esso l'esattore, è creditore d'imposta « per causa di commercio » !

Su ciò la Relazione ha taciuto e il legislatore non ha fatto che richiamare, nel decreto, l'articolo 687 Codice di Commercio, senza avvedersi probabilmente dello scoglio contro il quale il richiamo andava a cozzare.

I tentativi che si rilevano dalla Relazione di giustificare giuridica-mente il provvedimento costituiscono la più severa condanna di esso. Per ora osserveremo che, mentre in forza degli articoli 683 e 687 Codice Comm. la obbligazione insoluta per la quale il commerciante viene tratto al fallimento dev'essere obbligazione commerciale per entrambe le parti, creditore istante e debitore inadempiente, nel fallimento fiscale si è autorizzata la dichiarazione di fallimento per obbligazione che non è commerciale nè per l'una nè per l'altra parte.

Contrariamente a quanto è stato detto nella Relazione più volte qui richiamata, non esitiamo ad affermare che non è vero che il falli-mento facilita la riscossione dell' imposta e che, anche perchè il contri-buente fallito viene posto in condizione di non poter più liberamente esplicare la sua attività di commerciante, industriale o mediatore, il fallimento torna di danno allo stesso erario.

Quanto poi alle ragioni di necessità, di attribuire al provvedimento un « valore morale preventivo » nella speranza di rendere meno fre-quenti i tentativi di evasione, i fatti si sono troppo bene incaricati di smentire gli errati concetti del relatore.

Ma con tutto ciò pensiamo che quand'anche si fosse ritenuta neces-saria la sanzione del fallimento fiscale nell' interesse dell'erario, il legislatore non avrebbe dovuto pretendere di farlo rientrare nell'appli-cabilità del Libro Terzo del Codice di Commercio (come appare chiara-mente dalla Relazione e dall'art. 31 del Testo Unico 9 giugno 1918, n. 857, che, fra l'altro, richiama anche l'art. 687 Cod. Comm.); se mai. avrebbe dovuto estendere il fallimento (concorso) anche ai non com-mercianti debitori morosi dell'imposta sui profitti di guerra, ed al fallimento fiscale avrebbe dovuto applicare solo quelle norme del Codice di Commercio che non sarebbero risultate in contraddizione con la nuova specialissima disposizione. La gravità di questa non sarebbe stata così diminuita, ma almeno non si sarebbero distratte, ai fini fiscali, le basi su cui poggiano principi indiscussi ed indiscutibili.

Lungi da questi criteri, il legislatore neppure ha creduto di percor-rere fino in fondo la via tracciatasi.

Fisso in testa il chiodo della necessità di istituire il fallimento fiscale, ce lo saremmo forse spiegato se si fosse presunto commerciante il contribuente ai puri e semplici effetti della dichiarazione di falli-mento. Il legislatore invece ha adottato una misura intermedia : richia-mando gli articoli 16 e seguenti, 21 e seguenti, 33 e seguenti del Codice Comm.. ha sottoposto il contribuente all'obbligo di dare pubblicità

agli atti per mezzo dei quali si costituisce o si scioglie la sua società domestica e all'obbligo della tenuta regolare dei libri.

Sicché, in complesso, ci ha creato questa ibrida figura : contribuente commerciante solo nei riguardi dello Stato e solo per l'obbligazione derivante dal debito d'imposta sui profitti di guerra (debito ritenuto commerciale), sottoposto soltanto a due obblighi legali del commer-ciante (salvo il caso che si tratti di mediatore) e non agli altri!

Soffermiamoci ancora un istante ad esaminare la Relazione. Da essa appare che il fallimento mira a punire il debitore che, con mezzi ille-citi, abbia cercato di sottrarsi al pagamento dell' imposta : è cioè una sanzione penale. Ora, ammettere il fallimento quale sanzione penale significa nient'altro che snaturare il principio giuridico dell'istituto. Il fallimento non ha mai avuto tale carattere, forse neppure quando gli statuti dei nostri Comuni, ad esempio quello di Bologna, stabilivano che, perdurando la contumacia del fallito, ove fosse caduto nelle mani di un Uffiziale del Comune, venisse « apicato per la gola » ! Il falli-mento, sono parole del Bolaffio, « è principalmente misura cautelare del credito sociale di cui intende evitare e reprimere gli abusi e i turba-menti » : nel caso nostro invece diventa pena. Nè ciò basta, poiché si è anche creato un equivoco che più tardi non mancherà di produrre le immancabili conseguenze. Mentre, come abbiamo visto, il relatore del decreto ha inteso il fallimento quale mezzo di repressione della frode, del dolo, del raggiro illecito, nel testo del decreto stesso il legislatore neppure lontanamente ha accennato a questi precisi intenti; per il legislatore, che il contribuente sia fraudolento o non lo sia, non conta nulla: è sufficiente che non paghi; e se anche non paga, non perchè non vuole, ma perchè non può pagare, per essere magari vittima di accertamenti pazzeschi, non importa nulla: fallisca!

Può ritenersi il fallimento fiscale un valido mezzo per assicurare il pagamento dell'imposta?

a) Risultato del fallimento è appunto, com' è detto nella Relazione, quello di mettere il contribuente fallito nella « condizione di non poter più liberamente esplicare la sua attività di commerciante, industriale o mediatore », cioè di immobilizzarlo. Ma non si deve dimenticare che il credito dello Stato per l'imposta sui profitti di guerra, in forza del-l'art. 1957 Codice Civ.4e degli articoli 62 e 63 della legge sull'imposta di Ricchezza Mobile 24 agosto 1877, n. 4021 (articoli, questi ultimi due, applicabili anche all' imposta sui profitti per il disposto dell'art. 37 del Testo Unico 9 giugno 1918, n. 857), ha privilegio generale sui mobili del debitore e privilegio speciale su alcuni dei suoi mobili e su certi mobili appartenenti ai terzi, dietro il verificarsi di talune condizioni di cui non è qui il caso di trattare. E allora dov'è l'utilità, dov'è la conve-nienza dell'erario di immobilizzare il contribuente debitore, di renderlo incapace a produrre, disseccando così la fonte alla quale invece, vigi-lando, si sarebbe sempre potuto attingere sotto l'egida del privilegio ?

b) Il privilegio sulla generalità dei mobili di cui all'art. 1957 Cod. Civ. si applica anche nei giudizi di fallimento (art. 773 Cod. Comm.). Mentre però in caso di concorso ordinario il privilegio del credito dello Stato è posposto solo ad alcuni dei privilegi stabiliti dal Codice, in caso di giudizio fallimentare due altri crediti, oltre a quelli, vengono prefe-riti al credito dello Stato : il credito per salari agli institori, commessi ed operai del fallito e il credito per il prezzo non pagato delle mac-chine d'importante valore vendute e consegnate al fallito. Ne consegue quindi che diminuisce la probabilità dell'esattore di essere pagato.

Per gli immobili poi, questa probabilità diventa ancor minore: su di essi, il credito dell'esattore per imposta sui profitti di guerra non gode alcun privilegio e perciò, nel giudizio fallimentare, egli è un semplice creditore cbirografario. Con la differenza che se l'esattore, anziché provocare la dichiarazione di fallimento del contribuente moroso, agisce sui di lui immobili mediante la procedura fiscale (e lo può fare anche prima della esecuzione sui mobili in virtù dell'art. 28 del Testo Unico 9 giugno 1918, n. 857), concorrerà sul prezzo solamente con i creditori chirografari comparsi nella graduazione: ed è notorio che, di solito, il numero di questi è di non poco inferiore al numero dei chirografari concorrenti nella liquidazione fallimentare (1).

e) Dai dati cui accenneremo nella parte dedicata alla statistica, si rileverà che nell' 80 °/0 dei fallimenti dei quali abbiamo potuto cono-scere la costituzione della massa passiva, essa era costituita dal solo debito verso l'esattore. La percentuale è rilevantissima e, come si vedrà, è logico applicarla a tutti i fallimenti fiscali dichiarati. Ciò significa che, nella grandissima parte dei casi, la data della cessazione dei paga-menti coinciderà con la morosità del contribuente fallito; da questa data ha inizio il periodo sospetto e quindi il curatore potrà esperire la pauliana fallimentare soltanto per gli atti compiuti dal fallito poste-riormente alla data suddetta (art. 707 e seg. Cod. Comm.). Orbene: la Relazione afferma che occorre « porre riparo » agli atti « di coloro che si propongono di illegalmente e indebitamente sfuggire all'imposta » ; non si creda però di aver trovato un utile mezzo nel fallimento fiscale. Sarebbe ingenuo non ritenere che il contribuente intenzionato a sfuggire all' imposta, compirà gli atti in fraudem creditomm prima di rendersi moroso: il curatore quindi non potrà valersi che della revocatoria ordinaria (art. 708 Codice di Commercio e 1235 Cod. Civ.). Ma questa azione può benissimo dall'esattore esperirsi contro il debitore escusso inutilmente o con risultato parziale, anche senza ricorrere al falli-mento : e allora non si comprende quale maggior probabilità di esazione esso apporti.

(1) In questa considerazione ed in quella che successivamente esponiamo concorda il D E CRISTOFARO in un pregevole studio apparso in « Rivista delle Società Com-merciali », 1918, pag. 138-143.

È esatto affermare che il fallimento fiscale facilita la riscossione dell'imposta?

a) Dispone l'art. 97 della legge sulla riscossione delle imposte di-rette, Testo Unico, approvata con Regio Decreto 29 giugno 1902, n. 281 (1) che « la procedura stabilita dalla presente legge, per l'esecuzione contro i contribuenti, gli esattori ed i ricevitori debitori morosi di imposte e sovrimposte, ha luogo anche allorquando i debitori cadano in istato di fallimento dichiarato ». Lasciando a parte la disputa che si accese intorno all' interpretazione dell'art. 800 Cod. Comm. nei riguardi del-l'art. 97 sopra trascritto, osserviamo che, in caso di fallimento ordi-nario del contribuente, la procedura privilegiata dell'esattore si svolge come se il fallimento non esistesse, con questa sola differenza: gli atti, anziché essere espletati nei confronti del fallito, verranno eseguiti nei confronti del curatore. Ma allora, se la procedura si svolge come se il fallimento non esistesse, che beneficio può apportare alla detta procedura la dichiarazione del fallimento stesso ? Nessuno !

b) È sufficiente una superficiale conoscenza delle norme di riscos-sione delle imposte dirette per comprendere quanto sia facile e rapida la procedura privilegiata fiscale. È certo più rapida, e non indifferente-mente, della procedura statuita per giungere alla ripartizione dell'attivo fallimentare. Forse che perder tempo, cioè ritardare la riscossione, signi-fica facilitarla ? Tenendo aggiornata una rubrica per compilare le stati-stiche che fra breve esamineremo, abbiamo constatato che quasi tutti i fallimenti fiscali sono rimasti aperti (e rimangono tuttora) anni interi. E, in fatto di riscossione, è questo il grave danno che il fallimento arreca all'esattore; al quale poi, che il fallimento si chiuda col paga-mento integrale dell' imposta o che si chiuda invece per mancanza di attivo, poco interessa.

Nel primo caso riscuoterà l'imposta ; nel secondo avrà il rimborso della quota inesigibile dovuta versare in Tesoreria alla scadenza in omaggio al principio del « non riscosso per riscosso » ; nel primo caso percepirà gli interessi di mora e perderà quelli sulla somma versata ; nel secondo caso perderà gli uni e gli altri. Ma è sempre, in ogni modo, questione di tempo.

Senza dire poi che la procedura fallimentare importa: spese di amministrazione e di giustizia del fallimento, pagamento dei debiti contratti dal curatore nell'interesse del fallito e sussidi dati al fallito ed alla sua famiglia; somme tutte che, venendo detratte dal prezzo delle vendite e delle eventuali riscossioni, rendono ancor minore la probabilità dell'esattore di riscuotere l'imposta.

Si è verificato il « valore morale preventivo » del fallimento fiscale? Neppur questo. Perchè i falliti, come vedremo, furono numerosissimi;

(1) Notiamo, in via semplicemente informativa, che detto articolo non è stato nè soppresso, nè modificato dalla legge 13 agosto 1922, N. 1146.

perchè otto di essi chiesero persino essi stessi il proprio fallimento, dichiarandosi impossibilitati a pagare l'imposta; perchè taluno si lasciò far fallire due volte consecutive dall'esattore; perchè i con-tribuenti falliti furono in generale, fra i commercianti, gli industriali, i mediatori, soventissimo per dichiarazione degli stessi curatori, con-siderati vittime di pazzesche pretese da parte del fisco e perciò stesso degne di aiuto. Proprio tutto l'opposto di quanto prevedeva il legislatore.

La entità spesso rilevantissima dei debiti di imposta sui profitti di guerra e la conseguente minor garanzia dello Stato sui beni dei contri-buenti ; le mene dolose di non pochi di questi ultimi che « non paghi degli insperati e lauti lucri tratti dallo stato di guerra, cercano ancora di sottrarsi al pagamento del tributo sul quale lo Stato ha dovere invece di fare particolare assegnamento », richiedevano senza dubbio adeguate sanzioni e speciali misure per assicurare l'esazione rapida e integrale dell'imposta. Sembra a noi però che, una volta emanate le ferree disposizioni di cui agli articoli 28, 29, 30, 33, 34 e 35 del