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L’Italia e la Crisi di Suez: le due anime della DC

3.3. Il “Neoatlantismo” di Fanfani e Gronchi.

Sin dalla firma della Convenzione del 1888 che regolava il transito sul Canale di Suez, passando per i progetti di costruzione della diga di Assuan che vedevano implicati tecnici italiani, l’Italia aveva intessuto buoni rapporti politici, economi e commerciali con l’Egitto. A testimonianza di essi vi fu l’inaugurazione il 24 luglio del 1956 al Cairo, da parte di Nasser, di un oleodotto Suez-Cairo e di una raffineria di petrolio a Mostorod costruiti dalla società SNAM, appartenente al gruppo ENI, e guidata da Enrico Mattei. Alla giornata di inaugurazione presenziò lo stesso Mattei che nel suo discorso inaugurale espresse soddisfazione per questo tipo di

partnership: ‹‹Siamo fieri di stare al vostro fianco e di aver potuto

collaborare con voi. Speriamo che questa collaborazione, che è nella tradizione dell’amicizia tra i nostri due Paesi, possa continuare anche per l’avvenire››96.

Due giorni dopo però, a seguito della nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser con le successive implicazioni politiche che ne derivarono a livello internazionale, mutò leggermente

96 L’oleodotto Suez-Cairo inaugurato da Nasser, in ‹‹Il Giorno››, 25 luglio 1956.

Sulla figura di Mattei, sulla politica industriale e sulla funzione dell’ENI c.f.r. D, Votaw, Il cane a sei zampe, Milano, Feltrinelli 1965; L. Maugeri, L’arma del petrolio: questione petrolifera globale, guerra fredda e politica italiana nella vicenda Enrico Mattei, Firenze, Loggia de’ Lanzi, 1994; G. Galli, La sfida perduta. Biografia politica di Enrico Mattei, Milano, Bompiani, 1976; N. Perrone, Obiettivo Mattei: petrolio, Stati Uniti e politica dell’Eni, Roma, Gamberetti, 1995.

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l’atteggiamento politico italiano verso l’Egitto di Nasser. L’Italia voleva che la libertà di navigazione sul Canale fosse garantita e che i suoi traffici commerciali non subissero particolari danni. Come ricorda Massimiliano Cricco,

dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez e nel corso della crisi internazionale che si verificò tra l’ottobre e il novembre del 1956, l’Italia mantenne una posizione equidistante, senza esporsi troppo né a favore dei governi di Londra e Parigi, né a sostegno dell’Egitto ma, di fronte alla prospettiva di un blocco della navigazione nel canale, reagì a causa della grande importanza che la via d’acqua rivestiva per il nostro paese in termini di passaggi e merci trasportate, con 1367 navi transitate, il 41% delle quali trasportava

petrolio proveniente dal Golfo Persico97.

Fu così che con il passare dei giorni, l’acuirsi della crisi egiziana provocò una piccola ma significativa spaccatura all’interno della Democrazia Cristiana in cui andarono delineandosi due correnti aventi opinioni leggermente diverse sul da farsi. In particolare, il nodo principale di questa divisione, riguardava il tipo di politica estera che l’Italia avrebbe dovuto assumere per cercare di superare questa crisi. Una prima corrente – quella rappresentata istituzionalmente dal governo Segni e dalla maggioranza del partito - prendeva come punto di riferimento il lavoro diplomatico svolto da De Gasperi negli anni precedenti per cercare di emancipare l’Italia dalla posizione di nazione sconfitta e di alleato

97 M. Cricco, Giovanni Gronchi e il Mediterraneo negli anni cinquanta: dalla crisi

di Suez alle relazioni politico-economiche con la Libia (1956-1959), in A. Varsori, F. Mazzei, Giovanni Gronchi e la politica estera italiana (1955-1962), Pisa, Pacini 2017, pp. 122-123.

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debole, legandola sempre di più agli alleati NATO Una scelta prettamente atlantica ed europeista che non dimenticava, tuttavia, di mantenere buoni rapporti col mondo arabo. Dall’altra parte, una corrente che denunciava gli atteggiamenti di forza e le politiche imperialiste perpetrate dalle due potenze capitalistiche verso i paesi arabi e soprattutto, dopo la nazionalizzazione, nei confronti dell’Egitto. Rappresentata dagli esponenti dell’ala sinistra e dossettiana della DC - come il segretario generale del partito Amintore Fanfani, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi - questa parte desiderava che l’Italia si sostituisse a Francia e Gran Bretagna nel Mediterraneo per intraprendere una politica avente filo diretto soltanto con gli Stati Uniti e di conseguenza essere il principale intermediario tra l’alleato occidentale ed i paesi arabi. Per loro, l’Italia, doveva essere un ponte naturale tra l’occidente e il mondo arabo e svolgere il ruolo di potenza egemone in quella zona, nell’ottica di risolvere la crisi e mantenere l’equilibrio in seno all’Alleanza Atlantica. Così Giuseppe Mammarella e Paolo Cacace descrivono il neoatlantismo,

il disegno di coloro che si richiamano al cosiddetto ‹‹neoatlantismo›› (termine coniato dal ministro degli esteri, Pella, nel luglio 1957) è più complesso e ambizioso. Non si tratta solo di rivendicare una maggiore presenza dell’Italia su uno scacchiere, quello mediterraneo, cui il nostro paese si era volontariamente ritratto con la rinuncia a qualsiasi presenza coloniale, ma di sfruttare le crescenti difficoltà che potenze come la Francia e la Gran Bretagna incontrano nel salvaguardare le rispettive zone di influenza per cercare di

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sostituirvi una nostra azione diplomatica più aperta al dialogo con i popoli arabi dell’area mediterranea e medio-orientale. Intorno al neoatlantismo – fenomeno in cui si mescolano una sorta di ‹‹pacifismo atlantico›› e di ‹‹nazionalismo mediterraneo›› - si coagulano personalità molto diverse tra loro, con iniziative eterogenee che hanno in comune la ricerca, sovente velleitaria, di

un’azione originale nella condotta della politica estera98.

Questa nuova opportunità di condurre la politica estera italiana prese forma quando nel maggio del 1955 Gronchi venne eletto Presidente della Repubblica. Tra i principali sostenitori di un ruolo di primo piano dell’Italia nel Mediterraneo come potenza regionale, infatti, il Capo dello Stato portò avanti per tutto il settennato una politica di scambi e incontri con i rappresentanti del mondo arabo e dell’oriente.

In particolar modo Gronchi legò la sua azione politica all’attività intrapresa da Enrico Mattei che grazie all’attivismo dell’ENI - di cui fu presidente dal 1953 sino alla sua morte sopraggiunta per un incidente aereo nell’ottobre del 1962 - permise all’Italia di estendere l’influenza dell’azienda di Stato in area mediterranea, intessendo rapporti commerciali con paesi africani come l’Egitto e la Libia, in oriente con l’Iran e Indonesia, permettendo al paese di cavalcare la scia del boom economico il quale aveva ridato slancio all’economia dopo i difficili anni del conflitto mondiale.

La forza di Mattei si dilata sino al punto che diventa quasi impossibile per i Governi in carica assumere iniziative di politica estera senza il

98 G. Mammarella, P. Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai

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suo consenso. Con la presenza ingombrante di Mattei, si saldano in misura maggiore gli interessi economici con quelli politici (sovente attraverso giochi e alleanze non proprio trasparenti), introducendo una nuova variabile nelle scelte di politica estera e nei rapporti

internazionali dell’Italia99.

Gronchi vide in questa azione di espansione dell’economia italiana una valida opportunità per rilanciare il suo paese anche a livello politico in modo tale da fargli acquisire lo status di grande potenza a livello regionale specialmente nel Mediterraneo. La sua convinzione era ‹‹che la storia assegnasse all’Italia un compito di mediazione tra Occidente e Oriente, fra arabi e ebrei, fra l’Europa e il terzo mondo››100.

Non era solo la convinzione del Capo dello Stato ma anche quella condivisa dal segretario generale del partito Fanfani che, durante i mesi della crisi egiziana e successivamente, dal 1958 quando divenne presidente del consiglio, animò la sua politica.

L’atlantismo fanfaniano indicava la scelta occidentale non tanto come un vincolo, quanto come un’opportunità. La politica del “costruire ponti invece che esasperare i conflitti” poteva restituire all’Italia quel naturale ruolo di mediazione tra Est e Ovest e fra Nord e Sud connaturato alla sua dimensione geopolitica e coerente con l’impegno per la pace e per la riconciliazione più volte espresso dai leader democristiani nel dopoguerra. Roma poteva giocare così un ruolo di interlocutore dei paesi nati dal processo di decolonizzazione e di special partner degli Usa nel Mediterraneo, inaugurando una

99 P. Cacace, Venti anni di politica estera italiana (1943- 1963), Roma, Bonacci,

1986, p. 481.

100 M. De Leonardis, L’Italia: ‹‹Alleato privilegiato›› degli Stati Uniti del

Mediterraneo?, in M. De Leonardis, Il mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 77.

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politica di apertura, soprattutto in termini economici, nei confronti

dei paesi del blocco sovietico101.

Una politica estera che doveva tendere alla conciliazione e al dialogo per cercare di promuovere la pace e l’unità in seno al mondo arabo garantendo al tempo stesso solidità tra gli alleati occidentali. Ma anche un rapporto diretto con Washington che garantisse all’Italia un ruolo da protagonista nel Mediterraneo e punto di riferimento per i paesi neo-indipendenti:

la politica estera democristiana e italiana doveva mettersi al servizio della costruzione della pace, sostenendo l’unità dell’Occidente, senza nessuno scivolamento neutralista, ma lavorando al contempo perché l’Occidente sapesse dare speranza agli ‹‹scontenti della situazione e ai tentativi del comunismo››. Si delineava qui l’attenzione per il mondo in crescita dei paesi di nuova indipendenza, che stavano emergendo dal processo di decolonizzazione, ma più in generale per quei soggetti culturali e politici, esterni all’Occidente,

che cercassero sponde nel loro percorso di emancipazione102.

L’occasione per l’attuazione di una politica estera di questo tipo si presentò proprio con l’Egitto di Nasser; banco di prova della corrente neo-atlantica democristiana, la crisi di Suez apertasi nel mese di luglio catalizzò l’attenzione della politica italiana intorno a questo snodo marittimo principale. La linea indicata dal politico aretino era abbastanza chiara e precisa per cercare di trovare una

101 A. Villani, Fanfani, l’O.N.U. e la politica italiana di distensione internazionale,

in A. Giovagnoli, L. Tosi, Amintore Fanfani e la politica estera italiana, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 207-208.

102 G. Formigoni, Fanfani, la D.C. e la ricerca di un nuovo discorso di politica

estera (1954-1968), in A. Giovagnoli, L. Tosi, Amintore Fanfani e la politica estera italiana, Venezia, Marsilio, 2010, p. 80.

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soluzione. Inizialmente le sue intenzioni non si discostavano dalle posizioni assunte dal ministro degli esteri Martino discusse all’interno del Consiglio dei Ministri del 31 luglio e presentate dalla delegazione italiana all’interno delle due Conferenze di Londra svoltesi ad agosto e settembre. Come afferma Luca Riccardi,

sulla soluzione di questa crisi Fanfani si era fatto, sin dall’inizio, un’idea alquanto precisa: bisognava dare in qualche modo una soddisfazione a Nasser riconoscendo il suo diritto di esercitare la sovranità sul Canale anche nazionalizzandone la proprietà. Ma questo non doveva inficiare la libera navigazione il cui esercizio doveva rimanere distinto dal diritto di proprietà. In questo senso, sin dal 4 agosto, decise di orientare la posizione degli organi di stampa che facevano capo D.C. In quanto leader del partito di maggioranza relativa non esitò anche a intervenire direttamente su Palazzo Chigi telefonando al segretario generale, Rossi Longhi. A questi fece intendere con chiarezza quale, secondo lui, avrebbe dovuto essere la linea del governo italiano nella crisi: “favorire soluzioni pacifiche”, ma che mantenessero ben distinta “la questione

della proprietà dalla questione della navigazione libera”103.

In questo contesto si inserisce, nel mese di agosto, la visita di Fanfani negli Stati Uniti con il presidente americano Eisenhower, il segretario di stato Dulles, ed il presidente della CIA, Allen Dulles. Gli incontri avevano l’obiettivo di discutere sia della questione di Suez sia dei rapporti politici tra i due paesi, sottolineando una rinnovata scelta americana da parte della DC.

Il 10 agosto Eisenhower ricevette ufficialmente alla Casa Bianca il segretario democristiano. Fu un incontro in cui Fanfani ebbe modo

103 L. Riccardi, Tra Stati Uniti ed Egitto: Fanfani e la crisi di Suez, in ‹‹Nuova

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di spiegare il suo punto di vista e in cui ringraziò gli Stati Uniti per l’importante ruolo di intermediazione e moderazione svolto in questo delicato momento. Dopo quasi un’ora di colloqui intercorsi tra i due, all’uscita dalla dimora presidenziale, i giornalisti assiepati fuori di essa attesero con ansia il passaggio del leader del partito cattolico per cercare di avere maggiori informazioni sulle discussioni svoltesi tra i due. Un Fanfani dal tono soddisfatto rispose ai giornalisti presenti:

i problemi erano stati ‹‹quelli che interessano gli uomini politici quando si incontrano››. Al che i giornalisti hanno immediatamente chiesto se la crisi di Suez faceva parte di questi argomenti. ‹‹No›› ha risposto decisamente Fanfani, che successivamente, dietro esplicita domanda, ha dichiarato essere il punto di vista dell’Italia pressoché simile a quello degli Stati Uniti: ‹‹L’Italia è favorevole ad un controllo internazionale del Canale che assicuri il libero transito delle navi››. Fanfani ha posto in risalto che ovviamente il problema di tenere aperto il Canale alla navigazione è di grande interesse per l’Italia quale grande potenza mediterranea. […] La viva cordialità mostrata da Eisenhower verso Fanfani è stata immediatamente rilevata dai giornalisti americani i quali hanno notato il tempo eccezionalmente lungo dell’incontro, e ne hanno dedotto che il colloquio è avvenuto nel vero spirito della amicizia italo-americana

e deve essere stato particolarmente interessante104.

Per Fanfani era cruciale che venissero fatte delle concessioni a Nasser per evitare un ulteriore inserimento, in questa contesa e soprattutto in area mediterranea, dell’Unione Sovietica. In questo contesto rientrava infatti l’appello rivolto da Martino agli Stati Uniti il giorno prima della nazionalizzazione, teso a far sovvenzionare la

104 M. Spaccarelli, Cordiale colloquio di Fanfani con il Presidente Eisenhower, in

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costruzione della diga di Assuan da parte degli Stati Uniti. I paesi avrebbero poi dovuto accettare quanto attuato da Nasser ma dovevano garantendosi però la libertà di navigazione. Non si doveva assolutamente ricorre a misure aggressive che avrebbero potuto peggiorare ancora di più la situazione. Nelle conversazioni tenute a Washington con il capo della CIA Allen Dulles, Fanfani espresse il suo pensiero:

un atteggiamento “interventista”, come quello britannico e francese, non avrebbe prodotto altro risultato che quello di farlo [Nasser] cadere in mano ai sovietici. Per il segretario della D.C. le iniziative da prendere rimanevano essenzialmente due: “fermare le tentazioni aggressive franco-britanniche e “trattare” con Il Cairo per arrivare ad una soluzione pacifica. Tali affermazioni fanno comprendere come la politica mediorientale di Fanfani fosse particolarmente invisa a coloro che, come i francesi, si battevano per una linea dura da perseguire contro Nasser.

Il discorso di Fanfani appare alquanto importante. Nel suo colloquio con Allen Dulles fece il tentativo di individuare i primi elementi di una posizione comune tra Italia e Stati Uniti. Il più rilevante era senz’altro impedire l’espansione dell’Unione Sovietica nel Mediterraneo attraverso una strategia di “coinvolgimento” dell’Egitto. Il primo obiettivo, quindi, non poteva che essere sbarrare la strada a qualsiasi avventura militare. Tentazione che, invece, sembrava presente nelle reazioni di Parigi e Londra. Indubbiamente, per Fanfani, la posizione italiana poteva essere efficace soltanto se avesse trovato un collegamento con quella degli Stati Uniti. Questo discorso, quindi, fu un passo in quella direzione che, nelle settimane successive della crisi, maturò in un allineamento pressoché completo tra Roma e Washington. Tutto ciò, però, richiese all’Italia una certa attenuazione delle sue posizioni, inizialmente piuttosto bilanciate nei confronti delle richieste egiziane. Nel complesso la crisi produsse, anche nel suo seguito, ripercussioni positive sul tono dei

rapporti fra l’Italia e gli Stati Uniti105.

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Dopo aver trascorso quasi un mese negli Stati Uniti tra colloqui, convention democratiche e repubblicane per le elezioni presidenziali, il viaggio di Fanfani volse al termine. Prima di partire per Roma fu però ricevuto, il 27 agosto, dal segretario di stato Dulles per discutere degli esiti della Conferenza di Londra e per esaminare sia l’atteggiamento della delegazione italiana sia la situazione internazionale. Nell’incontro venne sottolineato ancora una volta il legame creatosi tra i due i paesi ed è questo che il leader democristiano, alla fine della visita, raccontò ai giornalisti presenti sugli esiti del confronto:

‹‹Non avendo avuto la possibilità di incontrare il segretario di Stato la prima volta che sono venuto a Washington e mi sono incontrato con il presidente Eisenhower, sono venuto oggi mentre mi accingo al viaggio di ritorno. Abbiamo passato in rassegna i problemi più importanti della ormai tradizionale collaborazione tra Stati Uniti ed Italia. Ho fatto questo non come rappresentante dell’Italia ma come cittadino e uomo politico italiano. Quindi – egli ha proseguito – con quella discrezione che nella mia posizione si richiedeva, sono stato lieto di constatare che anche presso il segretario di Stato l’Italia trova sentimenti cordiale amicizia e comprensione. In fondo questa è stata la nota uniforme che negli incontri con gli uomini politici americani e con lo stesso presidente Eisenhower ho potuto constatare. Di ciò particolarmente debbo compiacermi nell’interesse del mio Paese e per lo sviluppo dell’amicizia dei nostri due popoli››106.

Dal punto di vista degli alleati NATO, il fallimento di Londra e dei successivi lavori del comitato Menzies, complicarono ulteriormente la situazione. Dal canto suo Fanfani voleva ad ogni costo che

106 Dichiarazioni di Fanfani a Washington dopo un colloquio con il Segretario di

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l’Italia fungesse da mediatore tra le parti in causa per evitare lo scoppio di un conflitto che non avrebbe aiutato nessuno. Appena rientrato dagli Stati Uniti, il segretario della D.C. informò Gronchi sui colloqui avuti a Washington e, per cercare di non compromettere i rapporti con gli americani, tentò in ogni modo di ricucire lo strappo creatosi. Con il sostegno del sindaco di Firenze Giorgio La Pira, i due esponenti democristiani individuarono nella figura dell’ex ambasciatore al Cairo, Giovanni Fornari, la persona giusta che avrebbe potuto trattare con Nasser per cercare di farlo ragionare nell’accettare una soluzione pacifica della situazione.

Fanfani e La Pira concordarono sul contenuto della comunicazione telefonica che “l’amico egiziano” avrebbe dovuto fare direttamente al Cairo: 1) Nasser [avrebbe dovuto] ricevere Fornari, domani latore di un consiglio del Governo italiano; 2) che Nasser [avrebbe dovuto] persuadersi che gli americani vogliono un’intesa; 3) che per il bene suo e dell’Egitto [avrebbe dovuto] secondare il progetto americano per una garanzia e controllo internazionale alla libera navigazione

del canale107.

Anche tramite l’aiuto del presidente dell’Eni, Fanfani cercò di trovare soluzioni e accordi possibili con il leader egiziano cercando di ammorbidire le sue posizioni. Come afferma Riccardi, ‹‹il segretario della D.C. intendeva utilizzare tutti i canali extragovernativi a sua disposizione per porsi al centro di un’azione

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che fosse all’origine di una nuova politica italiana verso il Medio Oriente e l’Egitto in particolare››108.

Ciononostante, gli sforzi compiuti dall’attività di Fanfani e dall’ala neo-atlantica del partito non portarono ai risultati. Ebbero un po’ di influenza su Nasser ma nessuna su Francia e Gran Bretagna. Quando il 13 settembre Eden si rivolse alla Camera dei Comuni ipotizzando un ricorso alle Nazioni Unite e non smentendo l’utilizzo delle armi, Fanfani fece sentire la sua voce condannando categoricamente l’eventuale attacco armato:

‹‹Non agitiamo le sciabole prima di avere esaurito gli argomenti della ragione››, ha detto oggi, a proposito della crisi di Suez, l’on. Fanfani, in un discorso dinanzi al Congresso dell’Internazionale della Gioventù democristiana. ‹‹Gli avvenimenti delle ultime settimane confermano che le divisioni nazionalistiche dell’Europa sono ormai un pericoloso anacronismo››; l’attuale livello degli avvenimenti storici richiede una ‹‹ordinata e sistematica azione›› unitaria dell’Europa. […] Particolarmente mordenti sono apparse le osservazioni critiche di Fanfani sul modo come si è atteggiato l’Occidente dinanzi alla questione di Suez. Si è voluta far valere, nella determinazione di una comune politica, ‹‹la solidarietà dei popoli liberi››; ma ‹‹questa non è efficacemente operante in campo internazionale, se le democrazie (come già fanno in quello interno) non ammettono alle supreme decisioni tutti i responsabili, evitando di lasciare libertà di iniziativa ad alcuni, e reclamando susseguente solidarietà di adesione da parte dei restanti popoli››. Fanfani ha voluto dare a queste parole una portata più precisa e insieme più