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1. Utilitarismo

1.3. Neoutilitarismo

L’economista britannico Henry Roy Forbes Harrod (1900-1978) compie, di fatto, il primo tentativo di revisione dell’utilitarismo e lo fa proprio a partire dalla considerazione che la riflessione filosofica non si conclude con la produzione di un sistema di pensiero astratto, essa deve anche rendere conto della coscienza morale comune. Il punto di partenza di Harrod è proprio la problematicità emersa dall’inconciliabilità tra teoria utilitaristica e pensiero morale ordinario, questione che abbiamo visto rimanere irrisolta in Moore.

Tale problematicità si sviluppa su due fronti: da una parte l’utilitarismo si distanzia dal senso comune per il fatto di attribuire un valore intrinseco ai fini, ritenendo quindi che vi sia una bontà di stati di cose, mentre invece, per il senso comune, ad essere buoni sono i mezzi220 e

i fini non sono né buoni né cattivi221; dall’altra parte l’utilitarismo non

considera opportunamente – ponendosi a una certa distanza anche in questo caso dal senso comune – il fatto che l’azione egoista, che produce una certa somma di bene, non è moralmente equivalente all’azione altruistica che produca la stessa somma di bene

Secondo questo autore «Gli atti sono moralmente significativi quando

riguardano i fini delle altre persone e sono moralmente buoni quando promuovono

219 Ivi, pp. 236-239.

220 Considera infatti errate le considerazioni di Moore sia in merito all’indefinibilità del

termine buono e sia per quanto riguarda la sua definizione intuitiva di bene.

221 Per questo motivo, a differenza di quanto sosteneva Bentham, il piacere non può

essere buono, ma possono esserlo i fini; e lo sono quando promuovono i fini o gli interessi altrui, in questo senso si esclude che la bontà come proprietà dei fini.

quei fini»222 e questo significa, senza alcun dubbio, mettere in primo piano

la dimensione teleologica (com’è ovvio per un autore che si occupi di utilitarismo) e tuttavia egli non ritiene che sia legittimo venire meno a un principio riconosciuto dalla coscienza morale ordinaria in nome del fine della felicità, qualche pagina più avanti al passo già citato Harrod afferma «Ci sono certi atti che se compiuti in n occasioni simili hanno conseguenze più di

n volte maggiori di quelle risultanti da un singolo compimento»223.

L’innovazione sta dunque nel fatto che pur tenendo presente le conseguenze di un atto si deve rispettare un principio o una norma per il fatto che tale violazione, se diffusa, darebbe luogo a conseguenze peggiori rispetto a quelle che deriverebbero dalle singole violazioni. In effetti la revisione di Harrod è orientata alla generalizzazione dei comportamenti in un contesto di norme morali socialmente accettate e riconosciute.

La teoria dell’obbligo ha qui per oggetto i codici morali, Harrod infatti ritiene che l’utilitarismo necessiti dell’integrazione con quella che lui considera la maggiore scoperta kantiana e cioè che si deve agire secondo una massima che possa diventare una legge generale, secondo la formulazione dell’imperativo categorico che si trova nella Critica della

ragion pratica. Di fatto si delinea un utilitarismo come etica normativa senza una metaetica utilitaristica ovvero un’etica normativa dell’interesse comune. Si tratta qui di una forma di non-cognitivismo.

I fini infatti sono oggetto di scelta e Harrod considera una “fallacia razionalistica” il fatto che la ragione sia in grado di discernere un imperativo insito nella natura delle cose. Un’etica di questo tipo infatti non può essere giustificata, è solo possibile determinare la moralità dei fini e questo si può fare attraverso un criterio di ordinamento per importanza dei fini ovvero per intensità dei moventi dei soggetti coinvolti.

222 Harrod H. R. F., Utilitarianism revised, in “Mind”, 45, 1936, p. 142 cit. in Fonnesu L., Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Carocci editore, Roma 2006, pp. 281-282.

Harrod di fatto prepara la strada ad una spaccatura dell’utilitarismo che si compirà nel ventennio successivo; incrinatura che si realizza a partire da due orientamenti contrapposti: una forma estrema, ovvero l’utilitarismo dell’atto, e una forma ristretta, cioè l’utilitarismo della norma; se questa ripartizione vale come una distinzione di fondo, bisogna anche aggiungere che in entrambe le posizioni si sviluppano versioni più o meno raffinate ma di fatto abbastanza diversificate.

Rimanendo sulla distinzione di fondo, i sostenitori dell’utilitarismo della norma, come abbiamo già anticipato con Harrod, ritengono che le norme morali siano in grado di massimizzare i benefici e considerano i loro punti di forza proprio gli argomenti che di fatto usano per criticare i sostenitori dell’utilitarismo dell’atto. L’utilitarismo della norma non solo tiene conto della complessità della deliberazione morale e prende in considerazione le strategie delle azioni altrui per poter valutare adeguatamente le conseguenze delle proprie azioni ma è anche aderente alla percezione comune degli obblighi morali.

Su questo sfondo comune poi si delineano, come abbiamo già osservato, posizioni diverse: se i codici morali debbano essere monistici o pluralistici, se siano ammesse o meno eccezioni e, non meno problematico, se possano o meno essere messi in discussione. In effetti una delle critiche più dure che arriva dall’utilitarismo dell’atto è senz’altro quella che fa riferimento al “massimizzare i benefici probabili” in quanto il rischio è quello di prescrivere azioni che conducono a una sofferenza che diversamente si potrebbe evitare. Il superstizioso culto della norma inserito in una prospettiva utilitaristica porterebbe cioè a contraddizione: per l’utilitarista che difende il proprio principio in quanto interessato alla felicità umana dovrebbe essere insostenibile il fatto di rinunciare al proprio valore in nome del rispetto di una norma che, oltretutto, vada a scapito proprio della felicità.

Anche per i sostenitori dell’utilitarismo dell’atto le cose non vanno meglio, le critiche che ricevono riguardano, come abbiamo già annunciato, quegli aspetti che caratterizzano i punti di forza dell’utilitarismo della norma; quindi non solo il fatto di non prendere in considerazione la complessità della deliberazione morale e non tenere in considerazione le azioni altrui, ma anche non essere in grado di distinguere tra obbligo morale e azioni supererogatorie224, e infine, proprio l’incapacità di

delineare l’ambito delle azioni morali renderebbe ogni singola azione moralmente significativa. Nonostante le forti critiche rivolte all’utilitarismo dell’atto questo non è da considerarsi superato; gli sviluppi mostrano semmai che entrambe le forme di utilitarismo, perseguendo il miglior insieme complessivo di conseguenze, si trovano di volta in volta a doversi confrontare con dei limiti il cui superamento sta proprio nell’inclusione di nuovi riferimenti che in genere appartengono a prospettive diverse. Uno dei possibili esempi è proprio quello che abbiamo esposto attraverso gli sviluppi dell’utilitarismo che pur avendo un impianto teleologico riconosce una base, anche se in alcuni casi minima225, deontologica.

Come vedremo tra un po’ il superamento di questa incrinatura si inserisce nella teoria di R. M. Hare il quale intende dimostrare che una struttura morale

comprende sia un elemento formale (una riformulazione del requisito che i principi morali siano rigorosamente universali), sia l’elemento sostanziale […] il quale riconduce il nostro pensiero morale a contatto con il mondo della realtà. Le conseguenze normative della nostra

224 Le azioni supererogatorie sono azioni che vanno al di là del dovere e vengono, per

questo motivo, attribuite a santi ed eroi.

225 Perfino John Jameson Campbell Smart (), convinto sostenitore dell’utilitarismo

dell’atto, nel 1956 in “Lineamenti di un sistema etico utilitaristico”, afferma che nella teoria utilitaristica l’unica norma è «massimizza i benefici probabili» (pp. 42-43), ovviamente qui ci sta dicendo che l’utilitarismo dell’atto fa dipendere le proprie valutazioni morali dalle probabili conseguenze delle azioni ma, nel dire questo, sta esattamente definendo una norma morale.

teoria utilitarista sono conseguenze della combinazione di questi due elementi[…] La mia non è né una semplice teoria di etica normativa, né una teoria metaetica, ma è entrambe le cose contemporaneamente226.