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Storie di vita e scrittura di sé

3. Autoformazione

3.4. Storie di vita e scrittura di sé

Pineau e Le Grand definiscono le storie di vita «come ricerca e costruzione di senso a partire da fatti temporali personali; essa [tale ricerca] innesta un processo di espressione dell’esperienza»184 e, tra le

varie pratiche che appartengono a questo ambito, viene inclusa anche l’autobiografia.

Questa definizione di storia di vita fonda le sue ragioni in primo luogo sul fatto che la vita non è una storia, o meglio, la vita è una mescolanza di caso e necessità la cui storia è una costruzione a partire da tracce passate e da punti di vista presenti. Da questa prospettiva la possibilità espressiva permette la costruzione della storia e questo significa «voler accedere alla storicità, cioè alla costruzione personale di senso – a partire da sensi ricevuti –, di non sensi e di controsensi che sgranano e scaglionano l’esperienza vissuta tra i due estremi: tra nascita e morte, tra organismo e ambiente»185. Accedere alla storicità significa infatti

relazionare il proprio tragitto esistenziale con un ambiente costituito anche da altri individui che caratterizzano quell’ambiente stesso; accedere alla storicità impone di coniugare passati complessi, futuri incerti, pulsioni

183 Ivi, p. 159.

184 Gaston Pineau, Jean-Louis Le Grand, (2002) Le storie di vita, Tr. it. di Giovanna

Granturco, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 2003, p. 15.

interne e intimazioni esterne.186 La storia di vita personale infatti si

concretizza inserendosi nel corso della vita sociale quotidiana.

La storia di vita e, in particolare – per quanto ci riguarda, l’autobiografia consentono di sviluppare una competenza che non è solo linguistica ma anche relazionale; non è infatti sufficiente riflettere intorno ad una esperienza se questa non viene inserita in un contesto col quale deve entrare in relazione, non solo, è necessario aggiungere che nondimeno la riflessione stessa si muove a partire da un determinato e – per quanto simile comunque diverso – contesto costituito da ciò che noi siamo e del quale è fondamentale avere consapevolezza.

In secondo luogo l’esperienza vissuta non accede alla storia – a un qualcosa di sensato, ordinato, datato – se essa non si esprime e si ripresenta.187 Ciò significa mettere l’esperienza in parola; si tratta di una

parola che simultaneamente si declina come presa di coscienza dall’interno e come autoposizionamento nell’esterno e rispetto all’esterno. «Queste “prese di parola” soggettive, che possono sembrare derisorie scientificamente per alcuni, sono vitali per il soggetto, perché lo articolano rispetto al suo ambiente e, al contempo, ne sono articolate»188. Come

abbiamo già detto la vita non è una storia ma una costruzione a partire da tracce passate e da punti di vista presenti; la costruzione personale di senso è ciò che costituisce quell’unità che chiamiamo individuo il quale tuttavia non è mai compiuto, la sua vita è costantemente in una fase transitoria e precaria. La narrazione dell’esperienza organizza l’esperienza stessa inserendola in quella particolare unità costituita anche da relazioni esterne. Ciò che restituisce la narrazione è il risultato di una riflessione che, mantenendo quell’unità, può trasformare l’individuo mettendo in atto ciò che Varela definirebbe un processo autopoietico. Ogni singolo

186 Ivi, p. 147. 187 Ivi, p. 98. 188 Ivi, p. 85.

evento189 infatti va ad inserirsi in una storia unitaria e continua che, per

via di quest’evento, viene riconfermata o rivista.

Se da un lato prendere la parola consente di inserire l’esperienza nella propria storia, dall’altro, implica la presenza di un destinatario che nel caso dell’autobiografia corrisponde in primo luogo all’individuo stesso, autore della storia, il quale si carica così di un duplice ruolo nella pratica del racconto: narratore e destinatario. Pineau e Le Grand sottolineano la problematicità dell’autobiografia rispetto a questa autoreferenzialità dell’autobiografo, sembra infatti mancare l’interlocuzione. Facendo un passo indietro tuttavia è possibile rintracciare proprio nella modalità di realizzazione di questa pratica una possibilità di distanziamento dell’autobiografo dalla sua narrazione: «lo scritto ha il vantaggio di fissare ciò che altrimenti è evanescente, è una traccia. In questo senso ha un effetto strutturante. Il passaggio allo scritto, attraverso il suo ritmo, attraverso la sua funzione di traccia, che può essere conservata e rapidamente comunicata, permette l’emergere di una situazione di enunciazione. In una prospettiva di ricerca questa scrittura non potrebbe essere effettuata come semplice “ritrascrizione” d’intervista» e poi «nessuno ha il ruolo esclusivo di esperto per quanto riguarda l’analisi del racconto»190. Si tratta di una responsabilità che l’autobiografo

si deve assumere se vuole intraprendere il cammino dell’emancipazione. Pineau e Le Grand, rifacendosi a Ricoeur191, sottolineano «la pratica del

racconto (scrittura e lettura) costituisce un’esperienza di pensiero che esercita ad abitare mondi estranei e implica “una provocazione a essere e agire diversamente”. Ma tale provocazione non viene realizzata se non attraverso una decisione.»192

189 Soprattutto se questo evento viene sperimentato come vitale. 190 Ivi, pp. 142-143.

191 Ricoeur P. (1983-1984-1985), Temps et récit, 3 tomi, Le Seuil, Paris.

192 Gaston Pineau, Jean-Louis Le Grand, (2002) Le storie di vita, Tr. it. di Giovanna

Come abbiamo già detto l’atto di scrivere costringe ad una distanziazione, dall’altro la possibilità di rilettura e rielaborazione che il testo scritto offre. Il testo scritto apre alla scoperta di sé perché offre la possibilità di soffermarsi ad esempio sulla scelta di un termine o di una frase ma anche di ritornare – in maniera rigorosa – sul già detto e su eventuali incongruenze. In questo senso, da un lato, Duccio Demetrio osserva: «Le parole sono autogeneratrici in scrittura di sé, non descrivono mai in verità. Non fanno scienza, inventano universi, viaggiano a velocità inimmaginabili»193 e, dall’altro, Laura Formenti suggerisce: «fissare alcuni

aspetti della propria storia nella pagina scritta significa così poterli “obiettivare temporaneamente” allo scopo di riuscire a gestirli, a ri- connotrarli in senso valoriale ed emozionale, eventualmente a modificarli»194. Infatti nonostante la modalità orale implichi una relazione

con l’altro, fatto questo, che può favorire ulteriori possibilità di apertura rispetto ad una modalità che in genere è caratterizzata da un’attività svolta in solitudine (anche se è importante sottolineare che – in linea di principio – questo confronto non è necessariamente escluso) dall’altro mette a disposizione un materiale su cui è sempre possibile ritornare successivamente consentendo un dialogo tra ricordi diversi e momenti diversi della memoria.

Volendo sintetizzare quanto abbiamo detto fino ad ora potremmo avvalerci delle parole di Laura Formenti:

La parola esprime, chiarifica, fa prender coscienza di tematiche vitali, di abitudini mentali e operative (habitus) date per scontate, di codici comportamentali ed esistenziali antichi, cui il soggetto si è mantenuto fedele spesso anche dopo che erano cessate le condizioni della loro generazione o mantenimento. O addirittura quando tali codici

193 Duccio Demetrio, Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé, Raffaello

Cortina Editore, Milano 2003, p. 221.

194 Laura Formenti, La formazione autobiografica. Confronti tra modelli e riflessioni tra teoria e prassi, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 1998 (2° ed. 2005), p. 170.

diventavano fortemente antiadattivi e generatori di impasse esistenziali.195

La scrittura di sé non solo chiarifica ma anche costruisce e offre nuove possibilità. «Ogni nostro ricordo è sempre una nuova, e sempre diversa, invenzione: un’imitazione pallida di quanto è realmente accaduto»196. La realtà quale essa sia, nel momento in cui viene trascritta,

con la disponibilità mentale che il lavoro autobiografico prima o poi esige, si trasforma in altro e infatti Duccio Demetrio afferma «ogni autobiografo celebre o modesto ha immaginato se stesso, a seconda degli intenti, ora nel peggior modo possibile, ora nel migliore, ora nella sua mediocrità»197. Ciò

accade perché stabilire connessioni tra ricordi significa ricomporne i significati e infatti «il ricordare è una conquista mentale, un apprendere da se stessi, un imparare a vivere attraverso un rivivere non tanto spontaneo, quanto piuttosto costruito, mediato, ragionato»198. Il passato non può

essere modificato tuttavia può essere riletto sulla base di nuovi incontri, nuove esperienze e nuove conoscenze assumendo così nuovi significati. Ricordare, da questo punto di vista, alimenta lo svolgere della nostra vita non solo perché ci consente di riconoscere tutto ciò con cui entriamo, giorno dopo giorno, in contatto ma anche e, in questo contesto, soprattutto perché ci offre l’opportunità di presentarci a noi stessi e comprendere ciò che siamo e questo apre, infine, una strada verso il futuro; il ricordo consente quindi non solo di vivere il presente e rappresentarci attraverso il nostro passato ma apre anche prospettive per il futuro.

Infine è importante sottolineare che ricordare non è solo una modalità che mettiamo in atto quotidianamente: nel contesto autobiografico la fase del ricordo richiede disponibilità all’autoascolto

195 Ivi, pp. 133-134.

196 Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sè, Raffaello Cortina Editore,

Milano 1996 (2° ed. 2004), p. 13.

197 Ivi, p. 53. 198 Ivi, p. 60.

perché, come osserva Laura Formenti, è proprio durante questo momento che «viene rivitalizzata e ri-esercitata la capacità e la disponibilità a riconoscersi e riconoscere parti di sé magari dimenticate»199 ed è proprio

questo il punto di avvio che ci consente di fondarci su una storia che possiamo sentire nostra ovvero, per tornare a Pineau e Le Grand, che rappresenta la nostra personale ricerca e costruzione di senso.