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La ricerca di senso

3. Autoformazione

3.5. La ricerca di senso

In questo contesto, parlando di ricerca di senso ci riferiamo non solo all’operazione di messa in moto della nostra facoltà di sentire ma, in senso più ampio, consideriamo tutto quel movimento implicato in una ricerca che comprende anche il silenzio, la domanda, la critica e il dialogo, finalizzato ad una visione d’insieme di sé, visione che, per quanto sia forte la nostra esigenza di stabilità, non viene però intesa come la costruzione di un’idea di sé unica e definitiva, e questo esige – come avremo modo di vedere in seguito – anche di una disponibilità all’incertezza. Luigina Mortari infatti osserva «il dialogo vero è […] quello messo in atto da soggetti che sanno tutta l’incertezza delle loro costruzioni cognitive e che, quindi, attivano processi di negoziazione dei significati da attribuire all’esperienza a partire dall’accettazione della natura fragile di ogni discorso, di ogni teoria e di ogni valutazione»200.

Ricercare un senso richiede una disponibilità al silenzio, richiede uno spazio in cui sia possibile muoversi per raggiungere l’inconsueto. Parlando del silenzio Galimberti afferma: «sottrae all’usura, che è il primo prodotto dell’uso quotidiano delle parole, sottratte al loro impiego abituale, nel silenzio le parole cessano di essere nostre abitudini e, proprio sospendendosi come tali, concedendosi a quell’epoché indicata da Husserl,

199 Laura Formenti, La formazione autobiografica. Confronti tra modelli e riflessioni tra teoria e prassi, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 1998 (2° ed. 2005), p. 193.

200 Luigina Mortari, Apprendere dall’esperienza, Carocci, Roma 2003 (5a ristampa 2008), p.

le parole, grazie al silenzio che le promuove in una diversione di senso, possono diventare luoghi del nostro nuovo abitare nelle prossimità dell’inconsueto, dove è dato anche a noi di conoscerci sotto altri profili, in quella dimensione straniera e a noi stessi estranea, che si è preclusa dal nostro marmoreo e ripetuto nome che ci inchioda a quell’unico senso edificato per esorcizzare estraneità, alterità, e, perché no, anche alienazione»201. Un silenzio quindi che non significa rinuncia ma,

all’opposto, rende possibile lo spazio per un nuovo incontro. Che ci permette di vedere con occhi diversi ciò che ci sta accanto. Proprio attraverso il silenzio ci accingiamo a volgere lo sguardo laddove non avevamo guardato prima. Il rischio è infatti quello di rimanere invischiati nell’abitudine, affidandoci sempre al già dato, al senso immediato, a ciò che risulta più economico ma che impoverisce non solo il nostro presente ma anche il nostro futuro. La nostra capacità di pensare e di progettare il nostro domani è indissolubilmente legata all’immagine che abbiamo di noi e al senso che attribuiamo alla nostra esistenza. E tuttavia attribuire un senso a ciò che accade significa anche mettere in parola quel senso, si tratta però di una parola attenta e pensata, ed è proprio qui che cogliamo il valore di un silenzio che non è ostinazione contro la superficialità quotidiana. Il silenzio fa spazio alla parola, si tratta, per usare le parole di Salvatore Natoli, di «un silenzio che non è l’assenza di parola ma è l’ascolto della sua attesa»202. Il silenzio in questo modo presenta la sua

relazione con la parola, ma si tratta di una parola che vuole essere diversa, non una parola che chiude il discorso ma che, al contrario, lo tiene aperto; una parola che chiede di conservare la sua polivalenza. Significativa è l’osservazione di Galimberti: «un ascolto è un vero ascolto se ascolta l’altro lasciandolo nella sua irriducibile alterità. Scopriremo poi che quell’”altro” siamo anche noi stessi di cui possiamo accorgerci solo quando saremo in

201 Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano 1994 (III ed. 2006), p.189.

grado di far tacere il discorso che quotidianamente facciamo su di noi nel tentativo, mai dimesso di restaurare quell’identità che è nostra costruzione, non nostra sostanza»203.

Siamo noi dunque ad attribuire un senso alla nostra esistenza e allora, come suggerisce Laura Formenti, «il senso è il nostro modo di “abitare l’ambiguità”, e il lavoro autobiografico propone concretamente come costruire senso a partire dalla caotica complessità della vita»204. La

ricerca di senso non è qui intesa come una strada percorsa in via definitiva e una volte per tutte, anzi si auspica invece che questa ricerca diventi una consuetudine, la capacita di pensare e ripensare se stessi e ciò che sta intorno. Solo la possibilità del cambiamento offre orizzonti nuovi e inaspettati o anche solo ripensati, e proprio nella costanza della ricerca è possibile rintracciare il valore aggiunto della costitutiva finitezza dell’essere umano.

La ricerca di senso, in questo contesto, si delinea come verità soggettiva e provvisoria, in quanto aperta a rettifiche e revisioni. Questo richiede però una disposizione particolare, non si tratta propriamente di superare il nostro limite e, d’altro canto, avere l’umiltà di accoglierlo non è sufficiente: è necessario anche assumersi la responsabilità di confrontarsi con esso. Salvatore Natoli, a questo proposito, osserva «la finitezza non si risolve […] in qualcosa di semplicemente dato, da riconoscere, da non violare con la tracotanza, da rispettare nell’obbedienza, ma diviene nozione complessa e tutt’altro che ovvia. Di essa, infatti, non ci sono noti nettamente i contorni – dove possiamo arrivare, dove no -; di essa bisogna venire a capo di volta in volta. Ed è qui che bisogna assumere

203 Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano 1994 (III ed. 2006), p.188.

204 Laura Formenti, La formazione autobiografica. Confronti tra modelli e riflessioni tra teoria e

responsabilmente il peso. Questo vale sia sul piano della condotta intellettuale, che dell’agire pratico»205.

205 Salvatore Natoli, Parole della filosofia o dell’arte di meditare, Feltrinelli, Milano 2004, p.

CAPITOLO QUARTO

DUE PROSPETTIVE ETICHE

La riflessione intorno all’etica accompagna da sempre, anche se in forme diverse, lo sviluppo del pensiero filosofico. In ogni epoca l’uomo ha fatto i conti con il proprio agire e, in particolare il filosofo, si è dovuto soffermare su questo; Aristotele, per fare un esempio, fa rientrare l’etica nelle scienze pratiche in quanto essa si occupa dell’agire umano e «per quel che concerne le cose pratiche, il principio risiede nell’agente, ed è un atto di libera scelta» (metaph. VI 1, 1025 b 20-25). Se da un lato dunque la filosofia non ha mai smesso di confrontarsi con questioni inerenti l’etica, e temi come libertà, virtù, felicità, bene, giustizia, dovere e molti altri segnalano sicuramente la regolare presenza dell’etica, dall’altro si deve anche notare che questa non sempre è stata al centro del pensiero filosofico; in questo senso, già a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si è potuta registrare un’inversione di tendenza che ha dato luogo ad un massiccio sviluppo dell’etica. Qui ci occuperemo solo di due teorie etiche tra quelle che hanno impegnato in anni recenti la filosofia morale, ci occuperemo in primo luogo dell’utilitarismo in alcuni suoi specifici passaggi per soffermarci poi in particolare sull’utilitarismo delle preferenze di Hare, passeremo poi all’etica delle virtù di MacIntyre. Queste due prospettive verranno poi riprese nell’ultimo capitolo dedicato all’etica della formazione.

Prima però di entrare nel merito delle teorie etiche che intendiamo prendere in considerazione, ci soffermiamo un momento su alcune precisazioni fondamentali per l’etica e in particolare per l’etica contemporanea. Il delinearsi, soprattutto in epoca moderna, di molteplici

teorie etiche che sono proliferate intrecciandosi tra di loro, o con altre esistenti più o meno cronologicamente vicine, ha dato luogo all’aumento esponenziale di distinguo e precisazioni di ogni genere. Questa vivacità, che può, per lo più, essere considerata arricchente dal punto di vista della riflessione filosofica, rende tuttavia estremamente arduo tracciare sinteticamente gli sviluppi dell’indagine etica senza imporre una semplificazione estrema e sicuramente poco utile. Per questo motivo ci muoveremo attraverso dei piccoli squarci funzionali alla trattazione che intendiamo proporre.

Solitamente per introdurre il tema dell’etica si usa prendere le mosse dalla distinzione tra le diverse impostazioni e solitamente si delinea la differenza tra etica teleologica ed etica deontologica. Per quanto riguarda l’etica teleologica, dal greco telos che significa scopo-fine, si deve dire che è l’etica del fine in quanto considera un atto giusto nella misura in cui questo è in grado di produrre un bene maggiore rispetto a qualsiasi alternativa possibile. Il presupposto di base è quello che ciò che è bene possa essere conosciuto. L’etica deontologica, invece, è l’etica della legge o del dovere; qui il presupposto di base è quello che tale leggi sono principi morali generali; con parole diverse e in contrapposizione all’etica teleologica potremmo dire che si tratta di una legge senza un contenuto in relazione all’immediato. Tuttavia, come vedremo introducendo l’utilitarismo, queste distinzioni tendono, specialmente in tempi recenti, a non costituire quella linea di confine tra posizioni nettamente contrapposte.

Altra peculiarità, introdotta questa dalla cosiddetta filosofia analitica in ambito etico, è quella di distinguere tra due diversi livelli di indagine ovvero viene identificato un primo livello normativo e valutativo che riguarda in maniera diretta l’agire umano e un secondo livello che invece si occupa principalmente, ma non solo, di questioni semantiche e ontologiche; tutto ciò di cui ci si occupa a questo secondo livello

appartiene all’ambito della meta-etica. Anche in questo caso la distinzione è stata in alcuni momenti più marcata che in altri, e in particolare in tempi recenti, pur nella distinzione, si è fatta valere l’esigenza di coniugare questi due ambiti.

L’esposizione, infine, tiene conto del contesto in cui ci stiamo muovendo che è quello della formazione; non ci occuperemo pertanto di mettere alla prova il valore teorico delle due prospettive di cui tratteremo, infatti l’intento di questo capitolo si limita ad una breve presentazione delle due diverse teorie etiche nei loro tratti peculiari, mentre si rinviano al capitolo successivo le considerazioni in merito alle differenze, alle particolarità e ai problemi che derivano da queste due diverse prospettive, naturalmente in relazione all’ambito della formazione.