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Neuroscienze e diritto: progresso o catastrofe?

Al di là dell‟enfasi e del rilievo dati dai mass media438 ad

entrambi i casi sopra illustrati, ci preme qui soprattutto comprendere qual è stato invece l‟atteggiamento dei giuristi che si sono posti su due diversi fronti contrapposti: uno più entusiasta e l‟altro più critico o cauto nei confronti dell‟ausilio di prove neuroscientifiche nel processo penale. Nel primo “fronte” rientra sicuramente Antonio Forza, uno dei primi commentatori delle sentenza di Trieste, che giudica il clamore suscitato come frutto di una lettura erronea o troppo superficiale. Secondo Forza l‟ausilio delle tecniche delle neuroscienze ai fini della valutazione della

13.05.2011; Redazione on line, Uccise e bruciò la sorella, il giudice: «Tra le cause alterazioni al cervello», in «Corriere della Sera», 29.08.2011; Redazione, Cirimido, uccise la sorella "Alterati i suoi geni", in «La Provincia. Il quotidiano di Como on line», 30.08.2011; Redazione, Nata per uccidere, è colpa dei geni. Sentenza storica della corte, in «AffariItaliani.it», 31.08.2011; Redazione, Ha inventato la macchina che smaschera i mentitori, in «Il Giornale», 11.09.2011.

437 S. Bencivelli, Il buio mentale in un‘immagine, in «Alias», ottobre 2011, n. 38, p. 9.

438 All‟interno dei problemi di neuroetica presenti nell‟attuale dibattito rientra anche quello relativo al rapporto tra mass media e società e, in particolare, al comportamento da tenere da parte del giornalista scientifico nel dare le notizie relative ai progressi delle neuroscienze, che spesso potrebbero alimentare false speranze, enfatizzando cure o metodi ancora in fase di sperimentazione. Su tale questione, per quanto riguarda le notizie legate alla nuova tecnica della stimolazione cerebrale profonda (DBS), si rinvia a D. Ovadia, Media e società. Bisogni e limiti legati alla comunicazione, in V. A. Sironi, M. Porta (a cura di), Il controllo della mente. Scienza ed etica nella neuro modulazione cerebrale, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 282-292, nonché, più in generale, D. Ovadia, Neuroetica e mass media (con un commento di F. Turone), in V. A. Sironi, M. Di Francesco, Neuroetica. La nuova sfida delle neuroscienze, cit., pp.168-181.

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responsabilità penale è quasi una naturale conseguenza della crisi della psichiatria e del concetto stesso di imputabilità. Dunque, sarebbe immotivato e infondato il timore della perdita del primato del giudice che risulterebbe ridotto a ratificare il lavoro svolto “oggettivamente” dalla scienza, ritenendo al contrario che «l‟ingresso delle Neuroscienze nel processo è destinato a segnare sicuramente un momento di svolta, un cambiamento di paradigma, per usare l‟espressione di Kuhn»439. In termini molto simili (citando

proprio il celebre saggio di Thomas Kuhn), si esprime anche Cataldo Intrieri secondo cui le neuroscienze avranno sul diritto un impatto devastante alla stregua delle grandi scoperte di Galileo e Einstein e, in particolare, ritiene che il caso di Trieste è l‟inizio di un processo di necessaria revisione della «obsoleta ed insostenibile suddivisione psicosi/disturbi caratteriali che sino ad oggi ha asfitticamente marcato il dibattito nella psichiatria forense»440.

Della stessa opinione appaiono anche Lusa e Pascasi i quali osservano come con l‟avvento delle neuroscienze, essendo possibile indagare anche sull‟effettivo stato psichico del reo e su quanto abbia influito nella commissione del reato il suo corredo genetico, si apra finalmente «un nuovo capitolo per il processo penale e per la futura definizione del criminale»441. Dopo aver commentato con tali

parole il caso Bayout gli stessi autori giudicano anche il caso Albertani definendo tale sentenza “rivoluzionaria” per aver

439 A. Forza, Le Neuroscienze entrano nel processo penale, in «Rivista penale», 2010, 1, p.78. Analoghe considerazioni si trovano anche in Id., Neuroscienze e diritto, in «Rivista penale», 2009, 3, pp. 247-255.

440 C. Intrieri, Neuroscienze e diritto: una nuova teoria giuridica sulla mente, in F. Caruana (a cura di), Scienze cognitive e diritto, cit., p. 265.

441 V. Lusa, S. Pascasi, I confini dell‘imputabilità: l‘influenza della genetica sulla pericolosità sociale, in «Ventiquattrore Avvocato», 2011 n. 7-8, p. 15.

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“accolto” il fattore genetico nel processo penale442, sottolineando

come – sulla falsa riga di quanto già dichiarato in merito alla sentenza triestina – ormai «la neuroscienza si appresta a divenire un rilevante strumento di indagine della mens rea, da condursi anche alla stregua della biologia dell‟encefalo, radicata sullo studio dei geni indicati come potenziali fattori scatenanti dell‟aggressività umana»443. Più che una svolta la sentenza di Trieste rappresenta

invece quasi una “naturale evoluzione” dei metodi già in uso per valutare l‟imputabilità, secondo Andrea Lavazza e Luca Sammicheli i quali ritengono come sia esagerato voler leggere tale sentenza come un rivoluzionario e scandaloso verdetto, in cui si crea un legame diretto tra profilo genetico-cerebrale e commissione del reato, poiché i giudici individuerebbero tale deficit genetico solo come una concausa dell‟infermità mentale già prevista nel nostro codice e, in precedenza accertata con metodi psicologici. L‟ingresso delle neuroscienze avrebbe avuto, secondo tale interpretazione, solo un effetto probatorio, limitandosi ad un «approfondimento e a un ammodernamento dei metodi con i quali si può dare contenuto ad una categoria giuridica pacificamente accertata (l‟imputabilità)»444. Questo atteggiamento nei confronti

dell‟ingresso delle neuroscienze nelle aule di giustizia, indubbiamente positivo ma caratterizzato al contempo da un

442 «Se, come è stato sostenuto dagli studiosi, è sufficiente la presenza di un solo allele sfavore volere per “favorire” la condotta antisociale del criminale, il Gip comasco non poteva rassegnare conclusioni difformi da quelle formulate, essendo ben tre gli alleli “incriminati” riscontrati nell‟imputata» (V. Lusa, S. Pascasi, Il Tribunale ―accoglie‖ il fattore genetico nel processo penale, nota a Tribunale di Como, Gip, decisione 20.08.2011, in «Altalex», 21.09.2011 disponibile su http://www.altalex.com/index.php?idnot=15547.

443 Ibidem.

444 A. Lavazza, L. Sammicheli, Se non siamo liberi, possiamo essere puniti?, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice Edizioni, Torino 2010, p. 157.

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intento di “ridimensionamento” della portata di tale decisione, accomuna paradossalmente445 anche coloro che sono stati i reali

“artefici” della sentenza di Trieste, vale a dire i periti Sartori e Pietrini (nominati poi C.T. della difesa, come abbiamo visto, nel caso Albertani). Nel commentare il caso Bayout entrambi cercano di mettere a tacere le critiche mossegli da più parti di aver emesso una “sentenza genetica” che sottintende un approccio deterministico alla soluzione della questione della capacità di intendere e di volere. A tali „accuse‟ i due scienziati replicano di non voler in alcun modo sostenere «l‟esistenza di alcun determinismo tra profilo genetico e comportamento»446, dichiarando

piuttosto di agire per ridurre il «grado di soggettività che spesso caratterizza le perizie in ambito psichiatrico»447. Sia Sartori che

Pietrini sembrano convinti del fatto che la nozione di responsabilità penale non muti con l‟avvento delle tecniche derivanti, bensì diventi più alto il livello di «oggettività»448,

precisando come sia finalmente possibile «discutere su temi quali il libero arbitrio e la capacità di autodeterminazione avvalendosi del contributo delle neuroscienze superando quindi un punto di vista sostanzialmente teorico»449. Ciò consentirebbe, anzi, di poter

445 È paradossale il tentativo di smorzare i toni visto che sono stati proprio i periti e gli avvocati coinvolti nei due processi a parlare di sentenza “rivoluzionaria”, “storica” o del “primo caso al mondo” in cui si valuta l‟imputabilità con le tecniche offerte dalle neuroscienze. Un esempio di tale atteggiamento è rintracciabile in Redazione, Ha inventato la macchina che smaschera i mentitori, in «Il Giornale», cit.

446 S. Pellegrini, P. Pietrini, Siamo davvero liberi? Il comportamento tra geni e cervello, in F. Caruana (a cura di), Scienze cognitive e diritto, cit., p. 288.

447 Ivi, p. 289. Più o meno negli stessi termini anche in G. Sartori, A. Lavazza, L. Sammicheli, Cervello, diritto e giustizia, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 155.

448 S. Codognotto, G. Sartori, Neuroscienze in tribunale: la sentenza di Trieste, in F. Caruana (a cura di), Scienze cognitive e diritto, cit., p. 269.

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parlare di «libero arbitrio applicato»450 ovvero tutte le singole fasi

precedenti che compongono un‟azione volontaria valutabili – a detta di Sartori – in modo sistematico grazie alle neuroscienze. Non a caso Sartori e Codognotto nel commentare la sentenza di Trieste elencano i vari metodi offerti dalle neuroscienze e messi in atto nel caso Bayout, per “valutare le componenti del libero arbitrio” che si traducono nei mezzi offerti in campo psicopatologico, neuropsicologico, della neuroimaging e della genetica comportamentale, ovvero gli stessi metodi “certi‖ e “oggettivi‖ adottati per il caso Albertani, tanto da dover costituire oramai – si auspicano gli autori delle perizie – «lo standard nella determinazione della sussistenza della infermità di mente»451.

Su un fronte diametralmente opposto è possibile rintracciare tutti gli studiosi che hanno accolto in maniera tiepida, se non del tutto critica i due casi giurisprudenziali. In tal senso si pone la riflessione di Pietro Barcellona che da anni cerca di porre un freno all‟egemonia della “narrazione post-umana” che intende ridurre il cervello a computer e il corpo umano a macchina composta da elementi sostituibili con microchip o sofisticate protesi bio- ingegneristiche, come se, in un delirio di onnipotenza, dopo il tentativo di “uccidere Dio” si stia cercando di “uccidere l‟uomo”. A proposito del caso Bayout, Barcellona non sembra avere dubbi: di fronte ad una simile decisione l‟essere umano in quanto tale non ha «nulla da opporre, in nome di se stesso, all‟intervento violento e devastante delle macchine prodotte da altri uomini»452. È alquanto

scettico anche Francesco D‟Agostino, che pur considerando il

450 Ibidem.

451 G. Sartori, A. Lavazza, L. Sammicheli, Cervello, diritto e giustizia, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 156.

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campo delle neuroscienze sia affascinante, avverte della necessità irrinunciabile di avere maggiori conferme prima che tali tecniche possano invadere il piano giuridico-sociale, concludendo che senza dubbio sia «evidente la grossolanità»453 della sentenza di Como,

poiché in caso contrario condurrebbe a conseguenze paradossali e disumani traducendosi in un obbligo di dover rinchiudere tutti coloro che si ritengono scientificamente violente perché incapaci di controllare le loro pulsioni, in maniera perpetua o fino a quando «un‟altra perizia non dimostrasse la scomparsa di queste pulsioni; o finché non venissero, infine, efficacemente rimosse con tecniche biomediche»454. Su questa scia si pone anche Giampaolo Azzoni il

quale osserva come il caso di Trieste operando una reductio del diritto alla biologia neghi di fatto ogni residuo di autonomia del soggetto, mettendo in atto «una vera e propria antinomia che segna la tarda modernità nella sua critica al diritto rivelandone la matrice ultimamente nichilista»455. Su un piano più squisitamente

giuspenalistico si pone invece la critica al caso Bayout di Salvatore Aleo che non condivide i toni «marcatamente giustificazionistici, indulgezialistici»456 della sentenza, incentrata sull‟insostenibilità

del principio della mitigazione della pena per chi è naturalmente

453 Cfr. P. Nessi, D‘Agostino: non basta una pulsione per condizionare la nostra volontà, in «Il Sussidiario.net», 30.08.2011;

454 Ibidem.

455 G. Azzoni, La convivenza in una società plurale: eclissi o ritorno del diritto? (Prolusione al Corso di Teoria Generale del Diritto AA. 2010/11) p. 6, disponibile su http://blog.centrodietica.it/wp-content/uploads/2011/04/la- convivenza-in-una-societa-lezione-inaugurale.pdf.

456 S. Aleo, S. Di Nuovo, Responsabilità e complessità. Il diritto penale di fronte alle altre scienze sociali. Colpevolezza, imputabilità, pericolosità sociale, Giuffrè, Milano 2011, p. 107.

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più aggressivo, da cui deriva un palese «abbassamento della funzione di difesa sociale»457.

Ma, come anticipato, il dibattito innescato dai due casi italiani ha varcato i ristretti confini nazionali, coinvolgendo anche illustri studiosi come Stephan Schleim458 storico della psicologia presso

l‟Università di Groningen, il quale in un lungo articolo459 che

commenta entrambe le sentenze, contesta l‟assunto principale che sta alla base di entrambe: l‟esistenza di un “cervello criminale” o di un “gene del crimine”. Secondo Schleim, infatti, è errato il presupposto di partenza utilizzato dai due neuroscienziati italiani, cioè che sia possibile identificare una determinata area cerebrale assegnando a quest‟ultima una funzione in particolare. Quest‟idea sarebbe il risultato di una visione che risente ancora degli studi del XIX secolo mentre molteplici studi e dati dimostrerebbero che a determinati stimoli si attiverebbero molteplici aree cerebrali (fino a venti, in certi casi, sparpagliate in tutto il cervello), per cui non è possibile isolare “l‟area dell‟aggressività” o quella “dell‟emotività” come vorrebbero lasciar intendere i consulenti intervenuti nei due casi. Ancora più serrata è la critica al tentativo di tradurre le ricerche genetiche in campo giuridico penale espressa dal notissimo docente di diritto penale (oltre che di rapporti tra diritto e psichiatria) della Penn University, Stephen J. Morse che si occupa da anni del concetto di responsabilità penale, libero arbitrio

457 Ibidem.

458 Autore di interessanti volumi sul rapporto tra neuroscienze, diritto e società, di cui si vedano, almeno, S. Schleim, Die Neurogesellschaft: Wie die Hirnforschung Recht und Moral herausfordert, Heise Verlag, Hannover 2010 e Id., Von der Neuroethik zum Neurorecht, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen

2009.

459 S. Schleim, Hirnforschung führt erneut zu Strafminderung in Mordfall, in

«Heise Online», 02.09.2011, disponibile su

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e imputabilità, assumendo un ruolo di rilievo nel dibattito su neuroscienze e diritto. Morse afferma infatti causticamente che i geni non hanno uno “stato mentale” e non possono commettere crimini, mentre le persone sì460. Malgrado Morse non neghi che il

possesso del gene MAO-A con bassa attività - specie se accompagnati ad episodi di abusi subiti durante l‟infanzia - possano aumentare considerevolmente il rischio di condotte violente e antisociali, è da escludere che una predisposizione genetica ad una condotta criminale come quella riscontrata nel caso di Trieste possa essere ritenuta di per sé una circostanza attenuante o una scriminante. Credere che il possesso di un determinato corredo genetico possa avere un rapporto di causalità diretta con la diminuzione della capacità di intendere e di volere è secondo lo studioso statunitense il rischio più pericoloso che corre chi tenta di mettere in relazione i risultati scientifici con la valutazione della responsabilità penale. Questo rischio, definito da Morse già da tempo «the „fundamental psycholegal error‟»461 ovvero

proprio l‟errore in cui sarebbero caduti anche i periti e i giudici italiani nei casi esaminati.