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Quella che con terminologia condivisa dal lessico d’uso comune si chiama residenza corrisponde ad un concetto giuridico al tempo stesso molto antico e molto recente. Molto antico perché da sempre l’ordinamento, avvertendo l’esigenza di attribuire rilevanza al rapporto tra la persona e lo spazio, ha preso in considerazione la sede della persona come luogo nel quale essa è stabilmente situata ed esercita la maggior parte della propria attività spirituale; molto recente (anche se sarebbe meglio dire “relativamente” recente) perché solo a partire dal 1865 il legislatore italiano, disattendendo sotto questo profilo l’esempio francese del code civil, ha codificato la nozione di residenza in modo autonomo rispetto a quella di domicilio, secondo un modello che è stato successivamente ripreso nel codice attualmente vigente. L’art. 43 di quest’ultimo afferma che «il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi», mentre «la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale».

Dell’interpretazione di queste norme si è occupata la scienza civilistica, anche giovandosi del contributo di teoria generale di importanti studiosi tra cui Francesco Carnelutti. Quest’ultimo, nel ripercorrerne l’evoluzione storica, ha messo in evidenza come la nozione giuridica di residenza sia nata per effetto di un processo di

tipiche condizioni oggettive cui fa riferimento l’Autore.

300 Art. 139 cod. proc. civ.

301 L’art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689 rinvia all’art. 139 cod.

gemmazione – indotto dalla necessità di affinare lo strumentario giuridico in corrispondenza della accresciuta mobilità degli individui

302 – che ha investito la nozione di domicilio303. In questo modo

l’originario ed unitario concetto di domicilio, composto dall’elemento materiale del dimorare in un luogo e dall’elemento spirituale dell’avervi stabilito la sede principale dei propri affari ed interessi, si è smembrato in due concetti distinti, uno dei quali ha conservato l’antico nome, mentre all’altro si è conferito, appunto, quello “nuovo” di residenza.

L’odierno domicilio è un’entità che prescinde dalla stabile presenza fisica della persona in un certo luogo, essendo invece decisiva la destinazione impressa a quest’ultimo quale centro dei suoi interessi patrimoniali e personali304. La sostanza della residenza, al

contrario, è essenzialmente fisica e corrisponde al fatto del “dimorare”, cioè dello stare o del trattenersi (questo è il significato del verbo latino morari) in un determinato luogo col carattere della abitualità305. L’abitualità, che costituisce elemento distintivo della

residenza dalla semplice dimora306, rimanda al concetto di abitudine, 302 Cfr. anche P. FORCHIELLI, Domicilio, residenza e dimora (dir. priv.), in Enc.

dir., p. 845.

303 Cfr. F. CARNELUTTI, Studi di diritto civile, Milano, 1916, p. 33 ss.

304 Osserva C.M. BIANCA, Diritto civile, I, Milano, 2002, p. 272, che il dato

oggettivo della concentrazione in un luogo degli affari ed interessi è il risultato di un atto giuridico della persona. «La nozione di domicilio è quindi quella di un collegamento creato da un atto giuridico della persona, che è la fissazione del domicilio. A questo atto si richiama esplicitamente la legge nel definire il domicilio come luogo in cui la persona ha stabilito il centro dei suoi affari ed interessi».

305 Molto spesso vi è coincidenza tra il luogo del domicilio e quello della

residenza, tant’è che la legge prende espressamente in considerazione questa possibilità, laddove afferma che «Quando una persona ha nello stesso luogo il domicilio e la residenza e trasferisce questa altrove, di fronte ai terzi di buona fede si considera trasferito pure il domicilio, se non si è fatta una diversa dichiarazione nell’atto in cui è stato denunciato il trasferimento della residenza» (art. 44, comma 2, c.c.).

306 Osserva P. MOROZZODELLA ROCCA, Il diritto alla residenza, cit., p. 1022, a

proposito della stabilità della dimora, che «(q)ui l’aggettivo caratterizza e forse sovrasta il sostantivo, segnando per intero la differenza tra due condizioni ben diverse: il trovarsi in un luogo e il risiedervi».

L’abitualità, secondo la dottrina maggioritaria, comporta anche un’altra fondamentale caratteristica della residenza: il suo essere necessariamente unica, giacché è inconcepibile che un soggetto possa avere l’abitudine di risiedere in due o più luoghi contemporaneamente, senza che almeno uno di essi esprima una prevalenza di tipo quantitativo e/o qualitativo. Oltre a F. CARNELUTTI, op. cit., p. 74, il

cioè ad una serie ripetuta di comportamenti analoghi che rendono socialmente prevedibile la prosecuzione degli stessi. La giurisprudenza, tuttavia, non richiede necessariamente, affinché possa considerarsi acquistata la residenza, che questa successione di comportamenti conformi si sia già verificata; è piuttosto sufficiente, per determinare il momento dell’acquisto, «accertare che la persona abbia fissato in (un) posto la propria dimora con l’intenzione, desumibile da ogni elemento di prova anche con giudizio “ex post”, di stabilirvisi in modo non temporaneo»307.

Si sostiene normalmente, in considerazione di ciò, che la residenza sia la risultante di due elementi: l’uno di tipo oggettivo, costituito dalla stabile permanenza del soggetto in un determinato luogo, l’altro di tipo soggettivo, costituito dalla volontà di rimanervi in modo duraturo308. Questa ricorrente affermazione richiede d’essere

precisata, tuttavia, poiché tende a confondere il piano, autenticamente soggettivo, dell’intenzione, con il piano, essenzialmente oggettivo, dei comportamenti considerati idonei ad esteriorizzarla. Si vuol dire che l’accertamento dell’abitudine a dimorare in un luogo è di per sé sufficiente a fondare la sussistenza della residenza, senza che a ciò possa esser d’ostacolo una contraria volontà del soggetto – anche espressa in modo esplicito – o addirittura la sua convinzione di risiedere altrove. Se è vero, infatti, che l’elemento volontà della persona può giocare un ruolo positivo «ai fini della possibilità di qualificare come abituale la sua dimora nel luogo scelto»309, altrettanto

vero è che non basta la mancanza di tale elemento ad escludere la residenza in quel luogo, quando le consuetudini di vita della persona e

dell’abitudine di dimora», v.: L. MONTUSCHI, Del domicilio e della residenza, in Commentario al codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro Primo,

Bologna, 1970, p. 21; P. FORCHIELLI, op. cit., p. 847; A.D. CANDIAN, op. cit., p. 120.

Favorevole alla possibile coesistenza di più residenze è invece C.M. BIANCA, op. cit.,

p. 279, che però riconosce come la legge ammetta una sola residenza anagrafica.

307 Così Cass. Civ., Sez. I, 6 luglio 1983, n. 4526. La dottrina ha rilevato, a

questo proposito, che la giurisprudenza usa contrapporre al concetto di abitualità, di cui all’art. 43 c.c., il concetto parzialmente diverso della stabilità, per cui non è necessario che la relazione tra l’individuo e lo spazio sia perpetua o continua, essendo invece importante la ragionevole presunzione dell’indefinita permanenza del soggetto in un luogo. In questi termini, cfr. L. MONTUSCHI, op. cit., p. 8.

308 Cfr., ex multis, Cass., Sez. Un., 21 giugno 1956, n. 2185; Cass., 26 ottobre

1968, n. 3586; Cass., 17 gennaio 1972, n. 126; Cass., 23 marzo 1972, n. 892; App. Genova, 30 giugno 1982; Cass., Sez. I, 5 febbraio 1985, n. 791; Cass., Sez. II, 14 marzo 1986, n. 1738; Cass. pen., Sez. III, 14 gennaio 1998, n. 1933; Tar Marche, 6 agosto 2003, n. 955.

lo svolgimento da parte sua delle normali relazioni sociali rivelino, suo malgrado, l’abitudinarietà del dimoravi310. Anche serbando ogni

giorno l’intenzione di abbandonarla, fin tanto che non si sarà tradotta in un comportamento consequenziale e conforme, questa intenzione rimarrà priva di qualsiasi effetto sulla residenza attuale.

Del tutto condivisibile, da questo punto di vista, appare l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale la residenza costituisce una res facti, «basata sulla presenza stabile di un soggetto in un determinato ambito spaziale e scarsamente influenzabile dall’atteggiamento intenzionale, se non esteriorizzato in un comportamento di vita di carattere consuetudianario»311.

Che il profilo soggettivo non assurga ad elemento costitutivo della fattispecie normativa, del resto, lo confermano i non rari casi di residenza obbligatoria previsti dalla legge – rispetto ai quali non è revocabile in dubbio la (almeno tendenziale) carenza di volontarietà in ordine alla fissazione in loco della dimora abituale312 – nonché la

circostanza per cui, al contrario di quanto avviene per il domicilio313 310 L’accertamento della residenza, pertanto, non corrisponde logicamente

all’accertamento di un reato, nel quale coesistono necessariamente e con pari dignità una componente oggettiva e una soggettiva, di guisa che in difetto di quest’ultima (quando si provi, ad esempio, nei reati dolosi, che l’imputato non abbia voluto commettere il fatto) il reato non viene neppure ad esistenza; per la residenza la situazione è differente, in quanto anche l’accertamento positivo circa la mancanza di volontarietà non la esclude laddove l’abitudine del dimorare sia dimostrata.

311 Cass. civ., 28 ottobre 1985, n. 5292. In dottrina, cfr. R. PANOZZO,

Residenza e anagrafe della popolazione tra passato (remoto), presente (prevalentemente giurisprudenziale) e futuro (necessariamente normativo), in Lo stato civ. it., 2006, p. 597, secondo cui «la residenza è, essenzialmente, un fatto: la

dimora abituale del soggetto in un determinato luogo», rispetto al quale la componente volontaristica, «per acquisire giuridica rilevanza, non può manifestarsi soltanto nel foro interno, ma deve esteriorizzarsi nelle consuetudini di vita e nello svolgimento delle normali relazioni sociali: cioè, pur sempre, in un fatto».

312 Si pensi, in particolare, al caso del detenuto condannato, del quale è

prevista l’iscrizione nell’anagrafe del comune nel cui territorio è situato l’istituto carcerario di esecuzione della pena.

313 Con riguardo al minore, l’art. 44, comma 2, c.c., stabilisce che questi «ha

il domicilio nel luogo di residenza della famiglia o quello del tutore. Se i genitori sono separati o il loro matrimonio è stato annullato o sciolto o ne sono cessati gli effetti civili o comunque non hanno la stessa residenza, il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive». Il successivo comma 3, poi, prevede a proposito dell’interdetto che questo «ha il domicilio del tutore». Questa disciplina speciale si spiega con la base volontaristica del domicilio, e quindi con la necessità di garantirne la titolarità anche a chi risulta sprovvisto della necessaria capacità legale. La circostanza che analoga disciplina non sia prevista con riferimento alla residenza diviene pertanto un indice significativo della tendenziale irrilevanza degli stati

(nel quale la componente intellettuale è sicuramente preponderante), la legge nulla prevede di particolare con riferimento alla residenza dell’incapace.

Ciò chiarito, è certamente corretto riconoscere all’elemento intenzionale almeno una importante funzione: quella di contribuire in modo decisivo ad escludere che abbia a verificarsi un trasferimento di residenza ogniqualvolta il soggetto debba allontanarsi per periodi più o meno lunghi di tempo dal posto di abituale dimora per motivi di studio, di viaggio, di lavoro, di villeggiatura o altro314. Se infatti consta

la volontà dell’individuo, una volta esaurita quella esperienza, di fare ritorno al luogo di provenienza, e le sue attuali condizioni di vita non appaiono in contraddizione con la potenziale realizzazione di questo proposito, si dovrà concludere nel senso che egli mantiene inalterata la propria residenza per tutta la durata dell’allontanamento315.

Quelle qui rapidamente esposte sono le acquisizioni basilari cui la scienza giuridica è pervenuta a partire dalla scarna definizione di residenza contenuta nel codice civile. Esula dagli obiettivi del presente studio, inteso piuttosto ad enfatizzare la rilevanza amministrativistica

soggettivi ai fini del concretizzarsi della stessa.

314 In questo senso, l’art. 3, comma 2, del regolamento anagrafico stabilisce

che «Non cessano di appartenere alla popolazione residente le persone temporaneamente dimoranti in altri comuni o all’estero per l’esercizio di occupazioni stagionali o per causa di durata limitata». A ciò si deve aggiungere quanto previsto dall’art. 8 dello stesso regolamento, ai sensi del quale «Non deve essere effettuata, né d’ufficio, né a richiesta dell’interessato, l’iscrizione anagrafica nel comune, per trasferimento di residenza, delle seguenti categorie di persone: a) militari di leva, nonché pubblici dipendenti e militari di carriera (compresi i carabinieri, il personale di polizia di Stato, le guardie di finanza ed i militari che abbiano, comunque, contratto una ferma) distaccati presso scuole per frequentare corsi di avanzamento o di perfezionamento; b) ricoverati in istituti di cura, di qualsiasi natura, purché la permanenza nel comune non superi i due anni; tale periodo di tempo decorre dal giorno dell’allontanamento dal comune di iscrizione anagrafica; c) detenuti in attesa di giudizio».

L’intenzione del soggetto può essere determinante del trasferimento di residenza quando questi lo voglia ma non sia ancora riuscito a tradurre in atto questa volontà. L’esempio proposto da P. FORCHIELLI, op. cit., è quello di chi, giunto a

lavorare a Torino, pur desiderandolo non vi abbia ancora acquistato la casa, e dunque continui, ancora per qualche mese, a fare la spola con Milano. In questo caso potrebbe essere corretto riconoscere comunque la residenza a Torino. Lo stesso Autore è dell’opinione, peraltro, che «all’infuori dei casi di trasferimento di residenza, l’intenzione del soggetto non possa assumere un ruolo altrettanto decisivo».

315 Cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. II, 14 marzo 1986, n. 1738; Tar Marche,

dell’istituto, un maggior grado di approfondimento analitico nell’affrontare questo argomento. Ciò che preme sottolineare, tuttavia, è che la genericità degli elementi costitutivi della nozione di residenza, rappresentati da concetti giuridici indeterminati di difficile soluzione, rende assai delicate le funzioni accertative facenti capo all’autorità amministrativa316.