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Nozione e rilevanza comunitaria della residenza

La nozione di residenza è ben nota anche all’ordinamento comunitario, che infatti se ne serve già a livello di Trattato istitutivo373.

L’art. 61 (ex art. 54) stabilisce che «Fino a quando non saranno soppresse le restrizioni alla libera prestazione dei servizi, ciascuno degli Stati membri le applica senza distinzione di nazionalità o di residenza a tutti i prestatori di servizi contemplati dall’art. 56, primo comma». Il successivo art. 65 (ex art. 58), poi, a proposito della libertà di circolazione dei capitali, prevede che essa non pregiudica «il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti

Scoca, Bologna, 2001, p. 2185; A. CARIOLA, Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione, in Dir. proc. amm., 1991, p. 218 ss.

371 Questa disposizione non contempla, fra le eccezioni di cui al comma 4, i

procedimenti anagrafici; né risulta che tale esclusione sia stata disposta attraverso i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministeri cui lo stesso comma 4 fa rinvio. Se ne ricava, pertanto, la piena soggezione della materia anagrafica al meccanismo del silenzio-assenso.

372 Raccontano A. MUMOLO e P. PIZZI, Il diritto alla residenza: la prima causa

degli avvocati di strada, in www.nuovamente.org, di come il Comune di Bologna,

per lungo tempo inerte di fronte alla richiesta di residenza proveniente da un cittadino senza fissa dimora, abbia successivamente impiegato, in seguito alla notifica di un ricorso d’urgenza, appena sette giorni a riconoscergli il diritto all’iscrizione anagrafica.

373 Oggi denominato, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona,

«Trattato sul funzionamento dell’Unione europea», al quale corrisponde la numerazione degli articoli riportati nel testo.

che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale». Al limitrofo concetto di dimora, inoltre, fa riferimento l’art. 45 (ex art. 39), ai sensi del quale la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità comprende il diritto di «prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali»374.

A tali disposizioni del Trattato, che, come si può constatare, sono inserite nel contesto della disciplina delle cosìddette libertà comunitarie fondamentali, si aggiungono poi le disposizioni di singoli provvedimenti di diritto derivato, i quali non mancano, talvolta, di fornire esplicite definizioni della nozione in esame: è il caso del regolamento (CE) n. 883/2004375, relativo al coordinamento dei

sistemi di sicurezza sociale, che definisce la residenza come «il luogo in cui una persona risiede abitualmente» e la dimora come «la residenza temporanea», nonché della direttiva n. 83/182/CEE, relativa alle franchigie fiscali applicabili all’interno della Comunità in materia d’importazione temporanea di taluni mezzi di trasporto, secondo cui, ai fini dell’applicazione delle disposizioni in essa contenute, «si intende per “residenza normale” il luogo in cui una persona dimora abitualmente, ossia durante almeno 185 giorni all’anno, a motivo di legami personali e professionali oppure, nel caso di una persona senza legami professionali, a motivo di legami personali che rivelano l’esistenza di una stretta correlazione tra la persona in questione e il luogo in cui abita»376.

374 Non v’è dubbio, peraltro, che in questo caso il termine “dimora” sia

utilizzato in senso atecnico e generico, quindi in modo tale da comprendere anche il concetto di residenza.

375 Tale regolamento va a sostituire, abrogandolo, il precedente regolamento

(CEE) n. 1408/1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi ed ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità.

376 La disposizione continua così: «Tuttavia, nel caso di una persona i cui

legami professionali siano risultati in un luogo diverso da quello dei suoi legami personali e che pertanto sia indotta a soggiornare alternativamente in luoghi diversi situati in due o più Stati membri, si presume che la residenza normale sia quella del luogo dei legami personali, purché tale persona vi ritorni regolarmente. Questa condizione non è richiesta allorché la persona effettua un soggiorno in uno Stato membro per l’esecuzione di una missione di durata determinata. La frequenza di un’università o di una scuola non implica il trasferimento della residenza normale. 2. I privati forniscono le prove del luogo della loro residenza normale con tutti i mezzi, in particolare con la carta d’identità, o mediante qualsiasi altro documento valido.

Come è stato osservato, l’uso che il diritto comunitario fa della residenza è «funzionale a promuovere la libera circolazione delle persone e la loro libertà di stabilimento nei territori dei diversi stati membri»377. Per questo l’attenzione della giurisprudenza comunitaria

si è più volte concentrata su disposizioni nazionali finalizzate a mascherare, dietro lo schermo apparentemente neutro della residenza, autentiche discriminazioni basate sulla nazionalità378. Così è accaduto

che l’Italia sia stata condannata, ad esempio, per aver mantenuto in vigore una regolamentazione che imponeva di avere una residenza o un domicilio professionale in Italia per prestare servizi dinanzi all’Ufficio italiano dei brevetti, avendo con ciò contravvenuto a quanto stabilito dagli artt. 49-55 TCE379. Analogamente, la Corte di

Giustizia ha censurato le disposizioni del Regno Unito che esigevano che almeno il 75% dei membri dell’equipaggio di un’imbarcazione avessero la residenza in territorio britannico per la concessione di una licenza di pesca che autorizzasse ad imputare le catture nel contingente nazionale, in quanto una simile prescrizione costituiva una «discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri»380.

Qualora le autorità competenti dello Stato membro d’importazione abbiano dubbi circa la validità della dichiarazione della residenza normale effettuata in conformità del paragrafo 2 od anche ai fini di taluni controlli specifici, dette autorità possono chiedere qualsiasi elemento d’informazione o prove supplementari».

377 A.D. CANDIAN, op. cit., p. 121.

378 Nella sentenza 12 febbraio 1974, causa C-152/72, Giovanni Maria Sotgiu

c. Deutsche Bundespost, la Corte di Giustizia CE ha affermato che «Le norme

relative alla parità di trattamento vietano non solo le discriminazioni palesi, in base alla cittadinanza, ma anche qualsiasi discriminazione dissimulata che, fondandosi su altri criteri di distinzione, pervenga in effetti al medesimo risultato. Il tener conto, come criterio per l’attribuzione indennità di separazione, del fatto che il lavoratore ha la residenza in un altro Stato membro può, in determinate circostanze, costituire una discriminazione vietata. Ciò non avviene se, nell’attribuire detta indennità, si tiene conto di differenze obiettive nella situazione dei lavoratori, a seconda che al momento dell’assunzione, essi abbiano la residenza nel territorio nazionale oppure all’estero».

379 Corte di Giustizia CE, causa C- 131/01, 13 febbraio 2003, Commissione c.

Repubblica italiana. L’inadempimento dell’Italia rispetto agli obblighi derivanti dal

Trattato è stato altresì constatato, per analoghe ragioni, nelle sentenze 6 gennaio 2003, causa C-388/01, in relazione alle agevolazioni, riservate ai soli residenti, per l’ingresso ai musei, agli scavi archeologici ecc.; 18 gennaio 2001, causa C-162/99, in relazione all’obbligo di residenza per i dentisti; 29 maggio 2001, causa C-263/99, in relazione all’attività di consulenza per la circolazione dei mezzi di trasporto riservata ai titolari di un’autorizzazione amministrativa rilasciabile ai soli residenti.

Talvolta la carica discriminatoria insita nell’istituto della residenza viene stigmatizzata attraverso norme giuridiche affermative di espliciti divieti. Emblematica, in questo senso, è la disposizione di cui all’art. 7 del sopra citato regolamento n. 883/2004, rubricata «Abolizione delle clausole di residenza». Essa vuole assicurare che le prestazioni in denaro dovute in base alla legislazione sociale di uno o di più Stati membri, ovvero del regolamento medesimo, non vengano a subire «alcuna riduzione, modifica, sospensione, soppressione o confisca per il fatto che il beneficiario o i familiari risiedono in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova l’istituzione debitrice».

Si introduce, così facendo, un principio di tendenziale irrilevanza non solo della cittadinanza, ma anche della residenza, ai fini dell’individuazione della legislazione statale in tema di sicurezza sociale applicabile ai lavoratori comunitari. Si legge nel punto 16 delle premesse al regolamento che «All’interno della Comunità non c’è in linea di principio alcuna giustificazione per far dipendere i diritti in materia di sicurezza sociale dal luogo di residenza dell’interessato; anche se, in determinati casi specifici, in particolare per prestazioni speciali che hanno un legame con l’ambiente economico e sociale dell’interessato potrebbe essere preso in considerazione il luogo di residenza». Se si vuole favorire la libera circolazione dei lavoratori

380 Corte di Giustizia CE, causa C-279/89, sentenza 17 novembre 1992,

Commissione delle Comunità europee c. Regno Unito.

In un altro caso, la Corte di Giustizia ha ritenuto che il diritto alla parità di trattamento non osta a una normativa nazionale che subordina il beneficio di un’indennità per persone in cerca di lavoro a una condizione di residenza, purché tale condizione sia giustificata sulla base di considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate e adeguatamente commisurate allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale (sentenza 23 marzo 2004, causa C- 138/02, Brian Francis Collins e Secretary of State for Work and Pensions).

Cfr., anche, Corte di Giustizia CE, sentenze: 8 marzo 2001, causa C- 215/99, Friedrich Jauch c. Pensionsversicherungsanstalt der Arbeiter; 25 febbraio 1999, causa C-90/97, Robin Swaddling c. Adjudication Officer; 5 marzo 1998, causa C-160/96, Manfred Molenaar c. Allgemeine Ortskrankenkasse Baden-Württemberg; 27 novembre 1997, causa C-57/96, H. Meints c. Minister van Landbouw,

Natuurbeheer en Visserij; 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Finanzamt Köln- Altstadt c. Roland Schumacker; 10 novembre 1992, causa C-326/90, Commissione delle Comunità europee c. Regno del Belgio; 6 giugno 1985, causa C-157/84, Maria Frascogna c. Caisse des Dépots et Consignations; 7 febbraio 1979, causa C-115/78, J. Knoors c. Segretario di Stato per gli affari economici; 18 gennaio 1979, cause C-

110/78 e C-111/78, Pubblico Ministero e A.S.B.L. c. Willy Van Wesemael ed altri; 3 dicembre 1974, causa C-33/74, Johannes Henricus Maria Van Binsbergen c.

Bedrijfsvereniging Metaalnijverheid; 12 febbraio 1974, causa C-152/73, Giovanni Maria Sotgiu c. Deutsche Bundespost.

comunitari e la parità di trattamento fra gli stessi, la soluzione migliore è piuttosto quella che individua come legislazione sociale applicabile, in via generale, la legislazione dello Stato membro nel cui territorio l’interessato esercita la sua attività subordinata o autonoma. Il fatto di prestare la propria opera all’interno di uno Stato a condizioni analoghe a quelle che esso assicura ai propri cittadini implica, infatti, la necessità di un’equiparazione anche nel godimento dei diritti in materia di sicurezza sociale previsti dalla legislazione di tale Stato (così il punto 17).

Sulla base di queste previsioni, si apprezza pienamente come, soprattutto all’interno dello spazio giuridico europeo, si realizzi una vera e propria “frammentazione” dei rapporti giuridici dell’individuo con gli enti territoriali. È possibile infatti – e l’ordinamento comunitario si fa carico di disciplinarne le conseguenze – che una stessa persona cumuli su di sé un rapporto di cittadinanza, un rapporto di residenza, uno di dimora381 ed uno di lavoro (inteso come

prestazione in loco di un’attività lavorativa autonoma o subordinata) con diversi Stati membri, ed è possibile, altresì, che egli abbia propri familiari sul territorio di altri Stati ancora382. Tutto ciò, specie nel 381 L’art. 19 del reg. 883/2004 prevede che «[…] la persona assicurata e i suoi

familiari che dimorano in uno Stato membro diverso dallo Stato membro competente hanno diritto alle prestazioni in natura che si rendono necessarie sotto il profilo medico nel corso della dimora, tenuto conto della natura delle prestazioni e della durata prevista della dimora. Tali prestazioni sono erogate per conto dell’istituzione competente dall’istituzione del luogo di dimora, ai sensi delle disposizioni della legislazione che essa applica, come se gli interessati fossero assicurati in virtù di tale legislazione».

Nella sentenza 8 giugno 2009, causa C-337/97, la Corte di Giustizia CE ha affermato che il figlio a carico di un cittadino di uno Stato membro, che svolga la propria attività di lavoro autonomo in un altro Stato membro pur mantenendo la propria residenza presso lo Stato di cui ha la cittadinanza, può ottenere il finanziamento dei propri studi alle stesse condizioni previste per i figli dei cittadini dello Stato di stabilimento, senza che possa essere imposto un requisito supplementare relativo alla residenza del figlio medesimo. Cfr., in senso analogo, Corte di Giustizia CE, 26 febbraio 1992, causa C-3/90.

382 La Corte di Giustizia, nella sentenza 7 luglio 2005, causa C-153/03,

Caisse nazionale des prestations familiales, ha affrontato la questione avente ad

oggetto l’individuazione dello Stato competente ad erogare le prestazioni familiari in favore di una lavoratrice comunitaria che prestava la propria attività in uno Stato diverso (il Lussemburgo) da quello dove risiedeva insieme al figlio e al marito (la Germania). Interpretando le disposizioni del regolamento n. 1408/1971, il giudice comunitario ha affermato la regola per cui, quando la prestazione familiare maturi in base alla legislazione propria di due Stati membri, il Paese chiamato a farsene carico è quello di residenza del nucleo familiare, mentre lo Stato di occupazione è tenuto a

momento in cui viene assunto – ed è questo il caso del diritto comunitario – come un valore da perseguire, pone l’esigenza di diversificare opportunamente le discipline giuridiche in ragione dei vari tipi di collegamento che il soggetto presenta con le diverse realtà territoriali nelle quali si svolge la sua esistenza.

Nessuna sorpresa, dunque, se alla dinamicità impressa dall’ordinamento comunitario allo stile di vita degli individui corrisponde la svalutazione delle forme di appartenenza territoriali più «statiche» a vantaggio di quelle più dinamiche ed «occasionali».

Si ha così che la cittadinanza, la quale integra la forma in assoluto più stabile di relazione dell’individuo con l’ente territoriale, assume per l’ordinamento comunitario un significato prevalentemente negativo, quello di possibile ostacolo, come tale da neutralizzare, rispetto alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione. La residenza, a sua volta, poiché implica anch’essa un grado significativo di stabilità nel rapporto con un certo territorio, viene per lo più guardata con diffidenza e trattata alla stregua della cittadinanza nazionale. Ma ciò non impedisce, tuttavia, che in virtù della sua natura essenzialmente oggettiva, idonea a differenziarla sensibilmente dallo status civitatis, essa venga anche utilizzata, per vari fini, come criterio al quale ancorare la produzione di effetti giuridici. Tra questi spicca il noto riconoscimento del diritto di voto, in occasione delle elezioni comunali, in capo ai cittadini europei residenti in uno Stato membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza383. È questo uno degli

aspetti nei quali meglio si coglie l’accresciuto spessore della residenza, e il contributo offerto in questo senso dal diritto comunitario384.

Anche ai fini del riconoscimento e dell’esercizio del diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo, peraltro, attenta dottrina385

non ha mancato di rilevare come la giurisprudenza della Corte di

corrispondere soltanto l’eventuale differenza che dovesse intercorrere tra le prestazioni previste dalle rispettive legislazioni.

383 Secondo quanto previsto dalla direttiva del Consiglio 19 dicembre 1994, n.

94/80/CE.

384 G. BERTI, Cittadinanza, cittadinanze e diritti fondamentali, in Riv. dir.

cost., 1997, p. 15, afferma che, attraverso il riconoscimento del diritto primario di

circolare e soggiornare su tutto il territorio dell’Unione, «viene valorizzata la “residenza”, come titolo, diverso dalla cittadinanza e quasi autonomo rispetto a questa, per esercitare il diritto di voto e di eleggibilità nelle elezioni comunali e in quelle del Parlamento europeo». «In tal modo», prosegue l’Autore, «una condizione di fatto quale è la residenza scalza la vecchia cittadinanza formale proprio nel campo dell’esercizio di diritti di partecipazione politico-amministrativa o politica».

Giustizia si sia mostrata particolarmente incline alla valorizzazione del criterio della residenza rispetto a quello della cittadinanza europea, al punto che, in un importante caso, è stata riconosciuta la non illegittimità dell’estensione del diritto di voto alle elezioni europee alle persone prive della cittadinanza europea residenti a Gibilterra386.

Emerge, da tutto ciò, come il diritto comunitario abbia piena consapevolezza dell’importanza della residenza quale criterio reale, non fittizio o astratto, di collegamento tra la persona e la comunità politica nella quale si svolge la sua esistenza.

Il che, a ben vedere, non è altro che un riflesso del più ampio fenomeno in forza del quale è lo stesso istituto della cittadinanza europea a conferire alla residenza, all'interno dell'Unione, un'importanza per l'innanzi sconosciuta. Come si vedrà nel capitolo successivo, infatti, mediante il riconoscimento della libertà di circolazione e di soggiorno in Stati membri diversi da quello di appartenenza e la correlativa affermazione del divieto di discriminazioni fra i cittadini europei, si ottiene l'effetto della

385 V. I. CIOLLI, Titolarità del diritto di voto per le elezioni del Parlamento

europeo, e G.E. VIGEVANI, Diritti di elettorato, tra cittadinanza e residenza, entrambi

in Quad. cost., 2007, p. 173 ss. e p. 176 ss.

386 Corte di Giustizia CE, 12 settembre 2006, causa C-145/04, Regno di

Spagna c. Regno Unito. Il caso portato all’attenzione della Corte riguardava il modo

in cui il Regno Unito aveva dato attuazione alla sentenza Matthews della Corte europea dei diritti dell’uomo del 18 febbraio 1999, la quale prevedeva la necessità di estendere le elezioni per il Parlamento europeo anche a Gibilterra, Paese nel quale, ai sensi dell’art. 299, n. 4, TCE, si applica il diritto comunitario. Ebbene, poiché il Regno Unito ha esteso il diritto di voto anche ai Qualifing Commonwealth Citizens, che sono cittadini del Commonwealth ma non cittadini comunitari, la Spagna ha proposto contro il Regno Unito un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 227 TCE. La Corte di Giustizia ha però riconosciuto che, seppure l’art. 19, n. 2, TCE, «prevede che i cittadini di uno Stato membro godono del diritto di elettorato attivo e passivo nel proprio paese ed impone agli Stati membri di riconoscere tali diritti ai cittadini dell’Unione che risiedono sul loro territorio, non se ne può tuttavia dedurre che uno Stato membro non possa concedere il diritto di elettorato attivo e passivo a determinate persone aventi con esso uno stretto legame, pur non possedendo la cittadinanza di questo o di un altro Stato membro». Tale stretto legame, nel giudizio della Corte, è innanzitutto quello che discende dalla possesso della residenza.

In una contestuale decisione, poi, la Corte di Giustizia ha espressamente affermato che «allo stato attuale del diritto comunitario nulla osta a che gli Stati membri definiscano, nel rispetto del diritto comunitario, le condizioni per il diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni del Parlamento europeo facendo riferimento al criterio della residenza sul territorio nel quale le elezioni sono organizzate» (sentenza 12 settembre 2006, causa C-300/04, Eman e Sevinger c.

sostanziale parificazione, all'interno degli Stati membri, tra i residenti stranieri aventi la cittadinanza dell'Unione e i cittadini nazionali.

Le più compiute definizioni di residenza rinvenibili a livello comunitario sono quelle fornite dalle direttive nn. 83/182/CEE (già citata) e 2006/126/CE, concernente, quest’ultima, la patente di guida. Ai fini della loro applicazione, esse designano attraverso la nozione di

residenza normale «il luogo in cui una persona dimora abitualmente,

vale a dire per almeno 185 giorni all’anno, per interessi personali e professionali o, nel caso di una persona che non abbia interessi professionali, per interessi personali che rivelino stretti legami tra la persona e il luogo in cui essa abita».

Dell’interpretazione di questa definizione è stata più volte investita la Corte di Giustizia387, la quale ha costantemente affermato il

principio secondo cui la residenza normale comprende tantoil legame, professionale e personale, di una persona con un luogo determinato, quanto la durata di tale legame, e che, pertanto, tali elementi devono essere esaminati cumulativamente. Ne consegue che essa «dev’essere considerata come il luogo in cui l’interessato ha stabilito il centro permanente dei suoi interessi»388. I dati di fatto che devono essere

presi in considerazione dal giudice nazionale per accertare la sussistenza di tale presupposto comprendono, oltre alla presenza fisica della persona interessata, «quella dei suoi familiari, la disponibilità di un’abitazione, il luogo dove i figli frequentano effettivamente la scuola, il luogo d’esercizio delle attività professionali, il luogo in cui vi siano interessi patrimoniali, quello dei legami amministrativi con le