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Oggi 27 marzo alle due del pomeriggio, sono riuscita a svuotare completamente la

CAPITOLO SECONDO

LETTERA APERTA: LO STILE E LE PRINCIPALI ESPUNZION

II.5 Dentro il testo, per una lettura filologica

44 Oggi 27 marzo alle due del pomeriggio, sono riuscita a svuotare completamente la

cassapanca ed a metterla al sole – è primavera – perché si asciughi. Buttate tutte le parrucche, i nastri marciti, steso sul letto lo scialle di mia madre. I colori sono assortiti straordinariamente ed intatti. Sta lì, non ne ho più paura. Il grido? Si è sperso nell’aria, la finestra era aperta e c’era molto sole. Vedrò, dopo, quel grido. Oggi, almeno in qualcosa sono riuscita a mettere ordine: la cassapanca. I libri, le fotografie, le lettere… vedremo domani… Oggi sono riuscita a toccare quello che per trenta anni non ero riuscita nemmeno a sfiorare. E questo mi ha svuotata, dovrò aspettare per riprendere questo… “Chiunque agisce, non deve vere fretta…” guardarsi dalla fretta. O forse, non riprenderò più questo discorso… Vedo che è vero: una gioia equivale ad una grande pena.

Oggi, 27 marzo, sono libera. Sarebbe meglio smettere qui, che ne dite? Certo qualcuno di voi dirà: “Che aspetti?” Non parlo con te. Allontana lo sguardo, non siamo al cinema: hai ancora la possibilità di agire di tua volontà e non sottostare a quelle immagini ingigantite che parlano con il linguaggio dei sogni (con il mezzo più primordiale ed infantile) Ai tuoi sensi-emozioni, rendendo supina la tua intelligenza, pigra la volontà. Avete mai pensato che il cinema somiglia alla masturbazione? Me ne sono accorta un giorno che davano un bellissimo film e che il pubblico, 45 entusiasmato cominciò un applauso pieno, ma che presto si smorzò: a chi applaudivano? Chi l’avrebbe raccolto? Non c’era nessuno, lo schermo era spento. Nessuno si sarebbe affacciato a raccogliere quegli applausi. Osservai bene i visi delusi e vergognosi come dopo un amore solitario, senza un altro corpo fra le braccia dopo l’orgasmo. Questa è la grande civiltà del teatro che nessuno gli potrà togliere mai. Parlino pure di “crisi del teatro” sono trent’anni che ne sento parlare ma l’uomo si potrà accontentare solo della masturbazione? Bene. Ecco che sono scivolata in un’ennesima divagazione. Non ci badate, non ne avrete da subirne più. Fra due mesi avrò quarantun anni, fra due mesi saranno tre anni che ho cominciato questo lavoro d’ordine e… Scusate vi ho detto una bugia (le scuse sono, non perché vi ho detto una bugia, ma perché mi permetto di rivelarvela, così, come se niente fosse): non avevo cinquant’anni quando cominciai a parlare con voi, ma quarant’anni e qualche mese. Fa qualche differenza? Siete arrabbiati? Ve l’avevo detto che avrei anche mentito. E permettetemi di aggiungere – non per cercare attenuanti, credetemi – ma questa bugia era necessaria, come sono quasi sempre le bugie: un bambino, per non soccombere alla mediocrità dei suoi genitori, non ha ragione di raccontarsi e raccontare agli altri che è figlio di un principe e che quelle persone con le quali vive lo hanno rubato a quella che sarebbe stata la sua vera vita? E così io, per avere il coraggio di parlare di me stessa con voi, ho dovuto ricorrere a questo mezzo 46 infantile. Cercherò di spiegarmi meglio: quando cominciai a scrivere, lavorai ad un romanzo – ottocento pagine! – cercando di nascondermi dietro un nome maschile. Poi mi accorsi che erano cose mie che non avendo il coraggio di dire, appioppavo a quel povero protagonista. Insomma la solita donna che per avere in coraggio di parlare si traveste di panni maschili. Lo capii leggendo il saggio della De Beauvoir Il secondo sesso e se c’è fra voi, qualche ragazza che porta la cravatta o gli sta spuntando la barba, le consiglio di tralasciare questo discorso e di leggersi quel libro prezioso. Bene, capito questo – fra il capire e l’agire c’è di mezzo… no, non il mare ma le emozioni – non potei fare a meno di nascondermi, ancora, dietro una finzione anche se minima fare finta di essere già quasi vecchia. Fingere di essere vecchi dà un’illusione di sicurezza, di essere un altro, quell’altro “noi” sconosciuto a noi stessi che sarà fra dieci, quindici anni. Come sarai tu? Era il minimo che potessi fare... Ma come mai, la gioia di essere riuscita a svuotare questa cassapanca sigillata dalla muffa – ricordi di vent’anni mi paralizza oggi come ieri la pena di essere fraintesa dal mio amico? È possibile che una gioia equivalga ad un dolore? “La felicità non ha storia” diceva Tolstoj. O siamo, anche in questo viziati da quel dolorismo estetico-cristiano che… certo, è possibile. Sono una presuntuosa. Solo perché non sono stata battezzata credevo di essere sfuggita alla fascinazione di quell’uomo bellissimo nel suo dolore sulla croce. Sì, mi vergogno di 47 non soffrire, di non essere inchiodata ad una croce qualsiasi e temo – non tanto per voi quanto per me – che questa vergogna mi chiuderà la bocca come me l’ha chiusa per tanti anni

anche se protestavo la mia “libertà” insieme a tanti “intellettuali liberi”… La felicità non ha storia

La felicità non ha storia

La felicità non ha storia… Non posso parlare, ma non è vero. La felicità ha storia. Almeno questo prima di smettere, lo voglio gridare: la felicità ha storia e per dirla alla Cecov: anche se questa colpevolezza che ci hanno inculcato ci impedisce di parlare della felicità, fra cinquanta, cento anni l’uomo riuscirà a ripiantare gli alberi, i boschi della gioia seccati dalle tue lacrime Cristo… La felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta… insegnata. Gridiamolo a tutti questi addolorati per passività – come me del resto – ad una educazione (civiltà culturale) che, buttata dalla finestra, rispunta dai fori del muro cavalcando il topo dell’estetismo. E così tutti noi annebbiati da questo vizio pernicioso finiamo per vedere e a descrivere soltanto le nostre pene. Solo pochi pur essendo figli di questi duemila anni “doloranti”, sono riusciti a selezionare queste pene e dolori, studiarle, portarne alla luce la matrice, obbiettivarle e tramutarle in conoscenza positiva (scientifica) che è poi gioia. Piegando il ferro del suo dolore nel disegno armonico di una cancellata 48 contro l’infinito (assoluto) Leopardi fomenta in chi l’incontra e non lo fraintenda un entusiasmo vitale. “La natura malvagia” il suo “fato” tornano in fondo ad essere gli dei della mitologia greca con i quali si poteva lottare. E a volte strappargli il fuoco… Avessimo continuato di lì! Orgoglio di battersi con un Dio. Orgoglio. Si è perso smarrito nell’ornato Liberty sullo sfondo delle nuvole rosee di un Pascoli, di un Puccini… Ed anch’io, anchilosata dalla vergogna di questa gioia che m’è sbottata dentro all’improvviso, me ne starò zitta. Mi rileggerò sotto la guida di Leopardi, la mitologia greca: non resta che ricercare questo orgoglio che con tanto zelo ci hanno lavato al fonte battesimale, e così, nudi, in preda a tutte le correnti d’aria dei sensi di colpa, vergognosi di questa nostra carne peccatrice. Vieni e dammi uno schiaffo lettore-fratello che come me ti vergogni di essere felice. Vieni e dammi uno schiaffo. Ti porgerò l’altra guancia.

11 (LA)

Oggi, 27 marzo, 1965, alle due del pomeriggio, sono riuscita a svuotare completamente la cassapanca ed a metterla al sole – è primavera – perché si asciughi. Buttate tutte le parrucche, i nastri marciti, steso sul letto lo scialle di mia madre. I colori sono straordinariamente assortiti ed intatti. Sta lì, non ne ho più paura. Il grido? Si è sparso nell’aria, la finestra era aperta e c’era molto sole. Penserò dopo a quel grido. Oggi, almeno in qualcosa sono riuscita a mettere ordine: la cassapanca. I libri, le fotografie, le lettere, vedremo domani. Oggi sono riuscita a toccare quello che per trent’anni non ero riuscita nemmeno a sfiorare. E questo mi ha svuotata, dovrò aspettare per riprendere il discorso, o forse non lo riprenderò più.

Oggi, 27 marzo, sono libera. Ma come mai, la gioia di essere riuscita a svuotare questa cassapanca sigillata dalla muffa – ricordi di vent’anni – mi paralizza, oggi, come ieri la paura di ascoltare dietro quella porta? È possibile che una gioia equivalga ad un dolore? «La felicità non ha storia» diceva Tolstoj. Ma non è vero. La felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta, insegnata.

I capitoli portano alla riflessione su due tematiche: quella della felicità, del tutto contrapposta a quella della morte, e quella dell’autorialità delle donne scrittrici. A partire da questo è possibile evidenziare che la presa in causa di Simone de Beauvoir e de Le Deuxième Sexe (1949) è anticipata da un’assunzione di responsabilità di Sapienza: quella di essersi calata in panni di un uomo al fine

di condurre la prosa di un precedente romanzo (e probabilmente Carluzzu)112 attraverso la voce di un narratore e personaggio maschile. Dal punto di vista narratologico, se si valuta poi la scelta di affidare alcune riflessioni al fratello Ivanoe in LA, come si è avanzato, si avrebbe una differenza che sposta poco più in là una modalità di gestione della voce narrante. È invece di estremo interesse la motivazione che soggiace al testo e che porta Sapienza a citare de Beauvoir: il superamento di un codice di condotta delle scrittrici che è già stato affrontato (in II.1) a proposito di Natalia Ginzburg, la quale asseriva, nel 1963, di non sentirsi in linea con la scrittura delle donne ma di aver affrontato poi questo fatto senza colpe, lavorando su di sé.

Charlotte Ross e Gloria Scarfone hanno rilevato, a questo livello, alcuni motivi queer presenti nell’opera di Sapienza. Sebbene nella narrazione la protagonista vivrà un’esperienza lesbica, dal mio punto di vista la messa in campo della scrittrice e saggista francese continua il catalogo di citazioni scelte dall’autrice proponendo il taglio autobiografico ma anche un tentativo di emancipazione dal rigore maschile ‘strettamente editoriale’ cui sarà sottoposta durante l’editing.

Com’è accaduto per le precedenti esposizioni, anche in questo caso non si andrà in profondità circa la comparazione delle varianti poiché appare più funzionale uno sguardo dall’alto, tenendo conto del fatto che le diverse cassature e i tagli di intere porzioni sono da attribuirsi, secondo mia ipotesi, a Enzo Siciliano.

La datazione che apre (var. 112), ripresa in LA da I (e non da A), così come le età della protagonista (var. 127) possono essere considerate come indicazioni testuali di scrittura. Oggi, 27 marzo, 1965 si unisce a Fra due mesi avrò quarant’anni (I) e Fra due mesi avrò quarantun anni (A), indicando il biennio 1964-1965, e più precisamente anche il mese di marzo: la primavera come stagione lo testimonia. Le date restano uno spunto per trattare della vecchiaia e della “crisi del teatro” di quegli anni. Lo stesso modello di riferimento, con le date esplicitate nel testo, è presente anche nel Filo di mezzogiorno; in particolare nel cap. 10 troviamo un calco di LA: «“In che anno siamo?” “Nel 1962” […] Oggi 27 marzo 1966 è un anno che uscì dalla mia porta. Non l’ho rivisto

più: ho fatto male.»113 Se si valuta la continuità editoriale di entrambi i testi dal punto di vista di Siciliano, questa coincidenza appare parlante e allineata ad un sistema di scelte più ampio ed estensibile ben oltre Lettera aperta.114

Tornando all’analisi: ciò che resiste anche in LA è il riferimento a Tolstoj La felicità non ha storia (var. 140), probabilmente tratto dall’elaborazione di un concetto presente nei suoi diari e taccuini;115 il trattamento della felicità avrebbe anche una radice in Stendhal per lei,116 ma si avvale soprattutto di due altre fonti. La prima è Cecov (var. 142), che ne Il giardino dei ciliegi (1903), nel finale del terzo atto, fa pronunciare ad Anja queste parole: «Pianteremo un altro giardino, più bello di questo, vedrai, e tu capirai e allora la felicità, una felicità serena, profonda scenderà nella tua anima, come il sole quando è sera e sorriderai, mamma!» (trad. it. di Ferdinando Bruni); Sapienza riconnette il tema della felicità con il naturale, come fa Cecov. L’altro modello prescelto è invece Leopardi (var. 147), del quale rovescia il dolore e il pessimismo – in quegli anni ancora molto presente anche dal punto di vista della critica – per dare una lettura della sua vitalità legandola alla mitologia greca di cui la Sicilia è impregnata.

Il nuovo appello al lettore-fratello, nel finale, espunto in LA prosegue la scelta dei diversi appelli già iniziata in precedenza. Si tratta di una prassi insistente nel romanzo, tanto da ritenerla fondamentale soprattutto in I.117

Per ciò che concerne i prossimi capitoli si è scelto di trascrivere soltanto una breve porzione di essi per sottolineare le differenze che vi sono con LA, l’edizione che non presenta il rimando al lettore-fratello. L’insistenza tematico-lessicale dell’autrice fa comprendere come, in un primo progetto di scrittura, l’impronta sterniana fosse importante e dichiarasse un’adesione stilistica.

113 Cfr. G. SAPIENZA, Il filo di mezzogiorno, cit., p. 52. Le indicazioni d’anno, anche in questo romanzo, si

sovrappongono a quelle di Lettera aperta, fatto che andrà considerato qualora si affrontasse filologicamente l’opera, e alla luce del progetto dell’editore e di Siciliano.

114 Un ulteriore parallelismo esiste nei cap. 39 di LA e cap. 29 del Filo, dove si riprende esplicitamente nel testo la data

del “10 maggio” con indicazione del compleanno della protagonista: «Oggi, 10 marzo 1966, compio quarantadue anni».

115 Le sue Memorie erano già state pubblicate nel 1927 da Le Monnier; il Diario intimo (1900-1904) risale invece al

1929 per Mondadori. È qui, in particolare, che il narratore russo affronta il tema della “felicità” da più lati.

116 «Non sarebbe mancato nulla alla sua felicità se avesse saputo come gustare quella felicità», in Il rosso e il nero, cap.

XV Il canto del gallo.

117 Peculiarità che si inserisce pienamente nella tradizione della letteratura latina e italiana, da Dante in avanti, ed è

XIV (I) incipit

113 Sotto il tuo schiaffo lettore-fratello sento che la felicità non ha storia. Eppure deve

averla… E SE CERCASSIMO DI non andare a scovare pene e sofferenze, o meglio: smettendo di covare questa araba fenice della “felicità perfetta” le accettassimo cercando di capirle, smussarle, tramutarle in conoscenza positiva invece di addossarcele supinamente… e le accettassimo come una delle tante cose della vita… un albero, che perde le foglie per rinnovarle in primavera, una febbre, un verme… il monte che sta, la neve che cade e la morte che viene e ne gioissimo? Deve avere una storia questa gioia (felicità)… Io sono stata felice 114 molti giorni della mia vita e perché trascuro di raccontarvelo? Perché metto l’accento sulle pene che mi sono capitate? E quando le ho cercate? Sono viziata; mi vergogno di ricercare la gioia. Ma una cosa questo vizio di secoli non può impedirmi di dire che nelle pene fisiche e psichiche, anche non sapendolo, ho ricercato la gioia. L’ho cercata nell’esercizio fisico, nel mare, nell’esercizio di parlare al pubblico – quando facevo teatro –, nell’esercizio che faccio, oggi, cercando di parlare a voi.

Ma come dirvi le ore di abbandono felice che ho avuto con mio padre in giro pei vicoli, come dirvi il sapore delle patate calde che la donna tirava fuori da sotto la coperta, con cautela, il sapore delle crispelle a mezzanotte dopo il cinema? Il sapore aspro dell’orgoglio di inghiottire le cozze crude col 115 limone come un vecchio marinaio o di mangiare all’osteria vicina a lui, circondata da marinai veri, solo uova sode ed olive nere? Perché non so dire tutto questo? Perché non so dire dell’ansia vitale che mi afferra entrando nel piccolo teatro di pupi del commendatore Insanguine? Perché non so dire del suo abbraccio, dell’ammirazione per la sua forza fisica, della noia dolce di quei lunghi viaggi in balilla in giro per le montagne calve dell’interno: Sciacca, Enna, Canicattì, Ragusa, Modica, Scicli… Scicli con la sabbia piena di alberi di fichi e il mare… il punto più vicino all’Africa “in certi giorni, pochissimi dell’anno, quando l’aria [è] proprio pulita, trasparente si possono vedere le coste di questo paese favoloso? Fissavo il mare ma non ebbi mai la fortuna di 116 capitare in una di quelle giornate. “Ma Iuzza – mio padre mi chiamava solo Iuzza – che credi ancora alle favole? Non è vero, è un miraggio”. Un miraggio… la Fata Morgana… al ritorno avrei ripetuto in macchina quelle parole fino a non scordarmele più, erano bellissime. […]

XIII (A) incipit

49 Sotto il tuo schiaffo lettore-fratello sento che la felicità non ha storia. Eppure… Se