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CAPITOLO SECONDO

LETTERA APERTA: LO STILE E LE PRINCIPALI ESPUNZION

II.5 Dentro il testo, per una lettura filologica

37 SI PUÒ NON LEGGERE.

Ho avuto torto a credere di mettere ordine. È impossibile i libri sono incrostati uno sull’altro. Volevo buttare questo libraccio che mi hanno regalato ma si è così appiccicato a David Copperfield che non si stacca. Li devo buttare tutti e due? Non posso, David per me è stato… No, questo non sarebbe mettere ordine, questo sarebbe liberarsi ciecamente di tutto solo per fare spazio – e uno spazio troppo spazio (deserto) (vuoto) non equivale forse ad un disordine troppo disordine (disordinato) – È inutile, devo trovare il modo di staccare quello che fu il mio Davide 38 da questo libraccio parassita. Ho fatto male a frugare nei cassetti, tirare tutto fuori, spostare i mobili. Mi trovo, ora, che la finestra è sbarrata dal tavolo, l’unica poltrona piena di oggetti; la porta inchiodata (crocifissa) dalla scala che il portiere mi ha prestata. Non posso più uscire. Resterò seppellita fra il tavolo e la porta. Per uscire dovrei almeno spostare la cassapanca, ma è aperta ed ho paura anche solo di avvicinarmi. Se mi cade lo sguardo su quello scialle riesumato dal fondo, intatto fra i nastri, le parrucche marcite? Se mi cade lo sguardo su quello scialle azzurro-beige con bordo rosso scuro e piccole stelle gialle al centro di ogni quadrato, fatto ad uncinetto da mia

madre venti, venticinque anni fa? Le sue mani che lavorano tra quei fili morbidi di colori, le sue mani legate (impigliate) 39 al letto del manicomio, il suo grido intatto: “Non la stuprare!”... avevo dimenticato quel grido... a chi gridava così? Cerco ancora oggi di non capire, ma so a chi era rivolto. Non posso mettere ordine. Non voglio riascoltare quel grido, sarei costretta a riconoscere il viso al quale era rivolto. È stato un errore cominciare…

Certo, non c’è niente che risvegli di più la curiosità come delle voci intese attraverso una porta chiusa. Avevo deciso di smettere questa assurda pretesa di mettere ordine. Ma come fare? Ormai ho cominciato e mi trovo con i cassetti aperti, mucchi di lettere, appunti, fotografie (manomesse) ammucchiate (sottosopra) in mezzo alla stanza. Come fare? Buttare tutto nei cassetti alla rinfusa e ributtarmi io stessa sul letto? Quanto sono 40 stata stesa sul letto senza muovermi? Fuori è già quasi buio e prima c’era il sole. Era il sole di ieri di questa mattina o di un mese fa? Come ho potuto credere che gli altri avrebbero potuto ascoltarmi ricordandosi sempre che mentivo e non mentivo? Ero in malafede. Devo andarmene? Stare zitta? Di star zitta non mi è mai riuscito. Andarmene? Ad andarmene devo pensarci bene. Non posso rischiare di svegliarmi per la terza volta in una clinica. Due volte può andare, ma la terza: se non ci riesci diventa ridicolo. È incredibile quanto è forte questo nostro corpo! Ho capito perché quelli che di suicidano e ci riescono lo fanno prima tante volte: sbagliano dose. Eh già, ci vuole mestiere: provare, riprovare… Anche per morire non è permesso di essere dei dilettanti?

Da quando ho smesso questa assurda pretesa che, in malafede con 41 me stessa, pensavo di poter portare a termine, sono passati… due giorni? Due settimane? Due mesi? Non so, forse due ore. So solo che sono rimasta sul letto con le persiane chiuse e forse è questo che mi ha fatto perdere il senso del tempo. Come stavo? Male. Ma per parlare di questa sonnolenza-coma dovranno passare cinque o dieci anni, vedremo poi. Ora posso solo capire (vedere) che fra il desiderio di tacere e quello di parlare, anche se fraintesa, ho intravisto un modo per allontanare ogni decisione, ancora per un po’… E così, eccomi qua a farvi perdere ancora del tempo, ma non posso fare altro. E poi c’è una cosa che mi rassicura, una cosa che ho sperimentato molte volte nella vita: so che quelli di voi che si sono annoiati di seguire questo mio sproloquio avranno già distolto lo sguardo. Si resta sempre in pochi. Spero 42 solo che qualcuno di voi resti, basta una persona, due: e così, in questa speranza, come mi sono rimasti due o tre amici, spero… Il professore Jsaya diceva: “una persona sola è la solitudine, l’impotenza, in due si fa già un sindacato”. No, questo non lo diceva il professore Jsaya, lo diceva mia madre, era lei la sindacalista. Questo professore Jsaya! È proprio lui a costringermi ad alzarmi dal letto, aprire le tende, mangiare qualche cosa – in questo tempo-coma naturalmente, non ho mangiato, solo bevuto whisky e… non tanto lui, quanto lo stupore di constatare quanto tempo ho passato con lui. Eppure, prima di cominciare a parlare con voi lo ricordavo appena. Mi stupisce e mi riporta ad altri nomi, visi, anni nei quali facevo teatro e che “facendo teatro”, è inevitabile, caddi su Luchino Visconti. Furono anni 43 di “pene e di gioie” come avrebbe detto Licia. Il teatro – non è una novità – non è in definitiva che il concentrato della vita, vita bruciata in poche ore. Una “prima”, non so se l’avete notato, prima che si alzi il sipario è come una nascita e un funerale quando questo si chiude sull’ultima battuta dell’attore tra il profumo di fiori di marcio delle strette di mani, degli abbracci, delle lagrime. Insomma, quando l’uomo ha inventato il vino, il profumo, ha inventato anche questo concentrato di azioni-passioni, quest’estratto di vita. Per tenerla in pugno almeno per un paio d’ore? Dunque, come vi dicevo, caddi su Luchino Visconti ed ebbi il mio concentrato di “pene e di gioie”. Ma solo dopo anni che non lo vidi più (come per il professore Jsaya) la sua immagine è cresciuta in me… “Io odio i vinti, la gente 44 fallita.” Disse Luchino e con questa frase, non rivolta a me, mi rivelò che anche io ero una fallita in quel momento, una fallita raggomitolata nel divano del suo salone e come potete immaginare per poco non mi cadde dalle mani la tazza del caffè che mi stava porgendo. Ero una fallita. Fallita, anche se stavo nel suo salotto vicina all’uomo col quale vivevo da tanti anni. Non riuscivo più ad ingranare col teatro e… io volevo essere brigante… “I malati e i morti (con la pagliacciata del funerale e le lagrime con il quale quelli che restano – ben felici di non essere loro nella bara – pretendono) fingono di essere straziati… “mi fanno schifo!” Diceva il professore Jsaya. Sì, fu per questo che non mi volle più vedere. in

quei lontani anni ero sempre ammalata; ed è per questo che non c’era al funerale di mio padre. 45 Frequentandoli, cercavo di non percepirli interamente per non essere schiacciata da questo loro modo di essere, ma dopo… sì, ci deve essere qualcosa in questa direzione… dopo, col tempo, questo loro modo di essere impietosi esenti da qualsiasi pietà cristiana malintesa e dolciastra, (assumeva) mi si rivelava in una tinta vitale, indomabile e coraggiosa che col tempo rimpolpava i loro visi, me li ingrandiva attanagliando il mio sguardo, la mia fantasia alla lama del loro sguardo che incita alla ribellione, fomenta l’orgoglio. Devo a Luchino di aver risparmiato altri cinque o sei anni in un modo di essere (abito) che non era il mio. Sapeva che non avevo l’agilità per correre quegli ostacoli, conosce i cavalli lui, per tanti anni ha fatto l’allevatore con grande talento… (ed aveva anche in quel mestiere un grande talento) (ed ancora un grande talento)

VII (I)

46 Da tutti questi inizi tralasciati, che spero non abbiate letto, avrete capito come ho