• Non ci sono risultati.

85 8. Organizzazioni per le cause sociali (gruppi per l’ambiente, gruppi per la pace,

ecc.).

Un’altra classificazione proposta da diversi autori è la suddivisione delle organizzazioni non profit in base alla loro attività, distinguendo: organizzazioni che producono beni, organizzazioni che producono servizi, organizzazioni che producono campagne, con l’obiettivo di modificare comportamenti sociali.

Anche se è difficile chiarire nitidamente i confini e la definizione di settore non profit, c’è un minimo comune denominatore che avvicina tutte le istituzioni che ne fanno parte, e cioè che queste organizzazioni svolgono attività indirizzate a rispondere ad un bisogno pubblico, un bisogno della società, intesa sia come l’intera collettività che come una parte di essa. Il loro scopo principale non corrisponde, quindi, alla realizzazione di profitto, ma ha finalità che possono essere di natura assistenziale, culturale, sportiva, di studio, di ricerca, ricreativa e molte altre ancora.

Nei prossimi paragrafi saranno analizzati i tre principali attori delle comunicazioni sociali: le organizzazioni non profit o terzo settore, la pubblica amministrazione e le aziende profit oriented.

3.1 Le organizzazioni non profit

Il settore del non profit, definito anche terzo settore, esiste da diversi secoli e rappresenta un’area di collegamento tra imprese e Stato; infatti condivide con quest’ultimo la maggior parte delle sue finalità, ma il controllo dell’organizzazione è di tipo privato. Lo sviluppo di quest’area è cresciuto nel tempo, per sopperire alla crisi dello Stato sociale e all’incapacità dello Stato di rispondere adeguatamente ai servizi richiesti. Queste attività statali vengono così affiancate, o a volte addirittura sostituite, da iniziative private aventi carattere imprenditoriale, grazie alle istituzioni non profit, che unitamente formano il terzo settore o settore non profit. Il suo ruolo è definito “insostituibile”, e le sue principali caratteristiche riguardano la presenza di volontari, la creazione di rapporti basati sulla fiducia, la solidarietà e la reciprocità, e l’orientamento verso destinatari determinati (Gadotti e Bernocchi, 2010).

L’origine del terzo settore risale all’alto medioevo, dove diverse entità sia religiose che laiche facevano dell’assistenza e della carità la propria principale finalità, per fornire servizi alle fasce più deboli della popolazione. All’epoca, infatti, c’era una totale

86 mancanza di prestazioni verso questi gruppi, anche quelle fondamentali per la vita e il benessere umano.

A partire dal dodicesimo secolo si diffuse, nei principali Stati europei, un modello basato soprattutto su associazioni religiose aventi lo scopo di elargire opere di carità. Fu da questo tipo di modello che prese forma l’idea del moderno mutuo soccorso. Il XVI secolo fu attraversato da diversi fattori negativi, come l’incremento demografico, la sempre più scarsa produzione agricola, la diminuzione dell’offerta di lavoro, ecc. Tutti questi fattori provocarono una forte mancanza di provviste alimentari e crearono le basi per continue epidemie. In questo presupposto cambiò l’atteggiamento sociale nei confronti della povertà, che fu associata a possibili pericoli, sia dal punto di vista sociale che sanitario. Molte associazioni modificarono, così, le loro finalità, indirizzandosi verso la difesa di determinati gruppi sociali che erano considerati a rischio, per svolgere attività di assistenza. In questo contesto muta l’originale significato di “mutua solidarietà”, che non si rivolge più solo ai membri facenti parte dell’associazione, ma si allarga anche ai soggetti esterni. I principali servizi che queste associazioni, sia religiose che laiche, erogavano, erano legati ad attività come ospedali, ricoveri e ospizi.

Fino al XVIII secolo nacquero numerosi enti collettivi, aventi lo scopo di garantire alla popolazione determinati servizi di tutela, ma, con il diffondersi dell’illuminismo, questa crescita subì un freno. Infatti questo pensiero riconosce solo due entità, lo Stato e l’individuo, ed il primo è identificato come unico interprete della volontà della popolazione. Per queste ragioni alcuni enti non lucrativi furono cancellati e poi soppressi, mentre altri furono affidati al controllo dello Stato. Questo fenomeno interessò anche l’Italia, dove le opere pie furono convertite in Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, e furono rese pubbliche.

Tuttavia, mentre queste istituzioni di derivazione religiosa furono ridotte numericamente, grazie al processo di industrializzazione sorsero i movimenti associativi delle classi lavoratrici e si svilupparono le società di mutuo soccorso. In Italia ci fu un forte sviluppo delle iniziative mutualistiche a partire dal diciannovesimo secolo, in risposta alle sempre maggiori richieste di istituire casse di beneficenza e carità, che non furono più sostenute economicamente solo ed unicamente dallo Stato, ma anche grazie ai contributi degli aderenti all’iniziativa, per ridurre l’impegno pubblico. Le prime società mutualistiche che furono create avevano come scopo l’assistenza, la beneficenza, la mutualità. Con il passare degli anni, non solo queste società si svilupparono sempre di

87 più, ma si diversificarono, costruendo circoli ricreativi, sportivi, culturali. Furono proprio le attività di queste società mutualistiche a gettare le basi dello stato sociale, inteso come la totalità degli interventi pubblici di natura economica e sociale che mirano alla garanzia dei cittadini. Questi cambiamenti furono causati anche dall’irrompere di nuovi bisogni; la popolazione aveva sviluppato aspettative di qualità della vita e di benessere maggiori, che lo Stato non riusciva più a fronteggiare.

Durante la seconda guerra mondiale le organizzazioni non profit subirono un brusco calo dovuto alle limitazioni del governo fascista, che ostacolava fortemente i movimenti di libero associazionismo. Solo dopo la fine della guerra, quando queste restrizioni furono abolite, si realizzò un nuovo fervore intorno a questo settore. Infatti, la costituzione repubblicana riconosce gli enti collettivi e gli offre ampio spazio, sia a quelli individuati come strumenti che incoraggiano i cittadini a partecipare alla vita sociale e politica, sia a quelli che possiedono come perno le predisposizioni degli individui, a carattere sia religioso che ricreativo.

Da diversi decenni il nostro paese riversa in una non indifferente crisi finanziaria, che ha portato ad un contenimento della spesa pubblica e dell’intervento pubblico verso i cittadini. In questo ambiente le aziende non profit sono aumentate numericamente e si sono evolute, fornendo servizi che soddisfano bisogni richiesti da società economicamente avanzate, ma che non vengono erogati, o che vengono erogati in maniera parziale o insoddisfacente, dalle istituzioni statali. Sono state realizzate diverse tipologie di organizzazioni non profit, come associazioni, fondazioni, cooperative ecc. (che verranno approfondite più avanti nel testo), e l’intero settore ha conseguito una forte crescita, sia dal punto di vista delle dimensioni economiche che in termini di incidenza sul PIL nazionale. In sintesi, le organizzazioni non profit sono “espressione di bisogni ed atteggiamenti sociali emergenti – o magari già diffusi, che tuttavia non dimostrano una sufficiente affinità con l’universo valoriale del mercato e, sull’altro versante, non hanno ancora – o comunque non sono destinati – a trovare rappresentanza e soluzione attraverso i canali della politica e quindi della pubblica amministrazione” (Gadotti, 2003, p. 35).

Il terzo settore oggi si configura come un ricco universo di organizzazioni molto diverse tra loro, il cui intento principale è erogare servizi di pubblica utilità, ma senza avere uno scopo di lucro. Secondo Francesconi (2007), i diversi tipi di istituzioni facenti parte del

88 settore possono avere principalmente tre ruoli distinti, che possono essere realizzati congiuntamente o disgiuntamente:

1. Tutela (o advocacy), svolta da quelle organizzazioni che vogliono portare a conoscenza di altri soggetti (soprattutto Stato e aziende con scopo di lucro, ma anche l’intera collettività) determinati problemi riguardanti i cittadini o gli individui facenti parte di un certo gruppo. In questo ruolo vengono incorporate anche quelle attività che cercano di favorire un’unione tra i cittadini per realizzare momenti e luoghi di vita collettiva. Il termine advocacy riguarda quel tipo di comunicazioni che hanno ad oggetto dei temi controversi, e il messaggio sottolinea uno specifico punto di vista. Tali campagne, quindi, non sono neutre, anzi sono piuttosto “polemiche”, in quanto spesso indicano in modo molto esplicito il tema o i gruppi a cui si vogliono opporre. Gadotti (2003) riporta l’esempio delle comunicazioni che cercano di limitare vendita e uso delle armi per autodifesa e che spesso polemizzano con le associazioni e i gruppi che invece sostengono il loro utilizzo per autotutelarsi contro la criminalità. Le organizzazioni che si dedicano all’advocacy possono essere aziende mutual benefit, che sono orientate alla promozione dei diritti a vantaggio dei propri associati o membri (sono organizzazioni aventi un carattere mutualistico), o aziende di public service, che sono orientate alla promozione dei diritti a vantaggio di soggetti terzi, i quali spesso non posseggono abbastanza risorse per organizzarsi autonomamente;

2. Redistribuzione di risorse, svolta da diversi profili di aziende non profit il cui ruolo è quello di allocare risorse monetarie verso determinate attività che non riescono, individualmente, a generare sufficienti flussi economici e finanziari per il loro sostentamento; 3. Produzione di beni e servizi, svolta da quelle organizzazioni senza fine di lucro che producono un determinato bene o servizio a favore di un determinato gruppo di individui, anche quelli facenti parte dell’organizzazione stessa. Le aziende non profit che svolgono questa funzione si sono sviluppate soprattutto a partire dagli anni ’80, nella maggior parte dei paesi europei. Addirittura alcune aziende non profit, sorte per adempiere alla funzione di tutela, si sono trasformate in aziende non profit produttrici di beni e servizi.

89 Nonostante queste organizzazioni possano avere ruoli differenti, l’obiettivo che accomuna tutti gli attori del settore non profit è l’aspetto sociale dell’attività svolta; gli scopi devono essere caritatevoli, culturali, educativi, scientifici, di tutela della salute dei cittadini, di sviluppo della cultura e dello sport, di soddisfazione di bisogni anche non materiali della popolazione (Derevjanko e Zybin, 2012). Il risultato economico non viene più considerato come un obiettivo, ma piuttosto come un vincolo, perché è da tenere presente che queste organizzazioni devono comunque muoversi in condizioni di economicità per poter garantire la sopravvivenza, la continuità e l’autonomia dell’azienda e del servizio da essa prestato. È palese che le organizzazioni debbano raccogliere fondi per poter effettuare donazioni a persone in condizione di povertà, o per poter comprare loro cibo e vestiti, o per costruire chiese, ecc., ma soltanto trasmettendo all’esterno, cioè ai potenziali sostenitori, l’immagine di azienda solida, si possono ricevere i finanziamenti che ne garantiscono la sopravvivenza.

Le organizzazioni facenti parte del settore non profit sono numerose e diverse tra loro, sia dal punto di vista della struttura organizzativa che delle tipologie di risorse umane utilizzate, sia delle possibili attività che vengono esercitate per assicurarsi risorse finanziarie che dal punto di vista della direzione aziendale. Bronzetti (2007) individua cinque caratteri comuni che si riscontrano in tutti gli assetti giuridici delle diverse organizzazioni non profit:

1. Formale costituzione. Viene realizzata mediante un atto costitutivo ed uno statuto per regolare le azioni interne dell’organizzazione, come l’accesso dei soci, la concretizzazione delle relazioni, il procedimento disciplinare, ecc.;

2. Disciplina di autogoverno. L’istituzione deve essere indipendente da qualsivoglia tipo di controllo, esercitato sia da enti pubblici che da aziende private con scopo di lucro;

3. Divieto di distribuzione degli eventuali utili. Sia ai soci che agli appartenenti all’azienda, di qualsiasi titolo essi siano, gli utili non vanno mai distribuiti. Questo principio non vieta alle organizzazioni di conseguire utili, ma impone che questi, se realizzati, vengano reinvestiti nell’attività;

4. Autonomia finanziaria. L’impresa, per sopravvivere, deve essere in grado di finanziarsi autonomamente, senza l’aiuto di soggetti esterni. Questo requisito da un lato garantisce l’indipendenza dell’azienda, ma dall’altro la limita per un’eventuale carenza di fondi;

90 5. Godere di prestazioni con carattere di volontariato. Si può verificare in qualsiasi

livello aziendale, da operativo a dirigenziale. Si può manifestare attraverso forme di lavoro che non prevedono una retribuzione o tramite un salario inferiore ai limiti sindacali riconosciuti per quella stessa figura professionale.

I cinque principi elencati non indicano una lista esaustiva, sono semplicemente i principali elementi che contraddistinguono le aziende non profit. Ciascuna impresa, infatti, presenta caratteristiche proprie. La varietà di queste organizzazioni si riflette anche sulle relative forme giuridiche, che possono avere caratteristiche anche molto differenti tra loro. Di seguito verranno descritte brevemente alcune di queste diverse forme giuridiche. Associazioni Le associazioni sono organizzazioni collettive private caratterizzate da una pluralità di individui che decidono di associarsi per raggiungere uno scopo comune non di natura economica. Rientrano in questa tipologia diverse istituzioni che perseguono gli scopi più disparati, come scopi politici, sportivi, religiosi, culturali ecc. Indipendentemente dal fine ricercato, la caratteristica comune delle associazioni è l’assenza della ricerca di lucro. Anche nei casi in cui venga esercitata un’attività economica, questa deve essere subordinata alla realizzazione dello scopo finale dell’organizzazione stessa.

Le associazioni possono essere scomposte in associazioni non riconosciute e associazioni riconosciute, in base alla loro personalità giuridica. Le prime, infatti, non sono riconosciute da parte dello Stato. Questo aspetto ha molto influito sulla loro diffusione, in quanto consente di mantenere una grande libertà di gestione. Infatti, per dar vita ad una associazione non riconosciuta, è necessario un semplice accordo fra le parti, che può essere anche di natura verbale. Le associazioni riconosciute, invece, godono di personalità giuridica, che acquisiscono tramite un atto discrezionale della pubblica amministrazione previo decreto dell’autorità governativa di competenza. La condizione necessaria per richiedere il riconoscimento di un’associazione (previste nell’art. 14 del Codice Civile) è che venga costituita tramite atto pubblico. Nel 2000 sono state introdotte nel nostro paese le associazioni di promozione sociale, disciplinate nell’art. 2 della Legge 383/2000, che le definisce come “le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di

91 lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati”. Questa legge non

considera associazioni di promozione sociale i partiti politici, le organizzazioni

sindacali, le associazioni dei datori di lavoro, le associazioni professionali e di categoria, tutte le associazioni che hanno come scopo primario la tutela degli interessi economici degli associati, i circoli privati e le associazioni comunque denominate che attuano limitazioni in rapporto alle condizioni economiche e discriminazioni di qualsiasi natura a proposito dell’ammissione degli associati, o che prevedano il diritto di trasferimento della quota associativa o che, infine, colleghino la partecipazione sociale al possesso di azioni o di quote patrimoniali. Le associazioni di promozione sociale possiedono due elementi principali (Francesconi, 2007):

1. Possono svolgere, per reperire risorse finanziarie necessarie al loro sostentamento, attività di: cessioni di beni, prestazioni di servizi, azioni promozionali;

2. Possono assumere lavoratori dipendenti ed anche servirsi di prestazioni effettuate tramite lavori autonomi.

A questo tipo di società è concessa la possibilità di divenire ONLUS, ma solo se rispettano determinati criteri, cioè possedere definite caratteristiche istituzionali, gestionali e organizzative, e praticare la propria attività in determinati settori.

Cooperative sociali

Le cooperative sociali sono disciplinate dalla Legge n. 381/1991, che le definisce come organizzazioni aventi come scopo il perseguimento dell’interesse dell’intera comunità, sostenendo la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini. Si possono distinguere due tipologie di cooperative sociali: quelle di tipo A, che gestiscono servizi socio-sanitari ed educativi, e quelle di tipo B, che svolgono attività diverse (agricole, industriali, commerciali, di servizi, ecc.) con lo scopo di introdurre nel mondo del lavoro persone svantaggiate. In tali aziende la manodopera è molto importante, per questo sono definite labour intensive e si presentano più professionalizzate rispetto ad altre organizzazioni del settore non profit; le aziende sono, infatti, meno caratterizzate dal lavoro di volontariato. Le cooperative sociali presentano una natura imprenditoriale e le entrate sono prevalentemente di natura pubblica. Negli ultimi anni queste organizzazioni (insieme alle fondazioni) hanno registrato un tasso di crescita maggiore

92 rispetto ad atre tipologie di aziende non profit, tanto che sono divenute uno dei principali interlocutori delle pubbliche amministrazioni per l’erogazione dei servizi di cura nella maggior parte del nostro paese (Caligiuri, 2007).

Fondazioni

Le fondazioni sono istituti privati senza fini di lucro costituite da un complesso di beni organizzati che puntano al raggiungimento di uno scopo morale, ideale, ma non economico. Già da questa definizione si evince la principale differenza tra fondazioni e associazioni, poiché nelle prime l’elemento patrimoniale prevale su quello personale. Nelle associazioni la legge conferisce la personalità giuridica ad un insieme di individui, in questo caso, invece, è l’intero complesso di beni dell’istituzione che è riconosciuto dallo Stato. Quindi, l’elemento identificativo delle fondazioni è il possedere un patrimonio indirizzato verso un fine preciso. Generalmente la dotazione di questo patrimonio avviene tramite un atto dispositivo unilaterale, come un atto di donazione o un atto testamentario, che rappresenta anche l’atto costitutivo della fondazione stessa e che deve essere sempre stipulato per atto pubblico. Una volta che la fondazione viene riconosciuta in base allo scopo e alla congruenza del suo patrimonio (che deve garantire l’autonomia finanziaria), essa acquista la personalità giuridica.

Queste organizzazioni possono essere classificate in due tipologie di fondazioni, le fondazioni grant-making o di tipo erogativo (che erogano sovvenzioni) e le fondazioni operating o di tipo operativo (che producono servizi).

Organizzazioni di volontariato

Le organizzazioni di volontariato si desumono dalla Legge n. 226/91, che definisce volontariato tutte quelle attività prestate in modo libero, spontaneo e gratuito, che i cittadini attuano per fini solidali e di giustizia sociale. Queste attività possono essere offerte in modo individuale oppure all’interno di una struttura organizzata, la cui forma giuridica può mutare in base ai fini perseguiti. Quindi le organizzazioni di volontariato sono istituzioni che:

1. Si devono avvalere in maniera prevalente di prestazioni volontarie e gratuite fornite dalle persone che ne fanno parte;

2. Nascono tramite atto costitutivo corredato dallo statuto, che prevede l’assenza dello scopo di lucro, la democraticità della struttura, cariche associative elettive e

93 gratuite, prestazioni gratuite da parte degli aderenti, i criteri di ammissione ed esclusione e i diritti ed obblighi di questi ultimi.

Oltre alle risorse umane di carattere volontaristico, queste organizzazioni possono disporre di risorse economiche-finanziarie che si individuano nei contributi erogati da privati, enti pubblici e aderenti, in forma di donazioni o lasciti testamentari. Inoltre la stessa organizzazione di volontariato può svolgere attività commerciali, sempre con la limitazione che queste attività siano di natura marginale rispetto allo scopo principale.

ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale) e ONG (Organizzazioni Non Governative)

Le Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale sono disciplinate dal Decreto Legislativo 460/1997, che attribuisce la qualifica di ONLUS a quegli enti di carattere privato, ma senza fine di lucro che, adempiendo alle proprie finalità solidaristiche ed esercitando in settori considerati di utilità sociale, accettano di sottoporsi ad oneri ed adempimenti specifici per garantire l’esclusivo scopo solidaristico delle attività esercitate e delle risorse utilizzate. A differenza degli altri enti non profit, i destinatari delle attività delle ONLUS, sono i terzi e non gli iscritti alla stessa società. Infatti a queste organizzazioni viene chiesto di svolgere attività “oggettivamente” solidaristiche, cioè destinate all’intera comunità di riferimento, o “soggettivamente” solidaristiche, cioè destinate ad individui con un particolare svantaggio. Un ente non profit viene riconosciuto come ONLUS solo quando possiede determinati requisiti elencati nell’art. 10 del Dlgs. 460/97, brevemente:

1. Obbligo di perseguire uno o più scopi riconducibili ai settori di: assistenza sociale; socio-sanitaria e sanitaria; beneficenza; istruzione; formazione; sport dilettantistico; tutela, promozione e valorizzazione di beni storici e artistici; tutela e valorizzazione dell’ambiente e della natura; promozione della cultura e dell’arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica di interesse sociale; 2. Obbligo di seguire esclusivamente scopi di solidarietà sociale; 3. Divieto di svolgere attività diverse da quelle citate a meno che non siano a loro connesse; 4. Divieto di distribuzione degli utili; 5. Obbligo di utilizzare gli utili per l’autofinanziamento;

94 6. In caso di scioglimento, obbligo di devolvere il patrimonio a favore di altre

organizzazioni non profit di utilità sociale; 7. Obbligo di redigere il bilancio annuale;

8. Obbligo di disciplinare il rapporto tra gli associati;

9. Obbligo di uso in qualsiasi comunicazione rivolta al pubblico della locuzione “organizzazione non lucrativa di utilità sociale” o ONLUS.

Le ONG (Organizzazioni Non Governative) sono considerate automaticamente ONLUS, la