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Orientamenti giurisprudenziali in tema di presunzioni tributarie e analisi dell’art 39, primo comma, D.P.R n.

L’UTILIZZO DELLE PRESUNZIONI NELL’ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

1. Orientamenti giurisprudenziali in tema di presunzioni tributarie e analisi dell’art 39, primo comma, D.P.R n.

600/1973.

Prima di affrontare il tema delle presunzioni semplici nell’accertamento dei redditi di impresa, è opportuno muoversi da alcune pronunce dei giudici ordinari (in particolare la Corte di Cassazione) sul tema delle presunzioni tributarie.

Quest’ultime, ha affermato la Corte Costituzionale105, non sono di per sé illegittime, ma debbono fondarsi su “indici concretamente rivelatori di ricchezza” ovvero su “fatti reali”, anche quando sono difficilmente accertabili, affinché l’imposizione non abbia una “base fittizia”.

Inoltre la Corte di Cassazione ha espresso, con le decisioni 29 Maggio 1979, n. 2990 e 15 Novembre 1979, n. 5951, dei principi che segnarono la fine di un indirizzo giurisprudenziale sui punti seguenti: che l’atto amministrativo di accertamento sia assistito                                                                                                                

da presunzione di legittimità e che il soggetto passivo assuma la veste di attore in senso sostanziale nel giudizio di accertamento negativo del suo debito nei confronti della Pubblica Amministrazione ( e che competa, di regola, al soggetto passivo fornire la prova contraria dei fatti posti a base dell’accertamento)106.

La Corte, con la sentenza n. 2990 del 1979 ha fra l’altro, affermato: “…poiché non sussiste avanti al giudice ordinario la presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo…qualora in sede giudiziaria insorga controversia circa l’esistenza dei presupposti di fatto della imposizione, il giudice ordinario non può limitarsi a prendere atto di quanto risulta dal provvedimento, ma deve procedere in via autonoma al controllo circa la effettiva esistenza dei presupposti. D’altra parte, non operando l’accennata presunzione, tutto l’onere probatorio non può porsi esclusivamente a carico del destinatario del provvedimento, il quale, se per ragioni che attengono alla esecutorietà delle pretese fatte valere dalla Pubblica Amministrazione (e non quindi per la presunzione di legittimità del provvedimento che, come si è accennato, non è operante) assume l’iniziativa del processo: la sua qualità di attore in giudizio non esclude che l’indagine del giudice verta sempre su di un diritto di credito, cui presupposti di fatto, secondo le regole generali, devono essere provati, in caso di incertezza circa la loro esistenza oggettiva, dall’ autorità amministrativa che quella pretesa coltiva”.

                                                                                                               

“… Orbene, poiché il provvedimento è ablatorio in quanto impone al destinatario un sacrificio patrimoniale, si comprende come, essendo esso rigidamente ancorato al principio di legalità, anche costituzionalmente garantito (art. 23 della Costituzione), la prevalenza che caratterizza la posizione dell’autorità amministrativa non impedisca al privato di adire il giudice ordinario, al fine di controllare, come per qualsiasi altro credito, la fondatezza della pretesa fatta valere dalla Pubblica Amministrazione e non già per rimuovere una presunzione di legittimità da cui l’atto sarebbe assistito”.

“Partendo invece dal presupposto della presunzione a favore della Pubblica Amministrazione, è agevole il passo che conduce ad affermare….che questa posizione di vantaggio dell’autorità amministrativa nel processo pone da un lato a carico del destinatario l’onere di superare la detta presunzione, dall’altro esonera la pubblica autorità dal dimostrare a sua volta la fondatezza del proprio credito”.

Sulla questione specifica dell’onere della prova, si precisa: “…Sulla base dei rilievi di cui sopra è quindi agevole trarre la conclusione che, allorquando la pubblica amministrazione sia convenuta in giudizio in seguito alla impugnazione del provvedimento ablatorio da parte del destinatario che si ritenga leso nei suo diritto, l’oggetto del giudizio riguarda, come nei rapporti obbligatori del diritto privato, l’effettiva esistenze del credito vantato dall’autorità amministrativa, onde, anche se l’iniziativa dell’azione proviene per la massima parte dei casi dal destinatario, a causa della esecutorietà delle pretese

amministrative, questo non incide sulla posizione sostanziale delle parti davanti al giudice”.

“Non è quindi l’attore che deve provare la illegittimità del credito vantato dalla pubblica amministrazione, ma, essendo questa ultima che dal punto di vista sostanziale si afferma creditrice nei confronti dell’altra parte, è l’autorità amministrativa che subisce l’onere della prova dei fatti costitutivi (per la legge) della sua pretesa, mentre grava sul destinatario che eccepisca la inefficacia di quei fatti (in quanto provati dalla controparte) ovvero che assuma che il diritto si è modificato o estinto, l’onere di provare i fatti sui quali l’eccezione si fonda (art. 2697 c.c.)”.

“La conclusione cui si è pervenuti trova testuale conferma nel sistema delle presunzioni legali relative che sono previste dalla legge a favore dell’amministrazione finanziaria”.

La Corte di Cassazione con la seconda sentenza, la n. 5951 del 1979, ha spiegato che “…Rispetto al provvedimento ablatorio, che impone al destinatario un sacrificio patrimoniale (con la garanzia della riserva di legge ex art. 23 della Costituzione), la prevalenza della posizione dell’autorità amministrativa non impedisce al privato di adire il giudice ordinario, per fare controllare, come per qualsiasi altro credito, la fondatezza della pretesa della Pubblica Amministrazione”.

“Argomentando invece, in termini di presunzione di legittimità dell’atto a favore della Pubblica Amministrazione, si finisce col porre da un lato a carico del destinatario l’onere del superamento di tale presunzione, e dall’altro si esonera la

pubblica autorità dal dimostrare a sua volta la fondatezza del propri credito”.

“Sgombrando il campo dalla suggestione del principio di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo si tratta di stabilire… se la prova dei presupposti di fatto della imposizioni spetti all’autorità amministrativa, ovvero se la prova della inesistenza di tali presupposti incomba sul destinatario del provvedimento”.

“Ritiene il Collegio che la prima alternativa sia quella esatta, gravando sull’autorità amministrativa la prova (positiva) dei fatti che costituiscono il fondamento della sua pretesa”.

“Il principio spiega i suoi effetti nei casi in cui la prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio non risulti da atti pubblici (processi verbali, certificati, ecc.) i quali godono per legge di fede privilegiata ( art. 2700 c.c.) e le cui risultanze posso essere rimosse soltanto attraverso lo strumento della querela di falso (art.221 ss. cod. proc. civ), trattandosi, come nel caso di specie, di circostanze non corroborate da prova specifica nemmeno raggiunta né durante l’istruttoria amministrativa né nel corso del giudizio innanzi al giudice…”

“La Pubblica Amministrazione nell’ accertamento dei presupposti della imposizione di ampi poteri istruttori e di poteri strumentali variamente disciplinati, che si esauriscono però con l’emanazione del provvedimento ablatorio, il cui contenuto è rigidamente determinato dalla legge in presenza dei presupposti di fatto dalla stessa previsti. Tale provvedimento costitutivo di una obbligazione a contenuto patrimoniale (pagamento di una somma di denaro), deve conformarsi al principio di legalità

sancito dall’art. 23 Cost., secondo cui nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non sulla base della legge…”.

“L’autorità amministrativa deve accertare, prima di emettere il provvedimento ablativo, il presupposto di fatto della imposizione e la verifica (positiva) di tale presupposto va compiuta dal giudice ordinario in giudizio con onere probatorio a carico della amministrazione medesima secondo la regola generale dettata dall’art. 2697 c.c.”.

“…Ne consegue che ogni qualvolta la Pubblica Amministrazione sia convenuta in giudizio in seguito, alla impugnativa del provvedimento ablatorio da parte del destinatario che si ritenga leso nei suoi diritti, l’oggetto del giudizio riguarda, come nei rapporti obbligatori del diritto privato, la effettiva esistenza del credito vantato dall’autorità amministrativa, mentre non rileva la circostanza che l’iniziativa dell’azione nella massima parte dei casi sia presa dall’obbligato, stante la immediata esecutorietà delle pretese amministrative”.

“…La conclusione cui è pervenuti trova testuale conferma nel sistema di diritto positivo delle presunzioni legali relative che sono previste dalla legge a favore dell’amministrazione finanziaria. Se ne trae, invero, il corollario che ogni qualvolta esse non operano la Pubblica Amministrazione è soggetta ai normali oneri probatori e quindi la prova investe, di fronte al giudice, tutta quanta la situazione-base della imposizione”. Questo orientamento giurisprudenziale, che si distacca dalle posizioni tradizionali, accoglie una concezione dottrinale che si era dimostrata molto critica sulla necessità, per il destinatario del

provvedimento, di assumere l’iniziativa processuale circa la prova contraria dei fatti assunti dall’autorità preposta.

Senza affrontare in questa sede il problema dell’accertamento, possiamo ricordare che questo è, secondo la giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, un atto amministrativo, emanato sulla base di un procedimento legislativamente definito secondo regole precise; anche se esso non ha natura costitutiva, è tuttavia capace di dichiarare l’obbligazione tributaria con effetto vincolante. In quanto atto amministrativo, l’accertamento è sicuramente assistito da presunzione di legittimità ed è anche esecutorio107. Fatte queste premesse possiamo analizzare l’utilizzo delle presunzioni, in particolare le presunzioni semplici, da parte dell’ Amministrazione Finanziaria per l’accertamento dei redditi d’impresa.

L’art.39 del D.P.R. n. 600/1973 si occupa dell’accertamento dei “Redditi determinate in base alle scritture contabili” come recita il titolo dell’articolo.

L’incipit dell’art. 39 ( “Per i redditi di impresa delle persone fisiche…”) può lasciare intendere ad una limitata portata di tale articolo, che, invece, ha una portata generale.

Infatti il comma 3 stabilisce che: “Le disposizione dei commi precedenti valgono, in quanto applicabili, anche per i redditi delle imprese minori e per quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni”. A sua volta, l’art. 40 del D.P.R. n. 600/1973 dispone che:” Alla rettifica delle dichiarazioni presentate dai soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche si                                                                                                                

procede con unico atto agli effetti di tale imposta e dell'imposta locale sui redditi, con riferimento unitario al reddito complessivo imponibile ma tenendo distinti i redditi fondiari. Per quanto concerne il reddito complessivo imponibile si applicano le disposizioni dell' art. 39 relative al reddito d'impresa (…)” Alla rettifica delle dichiarazioni presentate dalle società e associazioni indicate nell' art. 5 del D.P.R. 29-9-1973, n. 597, si procede con unico atto ai fini dell' imposta locale sui redditi dovuta dalle società stesse e ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche o delle persone giuridiche dovute dai singoli soci o associati. Si applicano le disposizioni del primo comma del presente articolo o quelle dell'art. 38 secondo che si tratti di società in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate ovvero di società semplici o di società o associazioni equiparate”.

Dunque l’art. 39 contiene sostanzialmente le regole per:

• Sia l’accertamento sia dei redditi d’imprese delle persone fisiche;

• Che dei redditi delle imprese in contabilità semplificata; • Che dei redditi derivanti dall’esercizio di arti e

professioni;

• Che dei redditi di imprese delle società di persone; • Che dei redditi di imprese delle persone giuridiche.

Fatte queste premesse è opportuno analizzare le norme contemplate nel primo comma dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973.

Possiamo anzitutto dire che il suddetto articolo, al primo comma, descrive almeno 5 tipi di accertamento.

Infatti, la lettera a) descrive un accertamento analitico-contabile, poiché se il contribuente ha rispettato gli obblighi posti dal Titolo I del D.P.R. n. 600, riguardanti il contenuto e la redazione della dichiarazione annuale, l’amministrazione procede alla rettifica del reddito d’impresa quando gli elementi indicati in dichiarazione non corrispondo a quelli del bilancio, del conto dei profitti e delle perdite o dell’eventuale prospetto allegato alla dichiarazione medesima. Si tratta di un ipotesi di facile applicazione, dove il controllo, da parte dell’amministrazione, viene eseguito confrontando la dichiarazione con i relativi allegati.

La previsione, imponendo questo tipo di confronto fra gli elementi della dichiarazione e i dati esposti nei relativi allegati, esplica il vincolo della completezza, veridicità ed esattezza degli allegati stessi in virtù del rapporto che deve intercorrere fra questi e le disposizioni impositive.

Un accertamento analitico- contabile è anche quello che esprime la lettera b) dell’art. 39, primo comma, secondo cui l’ufficio procede alla rettifica se il contribuente non ha rispettato le disposizione del Titolo V del D.P.R. n. 597/1973, cioè, quando si riscontra una violazione di una norma in materia di reddito di impresa.

Anche questa è un ipotesi agevole, perché il riscontro dell’esattezza della dichiarazione avviene confrontando il contenuto della dichiarazione con le disposizioni in materia di reddito d’impresa. Ciò può accadere, ad esempio, se in

dichiarazione sono esposti quote di ammortamento dedotte in misura eccessiva.

La fattispecie contemplata nella lettera c), pur descrivendo anch’essa un accertamento analitico-contabile è, rispetto alle precedenti, più complessa. Essa presuppone, infatti, l’accertamento dell’incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati, risultanti in modo diretto e certo dai questionari invitati al contribuente o dai verbali redatti in seguito alla comparizione personale dello stesso, ovvero dagli atti, documenti o registi da lui esibiti108.

Infine, la lettera d) dell’art. 39, primo comma, prevede, quando l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati in dichiarazione e nei suoi allegati, risulta dalle ispezione e verifiche compiute nei confronti del contribuente, la possibilità per l’ amministrazione di desumere l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. Si tratta in questo caso di un accertamento analitico-induttivo, ma anche di accertamento analitico-contabile .

Parlando di accertamento analitico-contabile e analitico- induttivo, è opportuno sottolineare le differenze, se così si possono definire, che intercorrono tra questi strumenti utilizzati dall’amministrazione.

                                                                                                               

108 A. Giovannini, Ipotesi normative di reddito e accertamento nel sistema d’impresa, cit., p.61.

L’accertamento analitico-contabile comporta delle rettifiche alle singole componenti del reddito dichiarato. Tali rettifiche posso essere giustificate da ragioni di diritto quando, ad esempio, risulta violata una o più norme sancite dall’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, violazione che può comportare alcune variazioni del reddito.

Le rettifiche posso derivare anche da ragioni di fatto, quali ad esempio, a seguito del confronto tra dichiarazione, bilancio e scritture contabili, oppure dall’esame della documentazione, come fatture o conti bancari, che sta alla base della contabilità di una data impresa.

Tuttavia nella prassi si distinguono soltanto due tipi di accertamento. Il primo è un accertamento analitico “tout court”, il quale deduce l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione in modo certo e diretto da una delle risultanza probatorie acquisite dall’ufficio mediante i verbali, risposte ai questionari, l’esami di atti o documenti del contribuente109. Il secondo è un accertamento analitico-induttivo, il quale rettifica la dichiarazione sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti. Un esempio lo possiamo trovare nell’art. 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. n 600/1973.

Tra questi diversi metodi di accertamento, non vi sono delle nette contrapposizioni, ma essi riguardano semplicemente a profili diversi. Tuttavia nel campo del diritto tributario, ha assunto molta importanza la distinzione tra accertamento “contabile” ed

                                                                                                               

109 R. Lupi, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, cit., p.180.

“extracontabile”. Infatti nell’accertamento “contabile” le risultanze delle scritture posso essere superate solo con argomentazioni che hanno un grado di attendibilità normativamente predeterminato, mentre nell’accertamento “extracontabile” le scritture rappresentano ipotesi liberamente valutabili alla stregua di qualsiasi cosa110.

                                                                                                               

110 A. Giovannini, Ipotesi normative di reddito e accertamento nel sistema d’impresa, cit., p.180

2. Ragionamenti presuntivi dell’amministrazione ( art. 39, primo comma, lettera d, D.P.R. n.600/1973).

Come accennato nel paragrafo precedente, il reddito di impresa delle persone fisiche o delle società commerciali, ed il reddito di lavoro autonomo degli artisti e professionisti può essere determinato in via induttiva ai sensi dell’art. 39 primo comma lettera d) e secondo comma del D.P.R. n. 600/1973. In questo paragrafo analizzeremo il primo comma lettera d), per poi analizzare anche il secondo comma nei paragrafi seguenti.

Quanto alla lettera d) del primo comma dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1073 essa prevede che, qualora “l’ufficio procede alla rettifica: (…) d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sula scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’ impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio neo modi previsti dall’art. 32. L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”.

Detto in altre parole, la rettifica deve riguardare fatti che direttamente manifestano l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione. Solo in ipotesi tassative, come appunto la lettera d), l’ufficio può poi dimostrare l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate con ragionamenti probatori fondati su giudizio che hanno un elevato grado di probabilità.

Riferendo le osservazioni compiute alle lettere c) e d) del primo comma dell’art. 39 si può affermare che solo in presenza di prove contrarie (documentali o presuntive) rispetto agli elementi espressi in dichiarazione o alle registrazioni contabili, l’amministrazione può revocare in dubbio la completezza, correttezza e fedeltà delle singole componenti reddituali, ovvero la completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni.

Ne discende con evidenza, dunque, la natura di prove documentali delle scritture contabili, il cui contenuto tendenzialmente vincola sia il contribuente, sia l’amministrazione delle finanze111.

Pertanto qualora il contribuente abbia tenuto una contabilità formalmente e sostanzialmente regolare, l’ ufficio può procede all’accertamento induttivo fondato su presunzioni peraltro dotate dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, e non su semplici illazione, o comunque elementi indiziari che sono privi dei requisiti appena detti.

Spesso, però, l’ufficio fonda l’accertamento induttivo sui cosiddetti dati medi di settore112, ebbene in base all’orientamento giurisprudenziale consolidato dalla Suprema Corte i dati medi di settore si qualificano come semplici elementi indiziari non in grado di supportare da soli un accertamento induttivo.

                                                                                                               

111 A. Giovannini, Ipotesi normative di reddito e accertamento nel sistema d’ impresa, cit., p. 64

112 Come, ad esempio, prezzi medi di settore o percentuali di ricarico medio.

Secondo i Supremi Giudici, i dati medi di settore non posso qualificarsi autonomamente come presunzioni semplici dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c. . A conferma di quanto detto appare importante analizzare la sentenza della Corte di Cassazione n. 25200 del 15 Ottobre del 2008, secondo la quale “…le percentuali di ricarico elaborate dall’Amministrazione non costituiscono, di per sé, un fatto noto da cui si possa dedurre il “fatto ignoto” costituito dal reddito dell’impresa, con prova contraria a carico del contribuente. ….È, infatti, necessario che le percentuali di ricarico siano ancorate a specifiche circostanze che possono far presumere l’omessa dichiarazione dei corrispettivi…”.

Inoltre sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18020 del 6 Agosto del 2009, ha stabilito, per quel che riguarda la valenza probatoria dei dati medi di settore, che: “…in tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riferimento all’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 Settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lettera d), i valori percentuali medi del settore rappresentano non tanto un “fatto noto” storicamente verificato, sul quale è possibile fondare una presunzione di reddito ex art. 2727 c.c., ma, piuttosto, il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa soltanto una regola di esperienza” per cui “… tali valori in nessun caso possono giustificare presunzioni qualificabili come gravi e precise, indicando, diversamente dai risultati valutativi emergenti da medie elaborate con riferimento all’andamento economico della specifica impresa interessata, sola in via ipotetica la redditività

dell’attività dell’impresa medesima, cosicché, laddove con confortati da altre risultanze, si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39 citato”.

Un altro problema dibattuto in passato era quello relativo alla necessità dell’ispezione delle scritture contabili, prima di procedere all’accertamento in esame113. Tale soluzione poteva ritenersi imposta dalla disposizione, ma avrebbe costituito un elemento di rigidità non giustificabile. Non si sarebbe compreso perché dovesse essere necessario un adempimento materiale, complesso e costoso ( l’ispezione) e, evidentemente, inutile114. La dizione testuale della disposizione115 ha eliminato ogni equivoco ed è oggi chiaro che “l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarata è desumibile sulla base di presunzioni semplici”.

È però opportuno sottolineare che sono due i profili suscettibili di accertamento. In primo luogo l’ ufficio deve dimostrare “l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate”. In secondo luogo deve procedere alla relativa