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Orientamenti sul principio di eguaglianza nello sviluppo normativo

3. Teorie sulla parità di trattamento ed eguaglianza fra i soci

3.1. Orientamenti sul principio di eguaglianza nello sviluppo normativo

Nel vigore del Codice di Commercio del 1882 si sosteneva che il principio della parità di trattamento trovasse fondamento nell art. 164 c. abr., il quale stabiliva che le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori

uguali diritti se non è stabilito diversamente nell atto costitutivo, salvo però ad ogni azionista il diritto di voto nelle assemblee generali . La norma, da un lato, sanciva il

principio della eguaglianza formale dei diritti attribuiti alle azioni, ma, dall altro, degradava tale principio a regola dispositiva, consentendo all atto costitutivo di creare categorie di azioni dotate di diritti speciali75.

Secondo la dottrina dell epoca, la parità di trattamento dei soci, considerata come un diritto intangibile dell azionista, era in grado di porre un limite alla previsione di categorie di azioni speciali, in quanto ogni diversa regolamentazione dei diritti avrebbe richiesto un apposita clausola nell atto costitutivo originario, come

74 G.PASETTI, op. cit., p. 70 ss. 75 G. D ATTORRE, op. cit., pp. 16, 17.

tale accettata da tutti i contraenti, mentre sarebbe stata negata la possibilità di una successiva introduzione a maggioranza76.

Con l avvento del Codice Civile del 1942 è stata introdotta la norma ai sensi dell art. 2348 c.c., secondo la quale, fermo il principio per cui le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti, è espressamente consentita la creazione di categorie di azioni fornite di diritti diversi mediante modificazioni a maggioranza dell atto costitutivo. Pertanto, veniva meno il seppur flebile fondamento normativo su cui era stata costruita l affermazione della parità di trattamento quale diritto soggettivo77.

La parità di trattamento non poteva più essere intesa come un diritto individuale del socio, ma piuttosto poteva essere interpretata come un principio che si esplica soltanto all interno delle varie categorie di azioni78. L opinione della

permanenza di una regola di parità di trattamento era invero tanto diffusa e condivisa79 da ritenere superflua l introduzione di una norma espressa che

codificasse il principio80.

76 A.VIGHI, op. cit., p. 50 ss.; A.DONATI, op. cit., p. 137.

77 Tuttavia, qualche Autore anche successivamente ha ricondotto la parità di trattamento nell ambito

dei diritti individuali dei soci: A. CERRAI, A. MAZZONI, op. cit., pp. 378, 383, anche se successivamente (a p. 421) sembrano farvi riferimento solo in funzione di sanzionare i comportamenti posti in essere dagli amministratori con abuso di potere.

78 V. BUONOCORE, op. cit., p. 252; P.RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nel diritto privato, in Riv.

dir. trim. proc. civ., 1959, p. 1525; G. OPPO, Le grandi opzioni della riforma e la società per azioni, in G.CIAN (a cura di), Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, Padova, 2004, p. 480;A. BERTINI, op. cit., p. 73, secondo il quale la parità di trattamento, al pari di altri cosiddetti diritti soggettivi, sarebbe in realtà una regola fondamentale del diritto (obiettivo) societario e nessuna subiettivazione della norma stessa sarebbe necessario o anche conveniente ipotizzare. Anche in Francia la dottrina maggioritaria ha escluso che possa trattarsi di un diritto alla parità di trattamento, asserendo invece che sarebbe una modalità di esercizio dei diritti e una regola di ripartizione dei diritti tra gli azionisti: A. VIANDIER, La notion d'associ , Paris, 1978, p. 121. Nell ordinamento francese tale regola è, del resto, dispositiva, in quanto, in nome di un prevalente interesse sociale è possibile, ad esempio, distribuire i dividendi o la quota di liquidazione in modo non proporzionale, o far beneficiare i soci, sempre in modo non proporzionale, di un aumento di capitale sociale, o, ancora, far sopportare una riduzione del capitale soltanto ad alcuni di essi. Altri trattamenti differenziati sono giustificati sulla base della detenzione del controllo, ovvero di una partecipazione rilevante, nonché dalla presenza di categorie di azioni. Per degli esempi al riguardo: J.-M.MOULIN, op. cit.

79 T.ASCARELLI, Sui poteri della maggioranza nelle società per azioni ed alcuni loro limiti, cit., p.

177; L.MENGONI, Appunti per una revisione della teoria sul conflitto di interessi nelle deliberazioni di assemblea della società per azioni, in Riv. soc., I, 1956, p. 499;R. NOBILI,Contributo allo studio del diritto di opzione nelle società per azioni, Milano, 1958, p. 246; P.RESCIGNO, op. cit.., 1959, p. 1515;A.MIGNOLI, Le assemblee speciali, cit., pp. 75, 262; G.L. PELLIZZI,op. cit., p. 327 ss.; G. PASETTI, op. cit., p. 103; G.OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, in Riv. dir. civ., I, 1974, p. 631 e 641;R.SACCHI, Il principio di maggioranza nel concordato e nell'amministrazione controllata, Milano, 1984, p. 218;F. D ALESSANDRO, La seconda direttiva e la parità di trattamento degli azionisti, cit., p. 1 ss.; A. CERRAI,A.MAZZONI,op. cit., p. 378; G. MARASÀ, Modifiche del

Al pari di quanto era stato sostenuto rispetto all esistenza della categoria dei diritti soggettivi dell azionista, il principio della parità di trattamento era sovente affermato in modo apodittico, senza che la sua vigenza nel nostro ordinamento fosse effettivamente oggetto di dimostrazione81.

Il principio di eguaglianza tra i soci era originariamente spiegato, infatti, a prescindere dal dato normativo, del resto, praticamente inesistente, quale riflesso in ambito societario di una eguaglianza di diritto naturale.

Il fondamento della parità di trattamento, secondo una certa dottrina82,

risiedeva nel vincolo comunitario, ovvero nel limite al potere della maggioranza insito nell esistenza di un ordinamento di gruppo, basato su un principio di giustizia distributiva per cui gli eguali dovrebbero essere trattati in modo eguale e i diversi in modo diverso83. La parità di trattamento così assumeva un ruolo di difesa della contratto sociale e modifiche dell atto costitutivo, in G.E.COLOMBO e G.B.PORTALE (diretto da), Trattato delle società per azioni, Torino, 6, 1993, p. 106 ss.; D.PREITE, op. cit., pp. 34 e 36 ss.; L. CALVOSA,La partecipazione eccedente e i limiti al diritto di voto, Milano, 1999, p. 205. In senso contrario, escludono l esistenza del principio della parità di trattamento: G. C. M.RIVOLTA, op. cit., pp. 185 e 365;C.SCHEL, Parità di trattamento degli azionisti, in Riv. dir. comm., I, 1987, p. 4; C. ANGELICI, Parità di trattamento degli azionisti, cit., pp. 12 e 13. Sulla diffusione del principio della parità di trattamento tratta: G. D ATTORRE, op. cit., p. 25 e 31 ss. Infine, da segnalare il contributo di: M.SPERANZIN, Diritto di sottoscrizione e tutela del socio di s.r.l., Torino, 2012, pp. 47 e 48, il quale sostiene l operatività del diritto alla parità di trattamento tra i soci nella s.r.l., quale vincolo alle decisioni degli organi sociali soprattutto con riferimento alle operazioni sul capitale, al fine di permettere al socio di conservare la propria posizione amministrativa.

80 G. D ATTORRE, op. cit., p. 21; F. D ALESSANDRO, La seconda direttiva e la parità di trattamento

degli azionisti, cit., p. 2;C.ANGELICI, Parità di trattamento degli azionisti, cit., p. 1. La Seconda direttiva in materia societaria CEE n. 71/91 disponeva all art. 42 che per l applicazione della presente direttiva le legislazioni degli Stati membri salvaguardano la parità di trattamento degli azionisti che si trovano in situazioni identiche . A differenza di altri legislatori, come quello tedesco che ha introdotto una nuova norma che prevede espressamente che gli azionisti debbano essere trattati in modo uguale a parità di circostanze, il legislatore italiano, nel recepire la direttiva europea, non ha ritenuto di inserire nel nostro diritto societario una espressa consacrazione del principio di parità di trattamento. Ciò in quanto si è affermato, come si legge nella Relazione allo schema di legge delegata per l attuazione della Seconda direttiva (D.P.R. 10 febbraio 1986, n. 30, in Giur. comm., I, 1984, p. 991 ss.), che tale introduzione sarebbe stata superflua, trattandosi di regola già vigente nel nostro ordinamento. Secondo una certa dottrina, invece, il riconoscimento di una regola di parità di trattamento sarebbe stato conseguenza della necessità di adattamento dell ordinamento nazionale alle regole di diritto comunitario, anche eventualmente attraverso l utilizzo dell interpretazione conforme: D.PREITE, op. cit., p. 44, nota 23; G.MARASÀ, La seconda direttiva CEE in materia di società per azioni, in Riv. dir. civ., II,1978, pp.679, 680;M.CASSOTTANA, L abuso di potere a danno della minoranza assembleare, Milano, 1991, p. 109; G.B.PORTALE,«Uguaglianza e contratto»: il caso dell'aumento di capitale in presenza di più categorie di azioni, in Riv. dir. comm., I, 1990, pp. 719, 730 ss.; G.MARASÀ, Modifiche del contratto sociale e modifiche dell atto costitutivo, cit., p. 107.

81 Secondo L.CALVOSA, La partecipazione eccedente e i limiti al diritto di voto, cit., p. 205, la parità

di trattamento costituirebbe un principio immanente del sistema.

82 P.RESCIGNO, op. cit., p. 1527 ss.

83 Sulla applicazione della giustizia distributiva al principio di eguaglianza degli azionisti in Francia

minoranza e di divieto di abuso.

Tuttavia, agevole era la critica nei confronti di tale interpretazione84 che, non

supportata da alcun aggancio positivo, risultava particolarmente indeterminata, a partire dall incertezza nei confronti del concetto di comunità, per cui mancava di ogni analisi sul concreto operare della regola nel fenomeno societario e sui limiti che la comunità sarebbe stata in grado di imporre al potere della maggioranza di conformare la volontà sociale85.

Altra dottrina, quindi, ha ricercato il fondamento del principio della parità di trattamento nel diritto positivo e, in particolare, nell art. 2373 c.c. sul conflitto di interessi86, sostenendo che l obiettivo di tale norma sarebbe quello di garantire che la

decisione maggioritaria realizzi una proporzionale distribuzione di vantaggi (o eventualmente di svantaggi) tra tutti i soci. Tale tesi, nel presupporre che ogniqualvolta un socio perseguisse l interesse ad ottenere un vantaggio non ripartito proporzionalmente con gli altri soci si ponesse in conflitto con l interesse sociale, non poteva essere condivisa. Difatti, l interesse sociale, pur nella prevalente concezione contrattualistica che lo vede quale insieme di tutti gli interessi del socio in quanto tale87, non necessariamente contrasta con delibere che creino una disparità

Affaires, cah. dr. entr. n° 5, 1994, p. 20; J. RAWLS, CATHERINE AUDARD (Trad.), Th orie de la justice, in Seuil, 1987; P.RIC UR, Soi-m me comme un autre, in Seuil, 1990, p. 235 ss.

84 G.PASETTI, op. cit., pp. 26 e 56 ss.; G.OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, cit.,

p. 641 ss.; N.ROBIGLIO, La parità di trattamento tra soci nella società per azioni, cit., p. 126; D. PREITE, op. cit., p. 38, nota 12, secondo il quale ci che manca all analisi del Rescigno l individuazione, positivamente fondata, dei criteri normativi di modifica delle situazioni soggettive dei membri di una comunità, dei criteri e limiti alla produzione di regole interne alla comunità medesima ; conf.: G. D ATTORRE,op. cit., p. 38 ss.

85 Altra dottrina (vedi in particolare R.SACCHI, op. cit., p. 218 ss.), non dissimile dalla precedente, ha

ritenuto che il fondamento della parità di trattamento risiederebbe nella comunione di interessi fra soci, la quale caratterizza il fenomeno societario. Per cui il paritario trattamento degli azionisti avrebbe costituito strumento essenziale per il rispetto della comunione di interessi e, pertanto, prescinderebbe dalla necessaria esistenza di una norma giuridica che lo riconosca. Tuttavia, in realtà, tra comunione di interessi e principio di parità non vi è identità, in quanto la comunione di interessi può sussistere anche in mancanza della parità tra i soci. Vedi: G. D ATTORRE, op. cit., p. 43 ss. Inoltre, è stata correttamente criticata la premessa stessa dell argomento che: ravvisa nel nostro ordinamento societario un nesso tra operare del principio di maggioranza e strumentalità degli interessi dei soci rispetto alla decisione maggioritaria , in D. PREITE, op. cit., p. 39, nota 12; conf.: N. ROBIGLIO, La parità di trattamento tra soci nella società per azioni, cit., pp. 136, 137.

86 L.MENGONI, Appunti per una revisione della teoria sul conflitto di interessi nelle deliberazioni di

assemblea della società per azioni, cit., p. 447 ss. Tesi ripresa in tema di abuso a danno della minoranza da: M.CASSOTTANA, op. cit., p. 93 ss.

87 P.G.JAEGER, L interesse sociale, Milano, 1972, pp. 90 e 184 ss.; R. SACCHI, op. cit., pp. 146, 171

ss.; G.ROSSI,Utile di bilancio e riserve di dividendo, cit., pp. 186, 202 ss.; D.PREITE, op. cit., pp. 7, 20 ss.

di trattamento tra i soci, ma che tutelino comunque l interesse comune alla corretta esecuzione del contratto.

Ancor meno convincente era quella dottrina che individuava il fondamento positivo della parità di trattamento nelle norme dettate in materia di comunione88.

Secondo tale dottrina, la norma di cui all art. 1108 c.c. andrebbe interpretata nel senso che, impedendo il pregiudizio al godimento di alcuno dei partecipanti in materia di innovazioni, o il pregiudizio negli altri atti eccedenti l ordinaria amministrazione, farebbe riferimento al danno che colpisce il singolo nei rapporti con gli altri membri e non a quello che colpisce tutti i comproprietari in egual misura. In questi termini, le norma esprimerebbe un principio valido anche per le società ed imporrebbe che la parità di trattamento vada rispettata sia nella modifica del rapporto che nell esecuzione del contratto. Tale impostazione contrasta con l impossibilità di applicare estensivamente dei principi sviluppati in materia di comunione alle società, considerata l insuperabile diversità dei due fenomeni. Inoltre, tale dottrina aveva svilito il ruolo dell art. 2348 c.c., che nel consentire la creazione di categorie di azioni con diritti diversi proverebbe il carattere meramente dispositivo del principio di uguaglianza di cui al primo comma, la cui imperatività dovrebbe essere dimostrata altrimenti89.

Lo sforzo più efficace nell attribuire un fondamento normativo alla teoria della parità di trattamento era stato compiuto da chi aveva ritenuto di ancorarlo alla natura contrattuale della società90. In particolare, era stato affermato che: se il

88 G.PASETTI, op. cit., p. 103 ss. Criticano tale impostazione: G.OPPO, Eguaglianza e contratto nelle

società per azioni, cit., pp. 643 - 645; D.PREITE, op. cit., p. 39, nota 12; G. D ATTORRE,op. cit., p. 66 ss.

89 G.PASETTI, op. cit., pp. 66-72. Nondimeno, a tale posizione, era stato correttamente replicato che la

possibilità di creare nuove categorie di azioni è una deroga al principio di parità dei diritti e non a quello di parità di trattamento, che deve invece essere rispettato tra le azioni della medesima categoria. D altronde l art. 2376 c.c. limita le possibilità di deroga alla parità di trattamento nei rapporti tra categorie alla previa approvazione da parte della maggioranza della categoria pregiudicata. Vedi: N. ROBIGLIO, La parità di trattamento tra soci nella società per azioni, cit., p. 122; D.PREITE, op. cit., p. 38, nota 12.

90 Tesi sviluppata principalmente da: G.OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, cit., p.

629 ss. e riaffermata da: A. CERRAI, A. MAZZONI, op. cit., p. 378 ss. Il pensiero di Oppo e, in particolare, il relativo contrattualismo critico , è ripreso in G. SCOGNAMIGLIO, Tutela del socio e ragioni dell'impresa nel pensiero di Giorgio Oppo, in Banca borsa e tit. cred., I, 2012, p. 14 ss., ove si legge: La tesi di fondo sviluppata da Oppo è la seguente: pur dovendosi escludere, sulla base di dati normativi inoppugnabili (l'art. 2348, 2º comma; l'art. 2376 c.c.), che un autonomo principio di parità operi tra tutti gli azionisti , non si pu negare che, là dove vi sia un contratto, operi il principio del rispetto del contratto quanto alla proporzione del soddisfacimento dell'interesse contrattuale di ciascuno: val quanto dire che questo rispetto, non già regola l'esercizio di un potere

fondamento contrattuale della società (non più in discussone, neanche per le società di capitali) non ha solo un valore storico o costruttivo o limitato alla disciplina del fatto, ma deve avere un significato anche nella valutazione dell effetto e quindi del rapporto, non può disconoscersi che tra le parti il contratto fissa intangibilmente almeno la proporzione reciproca della partecipazione ai vantaggi e ai sacrifici contrattuali e che nessuno può imporre alla parte, nei rapporti con le altre, un mutamento di quella proporzione 91.

La teoria contrattualistica, quindi, rimandava nuovamente alla concezione dei diritti soggettivi, riconoscendo al socio un diritto intangibile al rispetto delle proporzioni reciproche92, ovvero una tutela del singolo contro l azione anti-

contrattuale della maggioranza, intesa a spogliare una parte a vantaggio dell altra. Inoltre, dall intangibilità delle posizioni reciproche, ovvero dalla immodificabilità della proporzione originaria alla ripartizione dei vantaggi e dei sacrifici come fissata nel contratto sociale, discendeva la relativa mancanza di potere in capo agli organi sociali e, segnatamente, all assemblea: qui non vi è luogo a ricerca e a definizione

dei limiti di un potere della maggioranza in rapporto a canoni positivi di condotta, con i dubbi e le difficoltà conseguenti; vi è luogo solo alla negazione del potere e di ogni legittimazione. Non è quindi luogo ad impugnabilità ma ad inefficacia. 93.

Nonostante l apprezzabile sforzo ricostruttivo, non è sostenibile che non sia possibile modificare la reciproca proporzione di partecipazione ai vantaggi e svantaggi fissata originariamente nel contratto sociale, poiché già il sistema normativo vigente all epoca dello sviluppo di tale dottrina e, a maggior ragione quello odierno, consentiva alla maggioranza di incidere in più modi sui diritti degli azionisti94.

della maggioranza, ponendosi come limite interno del medesimo, ma segna il limite al di là del quale non vi è potere . Invece, un esame critico di questa dottrina è svolto da: G. D ATTORRE, op. cit., p. 48 ss.

91 G.OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, cit., p. 646.

92 Oppo, infatti, affermava che: quel che è certo è che il socio ha per contratto il diritto, quale che

sia il sacrificio richiesto nell interesse comune, di concorrer e all interesse comune solo nella proporzione stabilita dal contratto e ha diritto a che gli altri soci vi concorrano nella proporzione medesima , G.OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, cit., p. 649.

93 G.OPPO, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, cit., p. 650.

94 Dello status del sistema normativo, nonché dei mutamenti del diritto societario che andavano nella

direzione dell ampliamento delle competenze del potere maggioritario e così della criticabilità della sua tesi, Oppo era ben consapevole, tant è che la valenza politica e di stimolo alla riflessione del suo discorso era evidente. L obiettivo e l aspirazione dell Autore erano volti ad impedire il costituirsi di posizioni di potere incontrollato, per cui, finché il fondamento contrattuale della società non era messo

Innanzitutto, lo stesso art. 2348 già nella originaria formulazione del Codice Civile del 1942, dopo aver riconosciuto al primo comma l uguaglianza dei diritti delle azioni e, di conseguenza, degli azionisti che ne possiedono di ugual numero e tipo, consentiva al secondo comma la creazione di nuove categorie di azioni fornite di diritti diversi con lo statuto o soprattutto con successive modificazioni di questo, la cui introduzione può certamente incidere sui diritti delle preesistenti categorie di azioni e dei relativi possessori, così modificando l originaria proporzione dei soci alla partecipazione degli utili ed alle perdite.

Inoltre, in via meramente esemplificativa e senza pretesa di esaustività, a seguito del D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la modifica alla proporzione originaria sulla ripartizione dei vantaggi e dei sacrifici come fissata nel contratto sociale avviene certamente come conseguenza delle operazioni straordinarie, quali trasformazione, fusione o scissione, ma anche in seguito all aumento del capitale sociale con esclusione del diritto di opzione, oppure quale effetto della riduzione del capitale sociale reale con annullamento di alcune azioni soltanto.

Va comunque notato che le modifiche ai diritti di partecipazione dell azionista derivanti da tali operazioni sono indirette, ovvero sono conseguenze od effetti di diverse deliberazioni prese dall assemblea a maggioranza per la realizzazione del contratto sociale e la gestione della società. Eppure, tali modifiche incidono direttamente sulle azioni e, in ragione del diverso possesso azionario dei soci, possono influire in modo non omogeneo sulla sfera giuridica di ciascuno95.

Inoltre, la teoria della parità di trattamento su base contrattualistica, sebbene non possa contestarsi il fondamento contrattuale del nostro diritto societario, pare non tenga in adeguata considerazione che il contratto di società, a differenza di quelli di scambio, è un contratto di organizzazione nel quale il rapporto regolato ha natura dinamica e l assetto di interessi è suscettibile di mutare nel tempo96. Pertanto, non in discussione (e così era negli anni 70 quando ancora non ammissibile la costituzione della società per atto unilaterale), occorreva cercare di ricavare tutto il possibile da tale fondamento, in punto di vincolo dei poteri della maggioranza nei confronti della minoranza e di vincolo dei poteri degli organi sociali. In tal senso: G. SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 17 ss.

95 Come si argomenterà più approfonditamente nel capitolo seguente, invece, ciò che è vietato nel

nostro ordinamento non è una qualsiasi modifica delle posizioni reciproche degli azionisti, ma soltanto le modifiche dirette, che vadano a discriminare la posizione di un socio rispetto ad un altro sulla base di ragioni diverse dal possesso azionario.

96 A. GAMBINO, op. cit., pp. 124 ss., 139, secondo il quale i soci non possono fare affidamento