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Capitolo Terzo

3.1 LE LEGGI: L’EDITTO DI ROTAR

3.1.1 LE ORIGINI DELL’EDITTO

Il 22 novembre del 643 d.C., nel suo palazzo di Pavia, Rotari (636-652 d.C.), “diciassettesimo re della stirpe dei Longobardi”, promulgò l’Editto delle leggi della sua gente, spinto dalla consapevolezza dei soprusi a cui “i poveri” erano sottoposti a causa degli abusi dei potenti, affinché fosse consentito a tutti “in futuro di vivere in pace e di impegnarsi nella guerra contro i nemici del regno” . 137

Quella da lui promossa fu la prima codificazione scritta di un patrimonio di leggi fino ad allora trasmesso oralmente, per mezzo di anziani, i saggi uomini della stirpe longobarda, che erano in grado di svolgere il ruolo di veri e propri codici viventi . Il re aveva dovuto interpellare questi saggi 138

per ricercare e ricordare tutte “le antiche leggi dei nostri padri che non erano scritte”; il recupero di questo ingente patrimonio normativo, esaminato e selezionato attentamente dal sovrano “con pari consiglio e

C. Azzara, Leggi longobarde e capitolari italici: produzione, applicazione, trasmissione, in I

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quaderni del m. æ. s.-Journal of Mediæ Ætatis Sodalicium, (Online) 2002, 5, 1, pp. 87-88

C. Azzara, Leggi longobarde e capitolari italici: produzione, applicazione, trasmissione, in I

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consenso con i principali giudici e con tutto il nostro felicissimo esercito”, aveva dato vita all’Editto . Non è semplice stabilire ciò che realmente 139

Rotari si proponesse di ottenere con la promulgazione dell’Editto, al di là di voler porre rimedio ad uno stato di soprusi frequenti e di diffusa violenza, come preannunciato nel prologo dello stesso. Secondo l’ormai classica lettura di Gian Piero Bognetti, la codificazione di Rotari andrebbe letta come un “espediente politico” del re, il quale, per mezzo della raccolta di legge da lui promossa, avrebbe cercato di rafforzare la base del proprio potere . 140

Rotari, attraverso la promulgazione del suo Editto, si sarebbe preoccupato di guadagnare la devozione degli exercitales, che l’Editto veniva a tutelare dai soprusi dei duchi, e allo stesso tempo, attraverso un forte richiamo alla tradizione di stirpe, avrebbe ricompattato l’intero popolus-exercitus, disperso nei vari gruppi sparsi nella penisola, con lo scopo di addensare ed ottenere un’ingente forza bellica da poter utilizzare contro i nemici . 141

Il processo di rafforzamento della monarchia longobarda, fenomeno peculiare del VII e soprattutto dell’VIII secolo, avrebbe potuto anche

«pari consilio parique consensum cum primatos iudices cunctosque felicissimus exercitum»,

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Edictum Rothari, cap. 386, in C. Azzara, S. Gasparri (eds.), Le leggi dei Longobardi: storia, memoria e diritto di un popolo germanico, Roma 2005, pp. 112-115

G. P. Bognetti, L’Editto di Rotari come espediente politico di una monarchia barbarica, in

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Idem, L’età longobarda, IV, 1968, pp. 115-135

C. Azzara,  S. Gasparri (eds.),  Le leggi dei Longobardi: storia, memoria e diritto di un

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seguire la via di un ampliamento delle basi del patrimonio fiscale regio, attraverso le norme inserite nell’Editto che andavano a costituire la curtis

regia, ma in questo periodo la figura del re rimase piuttosto debole

all’interno dell’ordinamento politico e all’interno della società.

Le leggi erano immerse nella remota tradizione del gruppo etnico, e il faticoso recupero mnemonico del re in concorso con l’assemblea dei liberi consentì la loro redazione per iscritto .142

Non tutte le norme che regolavano la vita della società longobarda finirono però nel codice: molte di esse continuarono a sussistere, a fianco dell’Editto, ma al di fuori di esso, sotto forma di consuetudini orali, chiamate in longobardo cawarfide . Queste mantennero inalterato il proprio vigore e la 143

propria importanza, pur non essendo inserite all’interno dell’Editto.

I capitoli 73, 77 e 133 di Liutprando, ad esempio, confermano l’esistenza in pieno VIII secolo di antiche cawarfide che erano ancora utilizzate e che solo a quell’epoca il legislatore ritenne di dover inserire nel codice scritto, probabilmente per dar loro maggior certezza d’applicazione . In un caso, 144

C. Azzara, Leggi longobarde e capitolari italici: produzione, applicazione, trasmissione, in I

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quaderni del m. æ. s.-Journal of Mediæ Ætatis Sodalicium, (Online) 2002, 5, pp. 87-106

“antica consuetudine giuridica, legge non scritta”, scritta cauuarfida; N. Francovich

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Onesti, Vestigia longobarde in Italia (568-774) Lessico e antroponimia, Artemide Edizioni, Roma 1999, pp. 72-73

A testimonianza del loro ingresso all’interno dell’Editto, «Hoc autem ideo nunc

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adfiximus, quia tantumodo causa ista in hoc modo semper et antecessorum nostrorum tempore et nostro per cawarfida sic iudicatum est; nam in edicto scripta non fuit.» Liutprandi leges,

capitolo 133, in C. Azzara,  S. Gasparri (eds.),  Le leggi dei Longobardi: storia, memoria e

espresso nel capitolo 118, lo stesso Liutprando, la cui opera legislativa presentava pure fortissimi elementi di innovazione, fu costretto a lamentare la propria impotenza nei confronti di un’antica consuetudine, relativa al duello giudiziale: era palese la totale sfiducia del re verso il carattere probatorio di tale pratica, ma egli dichiarava di non poter in alcun modo vietarla, proprio “per la consuetudine della nostra stirpe dei Longobardi” . 145

Il passo rappresenta la più esplicita testimonianza della impossibilità, anche per una legislazione fortemente innovativa quale fu quella liutprandina, di fuoriuscire del tutto dalla tradizione di stirpe.

Le consuetudini rimaste al di fuori dell’Editto, proprio per non aver conosciuto il processo di cristallizzazione inevitabilmente subito dalle norme poste per iscritto, poterono mantenere una maggiore elasticità e adattabilità alle diverse circostanze, impedendo agli influssi del diritto romano di penetrare al loro interno. Infatti va detto che nel momento in cui Rotari si propose, attraverso la codificazione, di fissare e di salvaguardare il diritto tradizionale longobardo, il passaggio dalla trasmissione orale alla

«Quia incerti sumus de iudicio dei, et multos audivimus per pugnam sine iustitia causam

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suam perdere; sed propter consuitutinem gentis nostrae langobardorum legem ipsam vetare non possumus» Liutprandi leges, capitolo 118, in C. Azzara,  S. Gasparri (eds.),  Le leggi dei Longobardi: storia, memoria e diritto di un popolo germanico, Roma 2005, pp. 208-209; sulla

sfiducia da parte dei legislatori per la pratica del duello giudiziale, da constatare come nei capitoli 164, 165, 166 di Rotari la formula «quia grave et impium videtur esse, ut talis

causa sub uno scuto per pugnam dimittatur» si ripete in varie forme, tutte volte a

scrittura aprì la strada ad una lenta penetrazione di termini, formule, istituti e concetti romani. Un potente veicolo di diffusione di questi ultimi era costituito anche dal messaggio della Chiesa, come apparve evidente per l’epoca di Liutprando .146

Di sicuro per redigere l’Editto furono utilizzati modelli che si ispiravano ad analoghe raccolte di leggi altomedievali (testi alamanni, bavari, soprattutto visigoti), ma ciò che la critica ritiene fondamentale è il carattere germanico che traspare dall’Editto: “la legislazione longobarda presenta caratteri di grande originalità, offrendo una materia genuinamente germanica nella sua essenza, assai più pura da questo punto di vista di molte altre codificazioni barbariche altomedievali” . Ciononostante vanno considerate anche le 147

molte tracce lasciate dai modelli romani, sia in termini di raccolte legislative, come la raccolta giustinianea, il diritto teodosiano, sia i regolamenti militari romani, con i quali il popolo longobardo aveva avuto dimestichezza fin dall’inizio della loro discesa in Italia, durante la loro

«In Rotari però, nonostante l’occasionale ricorso a qualche motivo di natura

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cristiana, ad iniziare proprio dal prologo, il cristianesimo nel suo complesso si presenta ancora come una sovrastruttura tutto sommato posticcia, i richiami alla quale hanno un carattere esteriore e formale, mentre il nerbo della materia affonda in una cultura tribale eminentemente pagana», C. Azzara,  S. Gasparri (eds.),  Le leggi dei Longobardi:

storia, memoria e diritto di un popolo germanico, Roma 2005, p. xlv

C. Azzara,  S. Gasparri (eds.),  Le leggi dei Longobardi: storia, memoria e diritto di un

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popolo germanico, Roma 2005, p. xlv; si parla anche di un canovaccio, il quale sarebbe

permanenza nella penisola in qualità di foederati dei Bizantini, dei quali si percepisce in maniera forte la presenza nelle leggi . 148

G. P. Bognetti, Caratteri del secolo VII in Occidente, in Idem, L’età longobarda, IV, Milano

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3.1.2 LA STRUTTURA INTERNA DELL’EDITTO E IL SUO LEGAME