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Osservazioni conclusive

Dalla precedente ricostruzione, si è avuto modo di osservare che la buona fede si presenta quale precetto rivolto sia ai consociati, in quanto regola di comportamento, sia al giudice, in quanto modello di decisione502.

501 In tal senso, F. P

ROSPERI, Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza economica, cit., p. 345 e ss. che riprende l’insegnamento di C. M. BIANCA, Diritto civile, 3, cit., p. 32. Analogamente, P. PERLINGIERI, Il

diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 1991, p. 134 e

ss. Secondo questo autore l’autonomia privata non è un valore di per sé, ma lo può essere se e in quanto risponda ad un interesse meritevole di tutela alla stregua dei principi costituzionali.

502

In tal senso, M. BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1965, p. 340 ss.; P. BARCELLONA,

Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1966, p. 155. Già, G.

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Si deve, quindi, rilevare che già per la sola considerazione che la regola di buona fede è «criterio di valutazione e di qualificazione di un comportamento»503, è indubbio che la regola in esame ricomprenda l’ambito di applicazione che si vorrebbe attribuire al divieto dell’abuso del diritto, quando si parla di esercizio del diritto (o libertà) con finalità diverse da quelle attribuite dall’ordinamento.

Per quanto riguarda, invece, il secondo profilo, la natura di modello decisionale è rappresentata dalla funzione di bilanciamento degli interessi delle parti. Si legge, infatti, anche nella pronuncia relativa al caso Renault, che « [..] il giudice, nel controllare ed interpretare l’atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l’atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi contrattuali». Nello stesso senso vanno le ulteriori affermazioni fatte, nella medesima occasione, quando nella motivazione si affronta il tema delle modalità del concreto esercizio. In particolare, la Corte, criticando l’argomentazione del giudice di merito, afferma che «Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di “conflittualità”. […] In concreto, avrebbe dovuto valutare – e tale esame spetta ora al giudice di rinvio – se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti».

A fronte del percorso logico-argomentativo intrapreso nella presente indagine si ritiene legittimo, pertanto, domandarsi a cosa si dovrebbe alludere con il riferimento al termine «Consentiti». Tale riferimento non potrebbe allora che essere ricondotto al regolamento convenzionale, legale, integrativo che si applica alle parti, nel quale non può non essere ricompreso l’obbligo di buona fede.

Di conseguenza, le modalità e le finalità dell’esercizio del diritto devono essere consentite nei limiti del rispetto della clausola generale in esame, secondo i parametri in precedenza esaminati.

Se è corretta la scelta compiuta con riferimento alla buona fede quale limite «interno» , si rende tuttavia necessario compiere alcune precisazioni.

La regola di buona fede, oltre che a creare la regola iuris del caso concreto504, sulla base delle circostanze e degli effetti che l’esercizio dei diritti esplicano nella specifica operazione

disposizioni dell’art. 1124 del codice del 1865 oltre che un precetto rivolto al giudice anche la struttura di una norma materiale, rivolta alle parti contraenti. Da ciò, è possibile dedurre il ridimensionamento della contrapposizione tra la concezione della buona fede quale fonte di regole che integrano il regolamento contrattuale e quella che assume a criterio di un giudizio in concreto a posteriori . A. D’ANGELO, La buona fede, in Trattato di

diritto privato, M. Bessone (diretto da), XIII, Il contratto in generale, IV, Torino, 2004, p. 38.

503 Cass, 16 febbraio 1963, n. 357, in Foro padano 1964, I, p.1283. 504 Cass. 20 aprile 1994, n. 3774, cit..

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economica505, si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra parte, a prescindere tanto dagli specifici obblighi contrattuali quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico506.

In tal modo, per mezzo dell’impiego della regola della buona fede si finirebbe per giungere a una tutela di gran lunga maggiore rispetto gli atti di autonomia negoziale esercitati abusivamente perché, appunto, si imporrebbe l’obbligo di salvaguardare gli interessi della controparte. In altre parole, nell’esercizio degli atti di autonomia privata deve necessariamente tenersi conto degli interessi dell’altra parte, al punto che non si dovrebbe soltanto evitare di porre in essere ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altro, ma si imporrebbero anche obblighi positivi, «di collaborazione»507.

Le considerazioni che precedono si mostrano utili in relazione alla disciplina del rapporto tra soci nell’ipotesi di esercizio abusivo delle prerogative a questi spettanti.

A seguito della ricostruzione effettuata nel primo capitolo, è emerso, oltre alla semplice constatazione che i diritti e le prerogative dei soci, in quanto discendenti da contratto (quello di società), devono essere esercitati nel rispetto della buona fede oggettiva quale regola precettiva di carattere generale508, che anche in ambito societario, in relazione all’abuso della regola di maggioranza o di minoranza, la giurisprudenza richiama la violazione della buona fede e correttezza. Ciò nonostante, 509gli stessi giudici costantemente considerano quale elemento

505 Rende chiaro il punto, di cui se ne riporta il contenuto, in L. B

IGLIAZZI GERI, Buona fede nel diritto civile,

cit., p. 175 e ss., la quale ravvede nella buona fede uno «strumento capace di fungere — in quella che è stata

indicata come una valutazione di secondo grado, ma non per ciò meramente eventuale e sussidiaria — da correttivo dei rigori del jus strictum tramite una valutazione degli interessi, coinvolti nella singola vicenda, diversa da quella che conseguirebbe al puro e semplice accertamento della formale corrispondenza di un fatto e/o di un comportamento ad un'astratta previsione di legge e di consentire, pertanto, in un contesto la cui coloritura è offerta dai nuovi principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 2, 3, 4, 32, 36 e 37 cost.; art. 41, comma 2, cost.; art. 42, comma 2, cost.) e dall'esigenza di socialità che in essi si esprime, quel contemperamento di opposti interessi che un miope impiego dello strumento normativo renderebbe inattuabile».

506 Cass., 4 maggio 2009, n. 10182. 507

Si ricorda, infatti, che la buona fede in senso oggettivo può essere utilizzata sia per sanzionare comportamenti scorretti, che per imporre comportamenti corretti, si v. A. DI MAJO, Libertà contrattuale e dintorni,

cit., p. 2. In tal senso, Cass., S.U., 2 novembre 1979, n. 5688, cit.; Cass., 8 febbraio 1999, n. 1078, cit.; Cass., 23

luglio 1997, n. 6900, cit.

508

«i soci devono eseguire il contratto secondo il principio di buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.», così Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, cit., 449 e ss.

509 Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, cit., 449 e ss. Richiamava l’orientamento espresso nella pronuncia appena

indicata, Cass. civ., 12 dicembre 2005, n. 27387, in Il Foro it., 2006, 129, XII, p. 345, nella quale si affermava appunto che «Più specificamente, il principio di buona fede contrattuale e il conseguente principio di collaborazione che deve informare l'opera dei soci nell'organizzazione della società vengono considerati la base

145

imprescindibile a tal fine, la dimostrazione dell’intento soggettivo del socio a danneggiare gli interessi degli altri soci510.

Alla stregua di quanto detto deve, invece, evidenziarsi in primo luogo che il giudice, in occasione di conflitti tra soci nel caso di esercizio di prerogative degli stessi che si assume

abusivo, dovrebbe ricorrere al criterio di giudizio della buona fede e correttezza con le stesse

modalità operative riscontrate in ambito civile, avuto particolare riguardo alla funzione integrativo-correttiva. In tal modo, è evidente che la condotta dei soci sarebbe sindacabile in considerazione degli interessi dell’altra parte, a prescindere che si tratti di maggioranza o minoranza, nell’esercizio delle prerogative, convenzionali o legali che siano, attribuite agli stessi.

In secondo luogo, l’esercizio delle prerogative attribuite ai soci sarebbe sindacabile non in virtù di abuso del diritto o di abuso della regola di maggioranza o minoranza, ma, in ogni caso, sarebbe il giudizio di buona fede a rappresentare il criterio alla luce del quale valutare la condotta degli interessati in ambito societario.

Da ciò consegue che non è necessario dimostrare alcun intento doloso del titolare del diritto. Il criterio di giudizio della buona fede oggettiva non presuppone la prova dell’intenzione di ledere gli interessi dell’altra parte511

. In linea con quanto appena sostenuto, sembra propendere quanto affermato dai giudici di legittimità nella già menzionata sentenza del caso Renault,

per riconoscere la figura dell'abuso di potere, quale elemento invalidante delle deliberazioni assembleari finalizzate esclusivamente a favorire la maggioranza a danno della minoranza. Si può, quindi, affermare che il riconoscimento della figura dell'abuso di potere parte dal riconoscimento della società come contratto. I soci, con la costituzione della società, stipulano un contratto, essi, in quanto membri di una struttura organizzativa di matrice contrattuale, sono astretti a un vincolo derivante dalla causa del contratto sociale. Pertanto, i soci devono eseguire il contratto secondo il principio di buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c. »510 Cos, ex mulits, Cass. civ., 12 dicembre 2005, n. 27387, cit., p. 345: «Anche questa Corte ha avuto modo di osservare che la deliberazione di scioglimento di una società, che sia stata adottata dai soci nelle forme legali e con le maggioranze all'uopo prescritte, può essere invalidata, in difetto delle ragioni tipiche all'uopo previste (artt. 2377 e 2379 c.c.), sotto il profilo dell'abuso o eccesso di potere, quando risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari per perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero per ledere i diritti del singolo partecipante (come nel caso in cui lo scioglimento sia indirizzato soltanto all'esclusione del socio), mentre, all'infuori di tali ipotesi, resta preclusa ogni possibilità di sindacato in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla suddetta decisione (vedi le sentenze nn. 4236/1983, 3628/1986, 4923/1995, 11151/1995, 9353/2003)».

510 Cos, ex mulits, Cass. civ., 12 dicembre 2005, n. 27387, cit., p. 345: «Anche questa Corte ha avuto modo di

osservare che la deliberazione di scioglimento di una società, che sia stata adottata dai soci nelle forme legali e con le maggioranze all'uopo prescritte, può essere invalidata, in difetto delle ragioni tipiche all'uopo previste (artt. 2377 e 2379 c.c.), sotto il profilo dell'abuso o eccesso di potere, quando risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari per perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero per ledere i diritti del singolo partecipante (come nel caso in cui lo scioglimento sia indirizzato soltanto all'esclusione del socio), mentre, all'infuori di tali ipotesi, resta preclusa ogni possibilità di sindacato in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla suddetta decisione (vedi le sentenze nn. 4236/1983, 3628/1986, 4923/1995, 11151/1995, 9353/2003)».

511 Sulla estraneità della dimostrazione dell’intento soggettivo nell’impiego della clausola della buona fede

146

secondo i quali «la verifica giudiziale del carattere abusivo o meno del recesso512 deve essere più ampia e rigorosa e può prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere»513.

512

E verrebbe, dunque, da aggiungere, di qualunque dell’esercizio di qualunque prerogativa attribuita dall’ordinamento.

147

B

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